VIII Congresso Prc » Documenti congressuali http://web.rifondazione.it/viii VIII Congresso nazionale del Partito della Rifondazione Comunista Mon, 05 Dec 2011 14:38:24 +0000 en hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.2.1 Documento 1 http://web.rifondazione.it/viii/?p=60 http://web.rifondazione.it/viii/?p=60#comments Wed, 05 Oct 2011 17:51:33 +0000 admin http://web.rifondazione.it/viii/?p=60 Continua a leggere ]]> UNIRE LA SINISTRA D’ALTERNATIVA, USCIRE DAL CAPITALISMO IN CRISI

La crisi del capitalismo ha aperto un’epoca di grandi sommovimenti. Certezze che parevano consolidate sono messe in discussione. Non solo il paesaggio sociale ma le stesse vite delle persone vengono scosse, quando non travolte. La crisi del capitalismo, presentato dai cantori del pensiero unico come un fenomeno naturale, non viene compresa a livello di massa nelle sue caratteristiche strutturali e per questo produce un forte senso di spaesamento e disorientamento. Per dirla con Gramsci, siamo entrati in una fase di guerra di movimento e, mai come oggi, il pensiero di Marx, basato sulla “critica dell’economia politica”, si mostra attuale.
Proprio in questo grande sommovimento noi riteniamo si sia riaperta la partita sul futuro dell’umanità. Non perché vi sia all’orizzonte un fantomatico crollo del capitalismo ma perché vi è un accumulo di contraddizioni che ne segnano la crisi organica. Dopo anni in cui il capitalismo neoliberista è stato presentato – da destra ma anche da sinistra – come la fine della Storia, la grande crisi ci parla del fallimento di un capitalismo che mostra appieno il suo carattere distruttivo: dei diritti, dell’ambiente, delle vite e delle relazioni, così come ci parla del fallimento delle socialdemocrazie.
L’ideogramma cinese che rappresenta la parola crisi è composto di due elementi, che significano rispettivamente pericolo e opportunità. Questo documento è il nostro contributo al fine di battere i pericoli e valorizzare le opportunità. Un contributo, che offriamo ai soggetti sociali colpiti dalla crisi, alle aggregazioni che nella società si battono per un cambiamento, alle forze della sinistra e comuniste,  per costruire un confronto finalizzato alla trasformazione sociale. Un cambiamento della realtà in cui viviamo, per uscire dal capitalismo in crisi e dal patriarcato, risolvendo positivamente l’alternativa socialismo o barbarie che si ripresenta ai giorni nostri ma anche un cambiamento nostro, perché molta è la strada da fare.
Un cambiamento che nasce dall’internità ai movimenti sociali e dalla costruzione condivisa di una soggettività anticapitalista. Il compito dei comunisti e delle comuniste non si esaurisce nell’analizzare o peggio nel contemplare il maturare delle contraddizioni di questa crisi. Al contrario si sostanzia nella partecipazione ai movimenti di lotta e nell’azione diretta all’unificazione degli stessi. Rovesciare la crisi costituente in una opposizione costituente significa mettere al centro della nostra iniziativa politica l’espressione e la costruzione della soggettività antagonista, significa intrecciare i nostri destini con il protagonismo di massa. E’ un cammino che abbiamo cominciato dieci anni fa a Genova, e che abbiamo il desiderio e la responsabilità di continuare, ora più che mai.
Le rivolte nel Nord Africa, quelle giovanili in Europa, la resistenza del movimento operaio in tutto l’Occidente capitalistico, i movimenti dell’America Latina ci parlano di questa volontà di cambiamento.  Se dai disastri prodotti dalla crisi traiamo il convincimento della necessità di superare il capitalismo, dalla partecipazione alle lotte e alle mobilitazioni traiamo la certezza che questo è possibile. Se la gestione capitalistica della crisi rappresenta il pericolo, lo sviluppo del movimento rappresenta l’opportunità.
Per questo, nel XX anniversario dalla nascita di Rifondazione Comunista, avanziamo analisi e proposte con l’obiettivo di dar vita ad una alternativa di società, per costruire un movimento politico di massa contro il capitalismo,  l’uscita da sinistra dalla crisi e una sinistra degna di questo nome.

Capitolo 1 – ATTUALITA’ DEL COMUNISMO

Mai come oggi nella storia dell’umanità è stata così evidente la contraddizione tra una diffusa domanda di libertà e di giustizia e l’incapacità del sistema sociale di soddisfarla. Questa distanza si va via via accentuando a causa della crisi strutturale del capitalismo. Non solo il capitale non è in grado di dare una risposta ai problemi del futuro dell’umanità, ma determina una pesante regressione del grado di civiltà a cui l’umanità era giunta. Questa regressione,  lungi dall’essere un incidente di percorso, è il frutto maturo del pieno dispiegarsi della globalizzazione neoliberista.
Rompere la gabbia dei rapporti sociali capitalistici è quindi un’urgenza per l’umanità ed è ciò che noi chiamiamo l’attualità del comunismo.
Questa urgenza oggettiva per l’umanità non è, tuttavia, una consapevolezza di massa.  Vi sono ragioni di fondo che spiegano questa situazione contraddittoria, in primo luogo culturali. Infatti, l’ideologia neoliberista continua ad operare nonostante il fallimento del neoliberismo stesso. Il “pensiero unico” in questi anni ha descritto il capitalismo e il neoliberismo come un processo naturale, oggettivo. Convincimento che è oggi largamente diffuso pur in presenza di un palese fallimento del sistema. Parallelamente, il fallimento delle socialdemocrazie e la sistematica demolizione della prospettiva del comunismo  operata in questi anni appiattendo la storia del comunismo sullo stalinismo – ha inciso a fondo nelle coscienze.
Ci troviamo quindi davanti ad una maturità oggettiva dell’uscita dai rapporti sociali capitalistici e ad un immaginario collettivo colonizzato da una ideologia che presenta il capitalismo come la “fine della Storia” e ogni alternativa socialista come barbarica, come un ritorno indietro.
Ciononostante, nel mondo, a partire dalla fine degli anni ‘90, è sorto un forte movimento contro il capitalismo neoliberista. Il movimento alter mondialista è cresciuto notevolmente passando dalla contestazione delle scelte globali capitalistiche alla costruzione di proposte alternative. In diversi paesi dell’America Latina, dove le politiche neoliberiste sono state applicate prima che altrove e dove le conseguenze sono state più visibili, forti movimenti di lotta hanno avuto la capacità di sconvolgere le relazioni politiche e di conquistare il governo, ponendo esplicitamente il tema della costruzione del socialismo del XXI secolo.
L’esempio latinoamericano ci dice quindi che, per superare la situazione contraddittoria in cui operiamo, è necessario partire dal movimento e costruire un nuovo immaginario in grado di presentare la trasformazione radicale dello stato di cose presenti, come una prospettiva auspicabile per i soggetti che lottano per la libertà e la giustizia. E’ quello che noi  chiamiamo processo della rifondazione comunista.

Capitolo 2 – LA NECESSITA’ DELLA  RIFONDAZIONE COMUNISTA

È decisivo, per costruire un immaginario della trasformazione che esprima fino in fondo l’essenza della nostra proposta politica, definire il rapporto con la nostra storia.
Il movimento comunista ha alle spalle una storia secolare, che per molti aspetti coincide con i tanti tentativi di liberazione umana che l’hanno percorsa, con le molte “scalate al cielo” che sono state sperimentate da milioni di esseri umani. In questa molteplicità di riferimenti, la Rivoluzione d’Ottobre mantiene un valore peculiare: essa è stata uno spartiacque del XX secolo. Per la prima volta nella storia le masse hanno preso in mano il loro destino. La Rivoluzione d’ottobre ha permesso al popolo russo di uscire da una situazione di miseria, servaggio e ignoranza ed ha modificato in profondità gli equilibri del mondo, rompendo il monopolio planetario del mercato capitalistico e influenzando l’intero corso rivoluzionario del ‘900, fino alle liberazioni anticoloniali. Ha costretto le classi dominanti dell’Occidente capitalistico a compromessi significativi con il movimento operaio. Ha contribuito in termini decisivi alla sconfitta del nazifascismo.
Questi indiscutibili meriti politici e storici non hanno impedito il profondo processo involutivo e degenerativo delle società post-rivoluzionarie, che è stato tra le cause principali del loro fallimento. Al di là del necessario bilancio storico, politico e ideale che è ancora largamente da compiere, è proprio dalla dialettica tra la validità dell’ottobre e il fallimento dei tentativi di transizione che emerge la necessità strategica della rifondazione di un pensiero, di una pratica e di una politica comunista.
