EMERGENZA ECONOMICA Tribuna XII congresso PRC - SE Marco Sferini Particolarmente una frase mi ha colpito in uno dei tanti dibattiti televisivi del mattino: «Le alleanze si costruiscono nella società». Il riferimento era anzitutto all’annosa questione dei rapporti che intercorrono tra le forze della sinistra in Italia, in quel variegatissimo mondo progressista che oggi conosce una stagione di ridefinizione dei confini esterni ed interni, di ricalibratura dei concetti, di rimodulazione dei perimetri sociali entro cui muoversi più o meno agilmente. Una frase scontata, che in molti documenti congressuali mi è capitato di leggere e rileggere e che ha un profondo significato socio-politico, perché di questo parla e tratta: del rapporto che intercorre tra l’esigenza, il bisogno, la dinamica sociale che lo esprime e la rappresentanza che la politica di partito o di movimento dovrebbe in qualche modo tradurre in azione parlamentare, in leggi, in nuove aperture ai diritti per tutte e per tutti. Quando ho sentito parlare di “alleanze“, mi sono immediatamente ricordato di una riflessione molto opportuna e intelligente fatta da Ramon Mantovani sulle pagine del mensile “Su la testa” (il cui sottotitolo è “argomenti per la rifondazione comunista“). Ebbene, nell’articolo di Ramon Mantovani, si fa un po’ di giustizia sulle terminologie che vengono adoperate quando ci si riferisce proprio alle relazioni tra i partiti e, in questo caso, tra quelli che si definiscono di sinistra, socialisti, comunisti, libertari, ecologisti, magari pure radicali o che provano a reinventarsi come tali attribuendosi un patentino di “progressismo indipendente“. Ma torniamo alla questione delle terminologie adoperate ieri ed oggi in materia di rapporti tra partiti e movimenti. Quando in Rifondazione Comunista, oramai quasi da tempo immemore, si affronta questo nodo cruciale, si fa riferimento sempre e soltanto alle “alleanze”. Tanto che sono divenute uno spauracchio, premessa di possibili fratture verticali e di conseguenti scissioni. Parliamo con contezza di tutto questo, perché il PRC ne ha subite tante, troppe nel corso della sua ultra trentennale vita. Il tatticismo ci ha in qualche maniera condizionati, ma poteva essere altrimenti? Secondo Ramon Mantovani, per iniziare a considerare differentemente tanto i rapporti interni quanto quelli esterni al Partito, dovremmo mutare il nostro linguaggio; dovremmo entrare in una disposizione concettuale altra, tenendo ben presente che le alleanze si fanno tra similissimi. Ramon centra il punto: si deve parlare più opportunamente di “accordi“. Questi, infatti, si fanno con una attitudine molto differente: anzitutto sul piano della temporalità. L’accordo è momentaneo. L’alleanza dovrebbe invece durare molto a lungo. L’accordo è una stretta di mano per un anche breve tratto di strada insieme. L’alleanza è una condivisione di spazi, di idee e, magari, anche di ideologie che si simbiotizzano e che, come nel caso azzeccato di Alleanza Verdi Sinistra, si sostanziano nell’individuazione di pochi o tanti punti davvero in comune, su cui si crea un comune denominatore riconoscibile da un elettorato che ha una connotazione distinguibile dalle altre. La questione delle alleanze non è una falsa premessa per fare del tutta la nostra azione una riduzione tatticistica priva di qualunque slancio ideale, di qualunque prospettiva di medio e lungo termine. Possiamo smentire una volta per tutte che l’essere ancora oggi comuniste e comunisti voglia dire escludere qualunque accordo con chi non la pensa, la vede e la interpreta come noi questa società decadentemente moderna? Possiamo distinguere tra alleanze che faremmo magari con Alleanza Verdi e Sinistra e accordi che possiamo fare con il resto del mondo progressista italiano? Possiamo per questo evitare di veder adulterata la parte del documento 1 proposto dal segretario Maurizio Acerbo che esprime una posizione netta in merito e che non riducibile alla banalizzazione dell’essere “quelli che vogliono l’alleanza col PD“? Nessuna alleanza, perché è impossibile nei fatti. Nessun gioco di parole tra “alleanza” e “accordo” ma, come osserva molto bene Ramon Mantovani, un ristabilimento puntuale dei ruoli che vogliamo assegnare a Rifondazione Comunista con questo XII importante congresso che può determinarne il rilancio o il suo contrario. Non esistono vie di mezzo, perché le due linee proposte alla discussione dell’intero corpo del Partito sono diametralmente opposte in questa finale parte dei documenti. Siamo tutte e tutti concordi, credo, sul novanta per cento dell’analisi internazionale e anche europea che facciamo: i nostri valori sono davvero condivisi quando parliamo di libertà, di diritti civili, sociali, umani. Quando trattiamo i temi dell’ecologia e dello sviluppo. Quando ci riferiamo anche alla Storia con la esse maiuscola, tanto italiana quanto del PRC, e ripercorriamo i motivi che indussero alla rifondazione del comunismo nel nostro Paese: esattamente come “movimento reale“, come qualcosa che si agita di continuo (per dirla con Gramsci) e che è tangibile. Reale vuol dire, almeno per me, questo: che si esprime compiutamente nella realtà e che lo fa non prescindendo dal dialogo con le altre parti della società, della politica e della cultura, ma proprio cercando quella contaminazione che non è compromissione, che non è svendita di princìpi, ma è il trovare modo e maniera per incidere nei