Gli sconvolgimenti generati dalla crisi costituiscono un severo banco di prova per Rifondazione comunista impegnata nel suo VIII Congresso. Ci si deve chiedere, in particolare, se il documento sottoscritto dalla grande maggioranza del partito – decine di migliaia di compagne e compagni uniti nella consapevolezza che il Prc deve in primo luogo vincere la sfida della sopravvivenza – sia all’altezza di una situazione in movimento e profondamente mutata nel giro di poche settimane.
Stiamo agli eventi di queste ore, mentre si attendono le dimissioni di Berlusconi e la probabile nascita del primo governo Monti. Le cronache del Palazzo dicono che le opposizioni presenti in parlamento si dividono su un aspetto a prima vista marginale. Tutti vogliono Monti e plaudono alle decisioni del Quirinale (che ha compiuto un altro passo verso il presidenzialismo). Ma il Terzo polo lo vuole a capo di un governo politico, il Pd spera che formi un esecutivo “tecnico”.
Si direbbe puro tatticismo, a fronte di un’agenda del futuro governo (in buona sostanza, la ricetta di macelleria sociale dettata dalla Bce) condivisa dai partiti chiamati a battezzarlo già nei prossimi giorni. Invece si tratta di una differenza importante, che coinvolge il rapporto con il rispettivo elettorato. Casini e i suoi non hanno nulla da perdere entrando in un governo che affonderà il colpo, per l’ennesima volta, sul lavoro dipendente. Anzi, avranno buon gioco al cospetto della propria base sociale, ergendosi a salvatori della Patria e della Famiglia. Chi invece è nei guai, se Monti chiede il diretto coinvolgimento dei partiti, è il centrosinistra e in particolare il Pd, che si imbarcherebbe in un’impresa devastante per gran parte del suo blocco sociale.
Sembra di tornare a 25 anni fa (e non è un caso, perché da quelle lontane vicende nacquero il craxismo e la fine rovinosa della Prima repubblica). Allora il Pci si svenò per sostenere i monocolori Andreotti nel nome del bene supremo del Paese. Evitò di usare la sua grande forza sociale e politica per costringere la Dc a pagare il conto delle sue enormi responsabilità. E nel giro di quattro anni (tra il 1975 e il ’79) perse buona parte del consenso, milioni di voti di lavoratori e di giovani delusi da una prudenza che si sarebbe rivelata suicida.
Oggi il Pd si ritrova in una situazione simile. Non può dire di no a Napolitano, quindi deve sostenere un governo che imporrà lacrime e sangue (nuovi tagli a stipendi e pensioni, e nuovi attacchi ai diritti del lavoro) proprio a chi lo vota. L’unica, pallida speranza è che non sia costretto ad agire in prima persona, entrando direttamente nella “squadra” di governo.
Ma se le cose stanno così (chi ne dubita, legga la biografia di Monti), la situazione offre alla sinistra di alternativa la possibilità di riprendersi lo spazio sottrattole tre anni fa dallo sciagurato accordo stretto tra Berlusconi e Veltroni, e persino di ampliarlo. Vasti settori del Paese rimarranno delusi dalle scelte del Pd al quale hanno sin qui, nonostante tutto, dato fiducia. E starà allora a noi comprenderne le esigenze e conquistarne la fiducia.
A noi chi? Certo in primo luogo a Rifondazione comunista e alla Fds. Ma anche all’insieme della sinistra. Emerge dunque con più evidenza che mai la necessità di operare per l’unità politica della sinistra di alternativa: non è forse questo il cuore del documento di maggioranza?
Alberto Burgio direzione nazionale