Per ciò il progetto della rifondazione comunista, di un’identità comunista adeguata al XXI secolo, implica una rottura radicale con lo stalinismo. Non proponiamo qui un’operazione di bilancio storico, ben altrimenti impegnativa, ma di verità politica e di identità teorica: la separazione dallo stalinismo è anche e soprattutto la messa in causa di un paradigma della transizione, di una concezione della politica, di una funzione del partito. Nel comunismo italiano, la rottura è avvenuta, prevalentemente, in nome dei diritti della persona e della necessità della democrazia rappresentativa: nel nuovo movimento comunista queste ragioni devono essere sviluppate fino in fondo, in nome della società nuova da costruire, della liberazione del lavoro e dal lavoro, del rifiuto della sussunzione della cittadinanza nella statualità. In questo senso si può essere portatori e portatrici credibili di un’ipotesi rivoluzionaria e comunista solo in quanto essa si definisce in discontinuità rispetto all’esperienza del “socialismo realizzato”.
In questa eredità negativa, individuiamo, prima di tutto, l’idea di un “campo socialista” – campo statuale – al quale sacrificare, o subordinare, gli interessi strategici del movimento operaio mondiale: una distorsione di prospettiva improponibile, anche e soprattutto per il futuro. In secondo luogo, l’ossificazione dogmatica della teoria: un sostituto autoritario e inefficace dell’analisi dei processi reali, della metodologia dell’inchiesta, della verifica. In terzo luogo una centralità assorbente di uno sviluppo industriale centralizzato, che ha prodotto un grande sviluppo economico ma contemporaneamente ha riprodotto rapporti di produzione gerarchizzati, non ha liberato il lavoro e ha contribuito all’ulteriore centralizzazione antidemocratica dello stato. Infine, e soprattutto, la riduzione del socialismo a pura dimensione della conquista e della gestione del potere politico e istituzionale. E’ da questo deficit – non dal surplus – di socialismo che sono derivate la concezione (e la pratica) totalizzante e dispotica del Partito, l’arbitrio incontrollabile del leader, la cancellazione di ogni istanza democratica di base nell’organizzazione e nella società, la fine della libertà sindacale, la riduzione degli individui e delle persone ad appendici insignificanti della potere.
A partire da questi punti fermi noi riteniamo possibile costruire un nuovo movimento che si ponga in sintonia con l’aspirazione alla libertà e alla giustizia di larga parte dell’umanità.
Il comunismo  a cui facciamo riferimento è un comunismo di società, legato alla democratizzazione della vita quotidiana, al rispetto e alla valorizzazione della dignità delle persone che porta con sé il ridisegno delle relazioni tra le persone e tra la società e la natura. Noi riteniamo che oggi sia aperta questa possibilità e questa necessità: la possibilità di liberare i rapporti sociali dal loro involucro capitalistico e nel contempo la necessità di fare questo per evitare la barbarie che la crisi del capitale produce.
Le linee fondamentali attorno a cui sviluppare la ricerca e il lavoro politico, che proponiamo a partire dalla consapevolezza della parzialità del nostro punto di vista europeo dentro la globalizzazione,  sono a nostro parere:
La dimensione internazionale. Occorre porre l’obiettivo dell’unità dei lavoratori e di tutte le soggettività anticapitaliste in un movimento mondiale. Senza questa dimensione la lotta e le stesse elaborazioni e discussioni teoriche dei comunisti e della sinistra anticapitalista nei singoli paesi sono destinate a non essere all’altezza del compito che impone la globalizzazione capitalistica.Il movimento dei movimenti ha costruito in questi anni una strada fatta di relazioni paritarie e solidali. Si tratta di sviluppare questo indirizzo nella costruzione del movimento ed in direzione di un ridisegno democratico delle relazioni internazionali,  basato sulla soluzione politica e negoziata delle controversie e dei conflitti,  sulla cooperazione , sulla gestione razionale delle risorse scarse, noi proponiamo un nuovo umanesimo, una prospettiva solidale contrapposta alla pratica dell’accaparramento delle risorse finalizzata alla massimizzazione delle esportazioni, che caratterizza la risposta alla crisi da parte delle classi dominanti.
La democratizzazione della vita quotidiana. Riteniamo la democrazia elemento fondante della costruzione del movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Una piena democrazia formale e sostanziale e dunque di genere, nella consapevolezza che senza democrazia non può esistere il comunismo.
Il neoliberismo tende a ridurre la democrazia ad un simulacro privo di poteri reali. Rilanciare la democrazia significa anzitutto che il complesso delle scelte economiche più rilevanti deve essere deciso democraticamente. Significa superare la proprietà privata dei mezzi di produzione e determinare la proprietà e il controllo sociale della produzione. Parimenti lo stato deve riprendere la signoria sulla moneta, le banche di interesse nazionale devono essere nazionalizzate e sottoposte a controllo democratico, così come gli investimenti.
La democrazia di cui parliamo deve evidentemente garantire la formazione e l’espressione libera, critica e consapevole degli orientamenti politici e lo sviluppo della democrazia partecipata a tutti i livelli di gestione della cosa pubblica: dalle città alle imprese al welfare. L’intreccio tra democrazia diretta, partecipata, di genere e rappresentativa, la piena democratizzazione del sistema informativo e il pieno accesso ai saperi sociali, definiscono quella  “democratizzazione della vita quotidiana” a cui puntiamo.
La socializzazione dei mezzi di produzione e la riconversione ambientale e sociale dell’economia. La socializzazione dei mezzi di produzione è necessaria al fine di porre il diritto al lavoro e la liberazione del lavoro quale fondamento di ogni diritto, in un quadro di riconversione ambientale e sociale dell’economia.Il diritto al lavoro non si traduce per noi nell’obiettivo della crescita del PIL. Lo sviluppo sociale a cui tendiamo non può essere misurato in termini di crescita economica. Sia perché il PIL misura in modo assai distorto la quantità e la qualità  dei bisogni che vengono soddisfatti, sia perché riteniamo necessario fare i conti fino in fondo con la limitatezza delle risorse. Riteniamo infatti che l’obiettivo di una crescita economica illimitata ed indiscriminata sia distruttivo di un corretto rapporto tra società e natura e non sia desiderabile sul piano sociale. Si tratta in generale di dar vita ad un sistema produttivo basato sul, risparmio energetico, sul riciclo dei rifiuti sulla sostituzione delle produzioni nocive, in un quadro di mobilità sostenibile, di riassetto idrogeologico del territorio, di sviluppo equilibrato nel rapporto città – campagna, ecc.
Per noi il tema del diritto al lavoro è tutt’uno con la socializzazione dei mezzi di produzione e con la riconversione ambientale e sociale dell’economia e delle produzioni.
Demercificare. Il capitalismo è basato sul continuo allargamento dell’ accumulazione e sulla trasformazione di ogni rapporto sociale e ogni cosa in merce. Centrale nella prospettiva del comunismo è al contrario  una progressiva e radicale demercificazione. La merce è la forma della produzione capitalistica attraverso cui si soddisfano i bisogni che riescono a presentarsi nella forma della domanda solvibile. Per noi demercificare significa produrre valori d’uso che siano in grado di soddisfare i bisogni sociali nella forma di diritto. Su questa strada si è mosso il referendum per l’acqua pubblica, che ha fissato il diritto all’acqua potabile per ogni abitante.
Si tratta di un passo nella direzione che stiamo indicando. Noi riteniamo necessario superare la forma merce in ogni ambito: dal lavoro alle relazioni sociali. Vogliamo cioè allargare la sfera dei bisogni sociali che vengono soddisfatti, senza transitare attraverso il mercato, allargando la sfera dei diritti esigibili.
Ciò oggi è reso possibile dall’enorme aumento della produttività sociale del lavoro e dal fatto – del tutto evidente – che larga parte dei bisogni sociali che si determinano in una società avanzata come la nostra si possono soddisfare più facilmente e più razionalmente nella forma del diritto che non nella forma della merce. Si pensi solo alla salute o all’istruzione, per non fare che due esempi.
Riduzione d’orario e liberazione del lavoro. Il lavoro deve essere un diritto, garantito a tutti e tutte e non una merce. Demercificare significa quindi battersi per una liberazione del lavoro dallo sfruttamento e dall’alienazione e contemporaneamente per una drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Riteniamo l’intreccio tra questi due elementi decisivo e così è stato sin dagli albori del movimento operaio.