processi decisionali. Quindi, ristabiliamo un po’ di verità nella lettura anche dei documenti congressuali: il documento 1 si propone, fin dalla sua titolazione, di dare al Partito della Rifondazione Comunista una linea politica e sociale in cui al centro vi sia l’alternativa antifascista e popolare alla guerra, al neoliberismo che rappresentano un vero e proprio binomio di mutamento della fase globale multipolare in uno schema di impoverimento diffuso. Il pubblico per il pubblico e il privato a seguire, variabile dipendente dall’interesse sociale e civile dell’intera nazione. Le obiezioni a questa proposta di rimettere Rifondazione sul binario parallelo ad altri nella stazione del progressismo sono ovviamente formulabili e rivendicabili come giuste e sacrosante. Una fra le molte: l’impossibilità di riformare il centrosinistra, di essere influenti nei suoi confronti. Non è una obiezione campata in aria. Tutt’altro. Ma, in risposta, si potrebbe tranquillamente affermare che: per prima cosa la capacità di incidenza del nostro Partito è andata diminuendo sempre più in questi anni proprio a causa di scelte tattiche, cui siamo stati costretti dalle tagliole delle leggi elettorali fatte per escludere le ali degli schieramenti e, in generale, della politica italiana che doveva puntare al centro come fulcro trasformistico del resto dell’agone parlamentare. In secondo luogo, riagganciandoci a questa proposizione, di potrebbe altresì affermare che questa sempre minore capacità di influenza è stata la premessa per una irrilevanza ormai manifesta e che, quindi, le giuste ragioni che abbiamo sempre espresso non sono state sufficienti a ridestare una coscienza critica e di classe in vasti strati di quel moderno proletariato del nuovo millennio che ha bisogno di risposte urgenti e riconducibili ad un più complesso e articolato rapporto con gli altri corpi intermedi. Per primo il sindacato. Non basta aprire un dialogo con le forze progressiste per valutare, di volta in volta, eventuali accordi, se non si dà a questo nostro Partito un tratto oggettivamente distintivo sul terreno del riferimento sindacale. Possiamo dire che la “rivolta sociale” la tifiamo? C’è una sorta di atavico timore di perdita di una purezza ideologica che si riverbera nella tattica politica alternativa a quella dell’apertura del dialogo con le altre forze del campo progressista. Facendo ciò, alcune compagne e alcuni compagni, ritengono di non essere più rivoluzionari, di scadere nel riformismo, di tralasciare l’alterità al sistema cui ritengono di sfuggire almeno concettualmente. Ma è stando nelle contraddizioni del sistema che lo si può disarticolare, non costruendo partitini dello zero virgola cinque per cento che reclamano lo “Stato” o il “governo dei lavoratori” e che non producono, al lato pratico, nessun meccanico movimento di effetto concreto che parta dalla causa da cui si premettono di partire. Avendo ragione, certo, ma perdendo il senso di quella ratio sociale e politica in una analisi autombelicale, in un compiacersi della propria coerenza che sbatte il muso contro l’indifferenza di coloro che dovrebbero invece seguirli. Quello che ci prefiggiamo di fare è mantenere l’autonomia di Rifondazione Comunista in una stagione davvero epocale che ha bisogno, soprattutto a sinistra, di una presenza anticapitalista nella politica italiana. Dialogare per fare tratti di strada insieme a coloro con i quali condividiamo la difesa della democrazia, della pace, del lavoro, dell’ambiente non è tradire l’essenza del comunismo che vogliamo ancora interpretare. Ci dobbiamo convincere che una vera azione rivoluzionaria è fare in modo che il progressismo italiano includa nuovamente i comunisti nel novero delle forze capaci di esprimere i bisogni di quella parte più sfruttata e povera della società che non va a votare, che ha perso completamente la fiducia anche nella Costituzione, nei grandi valori di libertà ed uguaglianza che sono gli architravi della democrazia repubblicana. Se esiste anche solo una possibilità, per noi che ci definiamo anticapitalisti, di avere un ruolo nel frenare e nel controvertire la retrocessione incivile e immorale del nostro Paese, dobbiamo coltivarla e proporla. Dobbiamo farlo nel nome della nostra storia: la nascita di Rifondazione Comunista è stata esattamente questo. La non rassegnazione ad una illusione socialdemocratica che si è dimostrata fallace e che, se non ci fosse stato il PRC, avrebbe fatto ancora più danni di quelli che ha causato portando la sinistra verso la stagione delle privatizzazioni e poi del governismo a tutti i costi. Noi non dobbiamo fare alleanze di nessun tipo, perché vogliamo continuare ad essere autonomi. Ma non vogliamo nemmeno precluderci a priori la possibilità di contemplare accordi, non meno che i disaccordi, con chiunque nel campo progressista incontri le nostre ragioni e noi le sue. Temporaneamente, ma con una efficacia degna del migliore concetto di politica. Ossia quello di partecipare, di condividere, di tornare ad essere una forza comunista e non una debolezza irrilevante, testimonianza di un passato a cui si nega, con la preclusione del confronto, un avere nell’oggi e nel prossimo domani una valenza, un ruolo, una possibilità di riscatto non tanto per sé stesso, quanto per tutte e tutti coloro che sono sfruttati e lasciati ai margini della finta società del benessere.
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