La crisi del capitalismo e l’uso politico che ne fanno le istituzioni europee ha trasformato l’estensione di processi di proletarizzazione di massa in terreno di scarto: sono ciò che la politica non conosce e non vuole conoscere.
E’ tempo di sacrifici, di remissione del debito, di pareggio dei bilanci pubblici. Non è tempo di denuncia dell’ingiustizia. Il governo Berlusconi, la cui esperienza volge al termine sull’ipotesi di appaltare alla tecnocrazia la gestione capitalistica della crisi, era consapevole dell’ingiustizia. La conosceva e la perseguiva per legge, come per legge dettava i canoni di un’etica pubblica votata al sacrificio delle classi subalterne: una sorta di versione estesa alla classe dell’icona remissiva e sacrificale cui l’immaginario maschile tradizionale aveva ricondotto e ancora vorrebbe ricondurre le donne. Ciò nonostante, il modo in cui alcune pratiche femministe hanno modificato i rapporti di potere tra i sessi nel ‘900 ha qualcosa da dire sul “che fare”. Le pratiche femministe che hanno lavorato sullo scarto hanno enunciato ciò che l’ordine maschile costituito non conosceva e non voleva conoscere. L’enunciazione del piacere di stare al mondo di un corpo pensante di donna si è collocato su un nuovo e differente ordine del discorso facendo affiorare un nuovo immaginario che guarda oltre la pur necessaria lotta alle iniquità date dalle diseguaglianze: quelle salariali, il doppio carico di lavoro in casa e fuori, l’accesso alle istituzioni e alle cariche pubbliche, nella distribuzione dei poteri tra donne e uomini. La lotta alle diseguaglianze come il conflitto con il maschio sono però obiettivi rivendicativi, stanno nell’ordine dello stato di cose presenti.
Allo stesso modo ci si può sottrarre alla persistenza, anche a sinistra, di un immaginario collettivo permeabile a un micidiale impasto di rigurgiti tollerati di neoliberismo e di patriarcato, facendo affiorare e dando corpo, parola e pratiche all’immaginario dei soggetti insubordinati alla nuova disciplina e alle diverse attitudini e capacità richieste dal capitale sul terreno della produzione come su quello della riproduzione.
L’autorappresentazione di sé delle metalmeccaniche e dei metalmeccanici Fiom che hanno detto di no al ricatto di Marchionne e quella delle operaie dell’Omsa sono, su questo terreno, esperienze esemplari: parlano di soggettività sconfitte ma non annichilite e decise a socializzarsi. Si tratta di un cambio di registro il cui inverarsi richiede non solo stabilità e durata nelle pratiche di relazione e di ascolto tra le diverse soggettività critiche in movimento, ma capacità di socializzare saperi e conoscenze, aspettative e sessualità in modo autentico, corrispondente alle proprie vite. In sostanza, richiede di socializzarsi in quanto individui e individue e non in quanto merce tra le merci, produttori e riproduttrici di plusvalore. Non è solo questione di costruire nuovi spazi pubblici o di acquisire visibilità, ma dell’emersione di un altro ordine del discorso che non conosce e non vuole conoscere l’inesistenza di alternative al capitalismo.
Collocare il percorso della Rifondazione comunista in questo scenario e al crocevia di due teorie pratiche di trasformazione dell’esistente come quella femminista e quella comunista: questo a me pare andare al cuore del problema, l’essenziale della nostra ricerca nel confronto congressuale. Le scelte sul piano delle alleanze elettorali ne sono il corollario nella contraddittorietà della fase politica.
Erminia Emprin direzione nazionale