Quello che è stato storicamente l’obiettivo del movimento operaio oggi più di ieri è una possibilità concreta. Da un lato l’accresciuta produttività del lavoro – oggi evidenziata dalla disoccupazione di massa – richiede una drastica redistribuzione del lavoro – e quindi una riduzione del tempo di lavoro. Dall’altra, la diffusione dei saperi sociali pone le condizioni per il superamento dell’organizzazione gerarchica dei processi lavorativi e per determinare democraticamente da parte dei lavoratori, cosa, come, per chi produrre. I rapporti di produzione capitalistici, producendo merci, riproducono contemporaneamente gerarchie sociali. Per questo il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione è condizione necessaria ma non sufficiente per dar vita ad una effettiva modifica dei rapporti sociali. La  riduzione dell’orario di lavoro deve intrecciarsi alla messa in discussione della divisione tra compiti di ideazione e di esecuzione e dei ruoli gerarchici, deve socializzare i saperi nei processi di lavoro. Occorre mettere in discussione il rapporto tra vita e lavoro, i ruoli gerarchici prodotti dalla divisione capitalistica del lavoro e praticare un effettivo controllo sociale della produzione.
I beni comuni. Riteniamo che i beni comuni siano una nozione costituente dell’idea di alternativa di società. I beni comuni non vanno contrapposti alla sfera pubblica, perché rappresentano lo sviluppo e la qualificazione della nozione stessa di pubblico. Non si tratta quindi di passare dallo stato al comune ma di porre in dialettica stato e comune, stato e controllo sociale attraverso il rafforzamento della democrazia diretta, partecipata e di genere.
L’ampliamento della sfera dei beni comuni è il modo attraverso cui ripensare sia il tema del superamento della proprietà privata che il complesso dell’intervento pubblico in economia. La gestione pubblica e partecipata della sfera della riproduzione sociale –il primo e fondamentale bene comune- è il centro della costruzione di uno stato sociale, che punti esplicitamente a superare la divisione sessuata del lavoro. Al contrario di quanto è avvenuto in questi anni, proponiamo lo sviluppo del welfare caratterizzato dal rapporto tra  stato e controllo/autogestione sociale. Si tratta di  prevedere la partecipazione dei cittadini e delle cittadine nella programmazione e nella gestione dei servizi pubblici, l’autogestione dei lavoratori e delle lavoratrici, il controllo degli utenti. Superare cioè la nozione di cliente che le politiche neoliberiste hanno introdotto nei servizi per realizzare la partecipazione e il controllo consapevole di cittadini e lavoratori.
L’opposizione al patriarcato. La lotta al patriarcato e l’assunzione del punto di vista di genere sono fondanti dell’idea e del progetto di alternativa di società. I soggetti sono sempre sessuati, lo sono dunque anche i soggetti della trasformazione. Il conflitto di genere e il dominio maschile non nascono con il capitalismo: occorre pertanto indagare i caratteri specifici che il dominio maschile e il patriarcato assumono con la sussunzione, dentro la logica mercatista, di tutti i tempi della vita, della produzione e della riproduzione, del lavoro, delle relazioni, della cura.
In Italia il patriarcato assume il volto di una reazione conservatrice e oscurantista in cui il Vaticano gioca un ruolo fondamentale nel riprodurre ideologie misogine, omofobe e negatrici delle libertà delle persone nelle scelte della vita di relazione, comprese quelle di coppia e sessuali.
Occorre indagare il nesso, solo apparentemente contraddittorio, tra il fondamentalismo del mercato e quello delle ideologie neo-familiste. Nella mercificazione e reificazione dei corpi delle donne, come nella riproposizione della ruolizzazione di maschile e femminile, sono negati i percorsi di auto-determinazione e affermazione di soggettività e libertà delle donne. Nessuna alternativa di società è possibile senza l’assunzione del punto di vista di genere. Se non si combattono insieme mercato e patriarcato non si è all’altezza della costruzione di un blocco storico per l’uscita dal capitalismo. Senza l’assunzione del punto di vista della differenza di genere e della sessuazione dei soggetti, non si riesce a coniugare uguaglianza e libertà, e, drammaticamente se ne ripropone la scissione, causa profonda della sconfitta del movimento operaio novecentesco.Per tali ragioni, il femminismo è tema fondante della rifondazione comunista.

La libertà degli individui. Il nostro obiettivo è la liberazione delle donne e degli uomini, attraverso percorsi di autodeterminazione, per l’affermazione delle loro soggettività e lo sviluppo della loro individualità.
Marx parla di questo in molti suoi scritti quando sostiene che: “Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. E’ la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso.”
Marx introduce cioè una significativa distinzione tra proprietà individuale – cioè dell’individuo – e proprietà privata, che corrisponde al massimo di spoliazione economica, cognitiva, esistenziale della stragrande maggioranza degli individui. Su questa distinzione si fonda la nostra idea del comunismo, in cui il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione e della mercificazione integrale della società è la condizione per determinare la piena libertà degli uomini e delle donne.
Condizione per la libertà è il superamento dell’ideologia della fine delle ideologie, cioè del “pensiero unico”. Non si tratta di un pensiero solo economico ma di una visione del mondo complessiva. Non ci vendono solo merci ma stili di vita. In questo contesto la riduzione dei cittadini a sudditi quando non a servi, incapaci di comprendere e quindi di decidere sulla gestione dei grandi macrosistemi, è stata un punto fondamentale. La distruzione della democrazia – basata anche sul controllo pervasivo dei mezzi di comunicazione di massa – avviene in parallelo ad una sorta di infantilizzazione degli umani, che devono essere guidati, non essendo in grado da soli di badare a se stessi e al bene comune.
La sconfitta del pensiero unico, la costruzione di una soggettività forte, che incorpori saperi e pratiche di autodeterminazione, è quindi un punto fondante della lotta per il comunismo. Esattamente come ci hanno insegnato le donne attraverso la ricostruzione della soggettività femminile quale conditio sine qua non per una reale battaglia di liberazione.

In conclusione. Noi riteniamo che l’intreccio tra i processi di trasformazione materiale e di costruzione di soggettività, apra la strada alla democratizzazione della vita quotidiana intesa come processo di trasformazione e di fuoriuscita dal capitalismo. Dignità degli individui e potere decisionale diffuso sono quindi aspetti fondanti il nostro progetto politico.
A partire da queste riflessioni riteniamo utile aprire una discussione e un confronto con le forze politiche e le soggettività che si richiamano al comunismo.
Capitolo 3 – UNA CRISI COSTITUENTE
Il contesto in cui viviamo è caratterizzato da una crisi capitalistica strutturale. Sono entrate infatti in crisi le politiche neoliberiste messe in atto a partire dagli anni ’70 per contrastare la caduta del saggio medio del profitto.
Negli anni ’60 e ’70, sulla scia della vittoria contro il nazifascismo, dello sviluppo economico reso possibile dalle lotte operaie, dalle politiche keynesiane e dei processi di decolonizzazione, si è posta a livello mondiale la possibilità per l’umanità di fare un passo in avanti. L’intreccio tra autodeterminazione dei popoli, messa in discussione delle divisioni di classe e libertà dell’individuo, rappresentano i tre elementi che hanno caratterizzato quella fase di cambiamento e di profonda domanda di trasformazione.
Alla modifica dei rapporti di forza tra le classi e alla domanda di trasformazione, il capitale ha risposto dapprima con la disdetta degli accordi di Bretton Woods da parte degli Stati Uniti (1971) facendo così venire meno il punto di stabilità nelle relazioni economiche finanziarie su cui si era basato lo sviluppo del secondo dopoguerra.  In seguito dando vita ad una vera e propria rivoluzione conservatrice che ha avuto nelle ideologie e nelle pratiche neoliberiste la propria stella polare.
Dallo Stato al Mercato. I punti fondamentali su cui il neoliberismo ha agito per sconfiggere il movimento operaio e le istanze di trasformazione sono fondati sulla progressiva cessione di sovranità che gli stati hanno praticato a favore dei potentati economici privati. Questo processo politico di deregulation, di gigantesche privatizzazioni, ha lasciato mano libera ai privati in tutti i settori dell’economia, dalla finanza al commercio. In questo contesto si è realizzata una fortissima finanziarizzazione dell’economia, un gigantesco processo di centralizzazione dei capitali e la globalizzazione della produzione di merci. Negli anni del neoliberismo – al contrario di quanto sostenevano le tesi sulla fine del lavoro – è raddoppiata la quota di lavoratori sottoposti al dominio del capitale.
Il ricatto sul lavoro che questi processi hanno generato, la riduzione dei salari e l’attacco al welfare che ne sono derivati, è all’origine della crisi poiché ha ridotto la domanda aggregata. Quella domanda che è stata sostenuta a livello mondiale da un lato con l’accesso al consumo di centinaia di milioni di nuovi proletari, dall’altro allargando a dismisura il credito al consumo negli USA. Questo processo non ha però risolto le contraddizioni ma le ha allargate. Da un lato perché i salari nei paesi in via di sviluppo crescono meno della produttività. Dall’altro perché il credito al consumo dei lavoratori poveri ha prodotto schiere di consumatori insolventi che sono stati all’origine dello scoppio della bolla finanziario-immobiliare negli USA.
Infatti l’abnorme sviluppo della sfera finanziaria ha prodotto squilibri fortissimi. La centralizzazione dei capitali e l’instabilità sono i connotati più rilevanti del capitalismo finanziario. Gli alti tassi di profitto sono stati realizzati con operazioni largamente speculative, sempre più rischiose, che producono a ripetizione bolle speculative destinate ad esplodere. L’interconnessione mondiale che caratterizza i mercati finanziari è alla base della dimensione globale della crisi capitalistica.
Questi processi, oltre all’espansione territoriale del sistema capitalistico parallela alla caduta del “socialismo reale”, hanno dato vita ad un potente e apparentemente illimitato sviluppo per quasi un ventennio. Uno sviluppo carico di contraddizioni che oggi sono venute chiaramente al pettine, in un contesto in cui la crisi colpisce in modo assai differenziato le diverse aree del pianeta. Mentre i BRIC stanno crescendo a ritmi sostenuti, il Giappone, l’Europa e gli USA sono sostanzialmente in stagnazione. Questa crisi rappresenta quindi anche un deciso spostamento di baricentro del potere economico e politico nel mercato mondiale e delle sfere di influenza geopolitiche.
Il Pensiero Unico. Il processo di “rivoluzione conservatrice” è stato giustificato da una fortissima componente ideologica, che si è espressa in tutti  i campi della comunicazione e della produzione simbolica: il “Pensiero Unico”. Una vera e propria “concezione del mondo” a-dialettica che non a caso è partita dall’assunto della fine della storia dell’umanità, raggiunta nella vittoria integrale del capitale globalizzato. Un’ideologia che naturalizza le gerarchie sociali e pone il tema dell’egoismo individuale – in realtà del godimento autistico – come valore fondante. Unisce il massimo di darwinismo sociale con il massimo di capacità pervasiva dei comportamenti. Il Pensiero Unico ha dato un grande contributo all’imbarbarimento dei costumi sociali ed è tutt’altro che in crisi. E’ in crisi il neoliberismo ma non l’egemonia dell’ideologia reazionaria che ne ha accompagnato l’affermazione.
Il sistema non è riformabile. Il punto di fondo è però la crisi irreversibile delle forme concrete con cui il capitale si era ristrutturato, a partire dagli anni ’70, per contrastare la caduta del saggio medio del profitto e la sua perdita di egemonia. L’espansione enorme della speculazione finanziaria, che ha determinato una vera e propria trasformazione qualitativa del capitalismo, non è quindi una patologia. E’ la forma concreta con cui il capitale ha contraddittoriamente cercato di rispondere ai propri problemi di valorizzazione, contrastando le domande di trasformazione sociale. E’ la natura di fondo che ha assunto il capitalismo al fine di aggirare la propria crisi ad essere andata in frantumi. Per questo la crisi è costituente e non lascerà nulla come prima, il capitale non può semplicemente tornare indietro. La messa in discussione della libertà delle istituzioni finanziarie private metterebbe radicalmente in discussione gli assetti di potere capitalistici. La messa in discussione della libertà della finanza porrebbe nuovamente il tema dell’intervento pubblico in economia e quindi – in ultima istanza – il nodo della democrazia economica, del socialismo. Ogni azione di regolazione riproporrebbe cioè i nodi che il capitale aveva davanti a sé negli anni ’70 e che con il neoliberismo ha cercato di rimuovere.
Viceversa, una pura prosecuzione della finanziarizzazione dell’economia, come sta avvenendo sin’ora, è destinata a continuare a produrre crisi e speculazione,  aumentando l’instabilità sociale. Così come il proseguire di politiche deflazioniste finalizzate all’esportazione e tutte tese a ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto, in assenza di qualsivoglia politica indirizzata alla costruzione di un mercato solvibile, è destinata semplicemente ad avvitarsi su se stessa e a determinare l’impoverimento di fasce sempre più ampie di popolazione dei paesi occidentali.
Gli anni ’70 hanno mostrato l’impossibilità per il capitale di dar vita ad un processo di autoriforma. Oggi, di fronte al fallimento della restaurazione capitalistica, si pone in termini netti l’alternativa tra socialismo o barbarie. L’alternativa tra la rimessa al centro dell’economia dello sviluppo sociale e la distruzione della società ad opera dell’economia finanziarizzata. Non si tratta di correggere qualche distorsione del modello di sviluppo ma di modificarlo in radice, giacché sempre più si presenta come forma estrema di dominio di classe divaricato dal progresso sociale.
La crisi è ambientale ed energetica. La globalizzazione neoliberista e l’allargamento del modo di produzione capitalistico ad aree del mondo prima escluse ha determinato un netto aumento del consumo di materie prime. La scarsità delle materie prime e delle fonti energetiche tradizionali da un lato, il problema dell’inquinamento e del rapporto tra  natura e società dall’altro, sono diventati una questione strutturale non più rinviabile: il tema dei limiti fisici e sociali della crescita economica. Gli stessi fenomeni del risorgente nazionalismo, delle piccole patrie, del razzismo sono da leggere dentro questa dinamica. Il tema delle risorse scarse e del loro accaparramento, dei livelli e degli stili di vita da “difendere” contro gli invasori – contro “gli altri” – rimandano sempre allo stesso problema. Siamo in regime di risorse scarse e la loro condivisione mette in discussione il mantenimento degli standard acquisiti nei paesi occidentali.
La tendenza alla guerra. Per questo il mondo nella fase neoliberista è instabile e percorso da grandi conflitti competitivi, di cui quello libico è solo l’ultimo in ordine di tempo. La guerra permanente lanciata da Bush e la potenza militare sono gli architravi di un nuovo ordine mondiale che, al contrario di quanto si era potuto sperare con la nascita dell’ONU, considera l’instabilità inevitabile o addirittura necessaria al fine di “governare” gli effetti della globalizzazione sulle relazioni fra diverse aree geopolitiche. Si intrecciano i classici interessi relativi al controllo delle materie prime (comprese l’acqua e la biodiversità prima escluse dal mercato capitalistico) a quelli relativi al puro dominio politico dei paesi ricchi oggi in crisi. Il rilancio della NATO a scapito dell’ONU, le guerre unilaterali fatte da coalizioni a geometria variabile, lo “scontro di civiltà”, le “guerre umanitarie”, le ripetute violazioni del diritto internazionale non sono episodi isolati, ma ormai una costante da almeno vent’anni. Nonostante le propensioni mostrate da Obama, sono destinati a crescere nella crisi attuale, anche in previsione della competizione fra aree geopolitiche che viene accentuata dalla crisi stessa. Basti pensare al conflitto in Libia, che accanto ad una vergognosa capitolazione dell’ONU riguardo ai suoi compiti, ha visto un ruolo aggressivo di Francia e Inghilterra, finalizzato al determinare una propria sfera di influenza. Così come il protagonismo USA nel conflitto libico e nel tentativo di determinare uno sbocco moderato delle rivolte in Nord Africa, ha molto a che vedere con una ripresa di ruolo forte degli USA nell’area – anche al di là di Israele – e con un forte interesse a contrastare la penetrazione cinese nel continente africano.
La stessa globalizzazione ha quindi posto le basi per una decisa modifica dei rapporti di forza a livello mondiale. Se dopo l’89 abbiamo avuto un mondo unipolare, oggi questo è radicalmente messo in discussione dal ruolo della Cina e dei paesi emergenti. La Cina non è solo “la fabbrica del mondo” ma anche una potenza tecnologica e militare in crescita. Inoltre la Cina – oltre a rafforzare la propria presenza nell’economia europea e africana – detiene una parte significativa del Debito Pubblico degli USA. Quest’ultimo elemento in questi anni ha costituito un fattore di convergenza di interessi: gli USA consumano al di sopra delle proprie possibilità fornendo però uno sbocco di mercato alla produzione cinese.  Questa fase volge però al termine, perché troppo squilibrata. La questione che ci troviamo di fronte non è quindi solo la messa in discussione dell’impianto unipolare del mondo ma il fatto che questo mette in discussione i livelli di vita e di consumi degli Stati Uniti. Il tutto in una situazione in cui gli USA rimangono però di gran lunga la maggior forza militare del mondo. Com’è del tutto evidente anche questo è un potente fattore che spinge nella direzione di un aumento dei conflitti e della guerra. Questo fenomeno, per altro, è destinato a emergere con maggiore chiarezza con il passare del tempo. Oggi, ogni proposta delle classi dominanti è basata sull’aumento delle esportazioni ma man mano che crescerà il problema della scarsità di materie prime, il nodo tenderà a rovesciarsi: non più esportare ma garantire alle popolazioni della propria area l’accesso ai consumi e alle materie prime. Se ne vedono le prime avvisaglie nelle polemiche USA /CINA sull’estrazione dalle cosiddette “terre rare”.
La crisi che stiamo vivendo non è, quindi, solo economica ma segnala una vera e propria crisi del rapporto natura/società e tende a divenire una crisi di civiltà. In questo contesto le classi dominanti non hanno risposte progressiste proprio perché quella che viviamo è la crisi del tentativo capitalistico di rispondere alla domanda di libertà che l’umanità ha posto negli anni ‘60 e ‘70 attraverso una modernizzazione reazionaria, una rivoluzione conservatrice  che si rivela barbarica e distruttiva per l’umanità. In questo senso si pone oggi in modo stringente l’alternativa socialismo o barbarie.
La speranza che viene dall’America latina. In questo quadro i paesi dell’America latina continuano nella ricerca di un modello alternativo a quello neoliberista, che difenda e sviluppi le varie nazioni che si stanno emancipando dal controllo dell’imperialismo statunitense, sperimentando l’idea di un socialismo del XXI secolo. Un processo, quello della primavera latinoamericana, che nei punti più avanzati si basa sull’intervento pubblico in economia, sulla ripubblicizzazione di interi comparti economici, sull’allargamento dei beni comuni e delle forme di democrazia partecipata. In tutti questi paesi i movimenti sociali, i partiti e gli stessi governi hanno prodotto forme di relazione fra loro, inedite altrove, così come grande rilevanza ha avuto la riorganizzazione delle comunità indigene, la loro concezione e pratica della partecipazione e dell’autogestione, il rapporto con la terra, con la natura, la lotta per la sovranità alimentare, la sostituzione, anche in alcune costituzioni come quella boliviana, del parametro del PIL con la categoria del “buen vivir”. Il processo di integrazione regionale dell’ALBA – al contrario di quanto avvenuto in Europa – si fonda sulla rottura con il modello neoliberale e su un’idea di integrazione non solo commerciale e monetaria,  ma punta anche su un altro paradigma. In questa dinamica un ruolo rilevante ha svolto Cuba, che è stato un riferimento delle forze rivoluzionarie e antimperialiste latinoamericane, sia come esperimento di costruzione di una nuova società, sia per la determinazione con cui ha affrontato l’ingiusto e immorale embargo imposto dagli USA. Non è un caso che proprio questi paesi siano sotto costante minaccia di colpi di stato da parte delle forze reazionarie. L’Honduras è stato vittima del colpo di stato proprio per la sua decisione di adesione all’ALBA. Correa, Morales e Chavez hanno evitato, solo grazie alla mobilitazione popolare, la stessa fine.
Il Mediterraneo in rivolta. Nel sud del Mediterraneo rivolte e sollevazioni popolari hanno dato vita a quella che è stata definita la primavera araba. Nessun paese è rimasto immune da grandi manifestazioni popolari e dalla ripresa di un protagonismo delle masse.  Questa primavera è il frutto del fallimento del neoliberismo. Esasperati da anni di aumenti dei prezzi, dalla crescita della disoccupazione e delle disuguaglianze, le giovani generazioni dei paesi del Maghreb e mediorientali hanno unito la questione sociale alla domanda di libertà da regimi dispotici e personali che da decenni reggevano in modo nepotista e corrotto quei paesi, spesso allineandoli alle potenze occidentali e alla sudditanza nei confronti della loro politica di guerra.
Nelle sommosse popolari che hanno portato alla caduta dei regimi tunisino ed egiziano, un ruolo significativo è stato quello svolto dai sindacati e dal movimento operaio. Questione sociale e questione democratica si sono saldate. Il futuro delle rivolte in Medio Oriente è tutt’ora incerto. E’ evidente che senza una organizzazione delle componenti progressiste che sono state protagoniste delle sollevazioni, il rischio è che si affermino, nel breve periodo, forze controrivoluzionarie o moderate sostenute dai regimi reazionari dell’area e dagli USA.
I conflitti irrisolti nell’area mediterranea. Il progressivo imporsi della Turchia come potenza economica ed attore di primo piano nello scacchiere mediorientale, contribuisce ad occultare l’irrisolta questione kurda, che conosce invece una nuova ondata di repressione militare, mentre si lasciano cadere colpevolmente tutte le proposte di tregua e di trattativa ripetutamente avanzate negli anni.
La questione sarawhi vede il regime marocchino tentare di forzare e risolvere con la repressione il contenzioso decennale. La soluzione del conflitto è possibile solo con il rispetto di quanto sancito in sede Onu e dal riconoscimento del diritto del popolo sarawhi all’autodeterminazione.
Senza una soluzione giusta della questione palestinese sarà impossibile definire un futuro per il Mediterraneo come area comune e di pace. Il processo di pace è da anni fermo. Questo stallo è dovuto alla politica oltranzista e di guerra del governo israeliano, alla colonizzazione continua dei territori palestinesi. Nei territori occupati e a Gaza i palestinesi vivono una vera e propria condizione di apartheid. Tutto ciò mentre la comunità internazionale rimane silente e complice,i crimini israeliani, come l’aggressione a Gaza, impuniti. L’azione intrapresa dai palestinesi all’Onu per il riconoscimento dello stato palestinese ha il merito di chiarire le responsabilità e le complicità con quanto accade.

Capitolo 4 – L’EUROPA LIBERISTA IN CRISI

Nel contesto della crisi l’Europa è  l’aggregato socio economico su cui si scaricano le maggiori contraddizioni. Questa crisi mondiale è asimmetrica e vede l’Europa nella condizione di maggiore debolezza tra le grandi macro aree. Non ha il vantaggio competitivo dei BRIC né la posizione di rendita militare degli Stati Uniti. Inoltre l’Unione Europea rappresenta un unicum in campo mondiale, avendo dato vita ad una moneta su cui l’Europa politica non ha alcuna sovranità e che viene gestita in piena autonomia dalla BCE. Questa impalcatura economica ha tolto agli stati europei la sovranità sulla moneta, lasciandoli così in balia dei mercati e della speculazione finanziaria.
Le ragioni specifiche della crisi europea sono quindi da ricercarsi nelle scelte degli anni ‘90. L’attuale costruzione europea – gestita in modo bipartisan da popolari, liberali e socialdemocratici, ed avvenuta negli anni di maggior presa del pensiero unico neoliberista – ha integralmente costituzionalizzato i dogmi del neoliberismo. Questa costruzione dell’Europa di Maastricht e di Lisbona rappresenta una rottura profonda con il processo unitario della fase precedente ed è caratterizzata da un triplo passaggio di sovranità. Il passaggio dagli stati nazionali alle istituzioni europee ha infatti “coperto” l’operazione neoliberista: dai parlamenti ai governi e dalle istituzioni democratiche alle banche e ai potentati economici. Questo secondo processo è ovviamente assai diversificato: mentre gli stati più potenti – come la Germania – si sono rafforzati, gli stati più deboli hanno perso ogni sovranità effettiva.
L’Europa di Maastricht è quindi la patria del neoliberismo applicato, sia per quanto riguarda lo statuto della BCE che dal punto di vista delle politiche economiche, sociali e finanziarie. Proprio l’esistenza del welfare e dell’intervento pubblico in economia  – che hanno caratterizzato il modello sociale europeo nel secondo dopoguerra – sono stati considerati ostacoli da rimuovere sulla via della competitività globale. Su questa strada è avvenuto il suicidio del riformismo europeo che con l’implementazione e la firma dei trattati commerciali in sede Gatt e poi WTO ha costruito le basi materiali per passare dal modello sociale includente a quello escludente, con conseguente crisi della base sociale delle sinistre socialdemocratiche.
Il colpo di stato monetario. L’Europa liberista, costruita a partire dagli accordi di Maastricht, ha realizzato un deciso salto di qualità nella gestione della crisi negli ultimi tre anni. I vincoli sempre più stringenti sui pareggi di bilancio, accompagnati dal ruolo ricattatorio della speculazione finanziaria – utilizzata dalla BCE e dalla Commissione Europea come vincolo esterno per obbligare i singoli stati a pesantissimi piani di riassetto strutturale – hanno prodotto un deciso quanto negativo salto di qualità. Un vero e proprio “colpo di stato monetario”.
Le decisioni effettive in materia economica vengono prese dalle tecnocrazie europee in cui la BCE e il governo tedesco giocano un ruolo centrale. I parlamenti nazionali sono chiamati a ratificare scelte assunte in sedi il cui potere non è in alcun modo sottoposto a verifica democratica. Il ruolo della BCE è integralmente plasmato dall’ideologia neoliberista. Non esiste nessun altro paese al mondo in cui la Banca Centrale possa finanziare le banche private e non gli stati sovrani. Siamo nella follia in cui la BCE presta, a bassi tassi di interesse, alle banche private i soldi per speculare sugli stati che sono obbligati a cercare risorse sui mercati.
Le risposte che vengono date alla crisi da parte delle élites europee sono sovradeterminate dai voleri del capitale tedesco che impone politiche deflattive a tutto il Continente. Gli attacchi speculativi contro i paesi a minor produttività sono utilizzati per determinare una pesante gerarchizzazione dei livelli di vita e dei diritti sociali nel continente, aprendo la strada ad una vera e propria crisi di civiltà. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, invece del progresso, milioni di persone sperimentano una pesante regressione sociale. Basti pensare a cosa sta succedendo in Grecia, dove l’intreccio tra tagli alla spesa e alti tassi di interesse staaffossando il Paese. Ciò che è messo in discussione dalle classi dominanti europee e dai governi europei di centro destra e di centro sinistra è il modello sociale europeo. Vi è una centralità oggettiva dell’attacco al lavoro oggi in Europa, che vede al vertice della piramide, in Germania, un mancato recupero salariale e una progressiva riduzione del prezzo pagato per acquistare forza lavoro.
Questo modello di Europa non trova significative differenze politiche all’interno dei principali partiti europei. Liberali, popolari e socialdemocratici hanno condiviso questo impianto e lo stanno gestendo unitariamente. Le differenze maggiori tra le forze politiche riguardano il tema rilevante della redistribuzione del reddito dalle rendite finanziarie verso i redditi dal lavoro, ma in nessun modo il tema del rapporto tra Europa e globalizzazione o la riforma strutturale delle istituzioni europee.
Anche questa strada imboccata dalle élites europee è priva di prospettive. Le politiche deflattive determinano una ulteriore riduzione della domanda solvibile in Europa. Visto che la Germania vende larga parte del suo export in Europa, proprio le politiche deflattive da essa imposte sono destinate a bloccare lo sviluppo tedesco e ad aggravare la crisi europea.
In questo contesto vengono a maturazione sia significativi conflitti sindacali e sociali sia spinte di destra estrema, caratterizzate da xenofobia, razzismo,  spinte alla guerra tra i poveri.

Capitolo 5 – ITALIA: LA SECONDA REPUBBLICA COME CRISI ORGANICA

La crisi è esplosa nel nostro Paese, in una situazione economica e sociale peggiore rispetto a quella dei principali paesi europei.    La situazione appare particolarmente critica per quel che riguarda la destrutturazione dell’apparato industriale, i livelli salariali e gli strumenti di protezione sociale, la polarizzazione tra Nord e Sud del Paese, le asimmetrie tra i generi e le generazioni.
Porre come asse strategico della nostra linea politica l’uscita a sinistra dalla crisi nella costruzione di un’alternativa di società significa quindi fare i conti, fino in fondo, con i processi che sul terreno economico, sociale e istituzionale hanno segnato il nostro Paese negli ultimi trent’anni, dando una risposta da sinistra alla crisi della Seconda Repubblica.  Perché alla crisi costituente si risponde con un’opposizione costituente, che individui i “fili da tirare” in una lettura non schiacciata sul presente e capace dunque di affrontare i nodi strutturali della regressione che segna il nostro Paese; e che si dia, al tempo stesso, obiettivi e piattaforme nell’intreccio con lo sviluppo dei movimenti, la costruzione di conflitto sociale, progetti e pratiche di trasformazione.
L’inizio della controffensiva del capitale e il craxismo. L’Italia è un caso paradigmatico del carattere distruttivo della risposta capitalistica al ciclo di lotte degli anni ’60 e ’70. Fino alla metà degli anni ’70 il nostro Paese ha conosciuto un forte sviluppo economico trainato dagli aumenti salariali, dalle  politiche di welfare e keynesiane. È in questa fase che il movimento operaio, in una società al cui centro c’è l’industria, si conquista la centralità e usa tutta la sua forza conflittuale per contendere alla borghesia la direzione del Paese. Per quanto bloccato dalla guerra fredda, il sistema politico fondato sulla repubblica parlamentare permette al movimento operaio e alle forze politiche ad esso legate di portare nelle istituzioni le proprie rivendicazioni e di trasformarle in leggi e riforme. E’ così che le lotte trovano uno sbocco politico istituzionale e che la politica e il Parlamento sono avvertiti dal popolo come strumenti capaci di produrre trasformazioni importanti nella società e nella vita concreta delle persone.
Già a metà degli anni ‘70 inizia anche in Italia la controffensiva del capitale. Dopo i cedimenti dell’EUR, iniziano le lotte difensive – emblematica quella della FIAT nel 1980 – contro gli attacchi alle conquiste dei decenni precedenti. Sorge una nuova borghesia dedita alla speculazione immobiliare e a quella finanziaria. Le grandi imprese private creano le proprie finanziarie preparandosi ad abbandonare il mercato interno come riferimento delle proprie prospettive industriali in favore delle esportazioni. Il PSI craxiano recide ogni radice anticapitalista e sposa direttamente gli interessi della nuova borghesia nascente. Il craxismo porta un pesante attacco ai lavoratori e una feroce compressione salariale che si salda con una esplosione del debito pubblico, finalizzata alla gestione clientelare della spesa a fini di consenso sociale. Sono gli anni del “decisionismo”, della nascente vocazione presidenzialista del PSI e dell’alternanza di governo tra primi ministri democristiani e laici. Sulle politiche sociali come sulla politica estera Craxi si presenta come competitore della DC ma su contenuti di destra, come dimostrano l’attacco alla scala mobile e la vicenda dell’installazione dei missili USA a Comiso. La corruzione dilaga e la funzione dei partiti, prevista dalla Costituzione degenera rapidamente. Lo denuncia coraggiosamente Berlinguer ponendo al Paese la “questione morale” e il tema dell’alternativa.
Lo scioglimento del PCI, la concertazione, il bipolarismo.Negli anni ’90, per centrare i parametri europei necessari all’ingresso nella moneta unica, iniziano le politiche di riduzione del deficit, scaricate integralmente sulle spalle dei lavoratori attraverso il taglio del welfare e la compressione salariale.  Il tutto mentre con la privatizzazione della grande impresa pubblica scompariva qualsivoglia politica industriale, determinando nel tempo un impoverimento del tessuto produttivo e un parallelo indebolimento dei lavoratori e del sindacato. Nella sostanza si attua la sistematica distruzione di ogni strumento pubblico capace di determinare una politica economica, cosa che oggi paghiamo duramente.
Se gli anni del craxismo sono stati gli anni della controrivoluzione, dell’offensiva moderata contro il sindacato di classe e la sinistra, gli anni ’90 sono quelli in cui il pensiero unico è diventato egemone nel centrosinistra. L’adesione entusiasta al neoliberismo di larghissima parte del mondo politico e dell’intellettualità diffusa ha rappresentato la vera chiave di volta per il successo dell’offensiva capitalistica in Italia, intervenendo su più piani.
Lo scioglimento del PCI ad opera della maggioranza del suo gruppo dirigente ha determinato grandi effetti negativi sia sul piano ideologico sia su quello della concreta organizzazione di classe. La condanna senza appelli del comunismo è diventata una campagna di distruzione della storia e dell’identità delle classi subalterne in Italia. A venir meno non è stata solo l’esistenza di un partito ma un tessuto di autonomia politica, culturale e sociale, faticosamente costruito in anni e anni di lotte e riflessioni. Un intero ceto politico ha separato le proprie sorti da quelle del movimento operaio e progressista, teorizzando entusiasticamente che l’obiettivo politico fondamentale era la conquista del governo per amministrare l’esistente. Un “esistente” nel quale un ceto politico di “sinistra” poteva candidarsi a gestire una politica avversa agli interessi delle classi subalterne.
Parallelamente la corrispettiva accettazione della concertazione da parte della maggioranza della Cgil ha rappresentato un deciso arretramento nella difesa degli interessi di classe in una fase di durissima ristrutturazione padronale, oltre alla tendenziale mutazione della sua natura di classe.
In ultimo – ma non meno importante – l’identificazione della Prima repubblica con la partitocrazia, e l’introduzione del bipolarismo maggioritario in Italia. La distruzione del sistema proporzionale e la costruzione bipolare, sostenuta dagli ambienti più reazionari del paese, proposta con un referendum da Mario Segni, trova il decisivo ed incondizionato sostegno del PDS di Achille Occhetto. Essa rappresenta il vero punto di ingresso nella Seconda repubblica, nella riduzione della politica alla logica dell’alternanza e nella tendenziale assimilazione al neoliberismo. I fautori del maggioritario bipolare – e tendenzialmente bipartitico – sostituiscono la democrazia partecipata e conflittuale, che caratterizza l’impianto della prima parte della Costituzione, con la concezione della “democrazia governante”, con la sua torsione presidenzialista e conseguente svuotamento delle funzioni parlamentari e delle prerogative delle istituzioni di controllo. Il centro sinistra ha qui aperto un varco molto ampio al berlusconismo.
Gli anni ’90 sono quelli in cui ogni difesa degli interessi di classe viene bollata come conservatrice quando non reazionaria e in nome dell’adesione al nuovo si cantano le lodi del capitalismo in fase di finanziarizzazione. Sono gli anni delle privatizzazioni, dei “capitani coraggiosi” e delle guerre umanitarie.
Merito storico di Rifondazione Comunista è di essere nata dentro e contro questi processi in direzione ostinata e contraria sul piano politico, culturale e morale, rispetto agli osceni processi di trasformismo che quegli anni ci hanno consegnato.
Un bilancio fallimentare sul terreno economico e sociale.Le ristrutturazioni degli anni ’80 e la Seconda Repubblica, affermatasi a partire dagli anni ’90 e caratterizzata dal bipolarismo a netta egemonia neoliberista, ci consegnano un bilancio fallimentare tanto sul terreno economico e sociale, quanto su quello istituzionale e democratico.
Dopo un quarto di secolo di liberalizzazioni e privatizzazioni, di delocalizzazioni e di svendita del patrimonio pubblico e privato alle multinazionali, di mancato sviluppo tecnologico dell’apparato produttivo, di precarizzazione e svalorizzazione del lavoro, di sconfitte del movimento operaio e cooptazione delle organizzazioni sindacali nel quadro concertativo interno alla “governabilità” il risultato è che la “sesta potenza economica del mondo” si ritrova  incapace di reggere la competizione internazionale e gli attacchi speculativi.
L’Italia ha subito un pesante processo di deindustrializzazione a favore della nuova rendita fondiaria e della speculazione finanziaria e perciò, al contrario della Germania, nel momento della crisi non può far leva nemmeno sul volano della produzione e della stessa produttività del sistema. La privatizzazione degli assi strategici dell’economia e la rinuncia a influire in qualsiasi modo sulle politiche finanziarie ed industriali delle multinazionali a partire dalla Fiat hanno prodotto la totale assenza di una guida dell’economia e di politiche industriali.
L’Italia riproduce al suo interno, ingigantendole, le contraddizioni che si vivono in Europa. Accanto ad aree ad alta produttività e ad alto valore aggiunto convivono aree a bassa produttività e basso valore aggiunto. Per questo l’Italia non è solo destinata a subire un generale impoverimento ma anche una divisione pesante per linee geografiche. Se il sistema fiscale basato sull’evasione non ridistribuisce ricchezza tra le classi, il  federalismo messo in piedi dal governo Berlusconi non ridistribuisce la ricchezza tra i territori, la demolizione dei contratti nazionali non garantisce standard di retribuzione omogenee. Siamo quindi destinati ad avere il massimo di gerarchie sociali ma anche il massimo di frantumazione della classe, secondo linee di separazione su base territoriale o addirittura produttiva.
Nelle scelte degli ultimi trent’anni delle classi dirigenti italiane non c’è nulla di “oggettivo” e di “obbligato”. Sarebbe stato possibile fare diversamente se solo si fosse prevista la necessità di riqualificare le basi strutturali e produttive del Paese e la relativa capacità di indirizzo del potere pubblico. Il Paese avrebbe una spina dorsale, un baricentro intorno al quale riorganizzare se stesso nei momenti di difficoltà. Se invece di lasciare alla spontanea ricerca del massimo profitto in tempi brevi il sistema delle piccole e medie imprese e dei distretti industriali, con il corollario di delocalizzazioni, di sfruttamento selvaggio della manodopera e della gigantesca evasione fiscale, si fossero usate le leve del credito e legislative per disincentivare le delocalizzazioni e costringere le imprese ad avere programmi strategici, investimenti nella ricerca e valorizzazione del lavoro, non avremmo avuto una tale disarticolazione produttiva e territoriale. La coesione sociale sarebbe un antidoto all’egoismo individuale e territoriale e alla conseguente disarticolazione e ulteriore gerarchizzazione della società.

Un bilancio fallimentare sul terreno democratico: il bipolarismo e  la crisi della politica. Alla crisi di consenso e all’esplodere della questione dell’intreccio perverso tra affari e politica, emersa con “tangentopoli”, i poteri forti hanno individuato, dall’inizio degli anni ’90, la risposta nell’assunzione di un modello istituzionale incardinato sul sistema elettorale maggioritario, al fine di ristrutturare il sistema politico in chiave bipolare. Una forte campagna mediatica è riuscita a presentare il salto all’indietro come il nuovo, descrivendo il sistema elettorale proporzionale come la causa dell’instabilità e della corruzione. Il PDS con Occhetto e il PD con Veltroni, poi, portano una responsabilità pesantissima non solo per non aver contrastato questi esiti ma, addirittura per esserne stati gli alfieri.
Gli effetti di queste scelte sono stati la distorsione del principio democratico della rappresentanza, il prevalere della logica degli schieramenti su quella dei contenuti politici, l’instaurarsi di un modello dell’alternanza che tende a espungere le posizioni radicali e di classe relegandole nella marginalità. A questo si deve aggiungere la torsione presidenzialista e plebiscitaria che ha interessato enti locali e regioni e  che ha comportato l’abnorme rafforzamento dei poteri di sindaci e presidenti di province e regioni, oltre che degli esecutivi, a scapito delle assemblee elettive e l’affermarsi nel senso comune della logica plebiscitaria e della delega. Tutto ciò ha creato le premesse per il superamento dell’impianto costituzionale affermatosi nel dopoguerra con la trasformazione dei partiti in strutture elettorali poggianti su reti di notabilato, la riduzione del pluralismo politico, l’accentramento del potere decisionale.
All’involuzione del sistema della rappresentanza si è accompagnato, con la modifica del titolo V della Costituzione, l’indebolimento della coesione del Paese, della sua unità e del sistema dei diritti. L’inseguimento della Lega sul terreno del federalismo fiscale ha in sé i germi della dissoluzione dell’unità del Paese e dell’accentuazione abnorme delle diseguaglianze. Parallelamente, sul terreno più propriamente sociale, l’assunzione della “sussidiarietà orizzontale” come principio fondamentale per la gestione dei servizi e quello della loro “essenzialità”, ha sancito la titolarità del privato su un insieme di funzioni pubbliche e la differenziazione dei diritti.
In questo contesto è maturata la crisi della politica e la sfiducia crescente nei confronti delle istituzioni che alimenta l’astensionismo e le pulsioni anti-politiche. Infatti, la progressiva mutazione dei partiti in strumenti elettorali gestori dell’esistente non è separabile dalla modifica in senso bipolare dell’assetto politico. Così come il riesplodere della questione morale è strettamente legata all’esaltazione bipartisan delle virtù del mercato.
Il fallimento dell’Ulivo e la sconfitta del PRC. Il centro sinistra ha fallito in Italia, sia nella prima che nella seconda esperienza di governo. Nelle elezioni che si sono succedute dopo quelle esperienze, la vittoria delle destre è stata schiacciante.
Nel contesto del fallimento del cosiddetto “Ulivo mondiale” di Blair e Clinton, noi individuiamo una ragione di fondo: la subalternità culturale e politica del centro sinistra ai processi della globalizzazione neoliberista. Questo ha determinato il pesante ruolo di condizionamento dei poteri forti sull’azione di governo. Il contrario di quanto aveva ipotizzato – sbagliando – Rifondazione Comunista prima del secondo governo Prodi. Avevamo sbagliato nella valutazione dei rapporti di forza e sopravvalutato la permeabilità del centro sinistra ai movimenti, la cogenza del programma condiviso.
Dentro quel ciclo, è maturata una sconfitta storica anche della sinistra e del PRC in particolare. Le due fasi della partecipazione del PRC alla maggioranza e al governo di centro sinistra -quattro anni in tutto- ne sono una dimostrazione.
Non si tratta, però, di una storia univoca: nel 1998 il PRC seppe rompere da sinistra con il governo Prodi, affrontando di petto il tema della fuoriuscita dalle politiche neoliberiste e dalla gabbia del bipolarismo. Quella rottura permise una collocazione politica di internità ai movimenti. Senza quella rottura e quella scelta, Rifondazione non avrebbe intercettato il vento di Genova e del movimento altermondialista.
Il punto critico è che quell’impostazione, nei fatti e nelle scelte concrete, è stata successivamente sacrificata, a partire dalla valutazione del risultato del referendum sull’allargamento dello Statuto dei Lavoratori del 2003, valutazione tutta piegata alla riapertura del dialogo con l’Ulivo. Il pendolo si è di nuovo spostato verso i rapporti politici, il quadro istituzionale, dentro la gabbia del bipolarismo, con l’aggravante – negli anni successivi al 2005 e all’alleanza con Prodi – della sopravvalutazione della potenziale influenza delle forze di alternativa.
Il berlusconismo. Nella Repubblica del pensiero unico comincia l’era di Berlusconi che rappresenta un vero e proprio inveramento del craxismo. Il berlusconismo, lungi dall’essere solo una patologia personalistica, rappresenta un forma estremizzata del pensiero unico liberista in salsa italica che si è inserito profondamente negli  elementi di lunga durata della destra italiana.
In primo luogo l’anticomunismo. La miscela populista reazionaria fortemente anticomunista di Berlusconi si è saldata con una operazione di revisionismo storico che caratterizza la Seconda Repubblica. E’ stata riscritta la storia d’Italia dalla parte dei vincitori di oggi, puntando a cancellare e delegittimare completamente le lotte per la libertà e la giustizia di cui sono stati protagonisti il movimento operaio e i comunisti. Un’azione “ideologica” che ha inciso in profondità, favorita dal nuovismo democratico, che dopo aver sciolto il PCI ha largamente rimosso le proprie radici.
In secondo luogo la centralità della relazione con il Vaticano, fondamentale interlocutore di potere e fonte di legittimazione valoriale extrapolitica. Il Vaticano da parte sua ha corrisposto pienamente questa relazione e ha ottenuto forti privilegi economici e significativi spazi nell’istruzione e nell’assistenza.
In terzo luogo il darwinismo sociale, l’individualismo, il discredito della cosa pubblica e il maschilismo. Nella crisi della sinistra, questi elementi hanno rappresentato una componente essenziale del fascino della modernizzazione reazionaria promossa da Berlusconi. Una sorta di religione anticostituzionale, che ha legittimato le peggiori pulsioni della “pancia” del Paese. Un vero e proprio universo di valori radicalmente contrapposto a quello degli anni ’70.
In quarto luogo le superfici di contatto con il fenomeno mafioso e l’introduzione dell’accumulazione finanziaria criminale dentro il complesso dell’economia italiana. L’estendersi della borghesia mafiosa ha la sua base materiale nella sistematica cancellazione della linea di demarcazione tra economia legale ed illegale.
Insomma, il berlusconismo è l’erede legittimo del sovversivismo della classi dirigenti italiane. Berlusconi era affiliato alla P2 e larga parte del suo programma ricalca quello di Gelli nel suo controllo oligarchico di istituzioni e media. La costruzione di una destra priva di confini a destra ha rappresentato una grande operazione politica e una vera innovazione nell’ambito delle destre europee. Lo sdoganamento della destra estrema in politica si è saldato con la totale deresponsabilizzazione sociale degli imprenditori.
Il tratto decisivo del berlusconismo è stato sempre la capacità di costruire una mediazione tra varie espressioni della destra, dando vita ad un impressionante impasto di liberismo economico, egoismo individuale, moralismo reazionario sul piano legislativo e razzismo leghista. La capacità di costruire la mediazione all’interno del blocco dominante e di soddisfare gli appetiti degli interessi coagulati in lobbies è stata sia la forza sia l’obiettivo di Berlusconi. Non essendo in grado di progettare una via di sviluppo per il Paese, Berlusconi si è concentrato sulla redistribuzione del reddito  e del potere, dal basso in alto. Per questo il berlusconismo rappresenta una soluzione capitalistica che salda al massimo livello l’attacco sul piano democratico e su quello sociale e tende al regime. La destra ha quindi incarnato  in modo estremistico lo spirito della seconda repubblica.
Non a caso è proprio la crisi economica, che colpisce l’assoluta maggioranza della popolazione, a determinare la crisi del berlusconismo, cioè l’impossibilità di continuare la mediazione tra le diverse frazioni dei ceti dominanti.

L’ultimo governo Berlusconi. L’attacco “costituente” contro il lavoro e le autonomie. L’ultimo governo Berlusconi ha operato con un elevato grado di coerenza interna. Ha accentuato le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza e usato la crisi come leva per una riscrittura regressiva del complesso delle relazioni sociali.
Il governo ha anticipato le politiche restrittive europee e, con la motivazione della necessità di ridurre lo stock del debito, ha varato da subito pesanti manovre di tagli. Questa politica ha aggravato la crisi, come è testimoniato dal crollo del Pil nel 2009, dal conseguente raddoppio del deficit e dall’incremento di ben 9 punti del rapporto debito/pil, passato dal 106 al 115 per cento in un solo anno. Parimenti il governo ha lavorato per un vero e proprio disegno “costituente”, di ridefinizione del modello sociale e del ruolo dei soggetti sociali, in senso compiutamente eversivo della costituzione repubblicana.
I tagli pesantissimi al sistema della formazione sono mirati: la scuola e l’Università sono rese luoghi sempre più classisti, inaccessibili per fasce sempre più larghe di popolazione, fucine di discriminazione e omofobia. Luoghi svuotati del loro potenziale rivoluzionario, cioè quello di poter costruire una società di donne e uomini liberi ed uguali, dove il sapere e la conoscenza sono diritti inalienabili. Sono tagli al futuro e alla democrazia, sono tagli alla civiltà.
Analogamente i tagli agli enti locali, il sostanziale obbligo di privatizzazione dei servizi pubblici riproposto in spregio del risultato referendario, l’attacco ossessivo e distruttivo al lavoro pubblico, puntano da un lato ad un salto di qualità dei processi di privatizzazione del welfare, dall’altro all’annullamento del ruolo delle istituzioni locali, cioè di quelle istituzioni che si caratterizzano per un rapporto di prossimità con la cittadinanza.
La distruzione delle autonomie – dei saperi, degli enti locali, non meno che della magistratura e dell’informazione – è stato il cuore della politica dell’ultimo governo Berlusconi e ha avuto al suo centro la distruzione della possibilità di organizzazione e dell’autonomia delle lavoratrici e dei lavoratori.
L’ attacco alla contrattazione collettiva nazionale, per imporre un modello aziendalista delle relazioni industriali e affermare il contratto individuale in deroga, si è sostanziato in una pluralità di interventi: dagli accordi separati al Collegato Lavoro, fino all’articolo 8 dell’ultima manovra che fa carta straccia tanto della contrattazione collettiva quanto dell’intero diritto del lavoro, a partire dallo Statuto dei lavoratori e dall’articolo 18.  La previsione che accordi pattizi a livello aziendale e territoriale possano derogare, oltre al contratto nazionale, le leggi della Repubblica, è un inedito di assoluta gravità, rappresentando la volontà di distruggere le conquiste del movimento dei lavoratori, il ruolo del sindacato, e di affermare il comando assoluto dell’impresa nella precarizzazione integrale dei rapporti di lavoro. Un modello intrinsecamente autoritario, in cui l’annullamento di ogni diritto, libertà, autonomia delle lavoratrici e dei lavoratori, è l’altra faccia di una riorganizzazione delle relazioni sociali fondata sulla dipendenza e sul “favore”.

La crisi della Lega di governo. La Lega Nord ha catalizzato su una posizione di destra i malumori e i disagi del Nord dove più forte è stato l’impatto delle trasformazioni neoliberiste e il disfacimento della coesione sociale. Ha altresì approfittato dell’abbandono del classismo a seguito dello scioglimento del PCI, della concertazione sindacale, del confuso passaggio dalla prima alla seconda repubblica, cui il centro sinistra ha contribuito non poco. Il classismo è stato sostituito dalla competizione fra territori e contro il diverso. Le parole d’ordine della Lega Nord hanno amplificato e dato corpo ai disagi, rancori, egoismi del nord.
Dopo il ’94, l’alleanza stretta con Berlusconi, alleanza dai contorni poco chiari e che vede coinvolte banche padane fallite, Berlusconi, Fiorani (P4) ha modificato il profilo e le parole d’ordine della Lega Prima,Berlusconi era berluskaiser, e il giornale “la Padania” inventò le dieci domande che vertevano tutte sui modi poco chiari con cui era diventato ricco. La prima delle quali era: sei un mafioso?
Con questa alleanza la Lega Nord è diventato un influente partito di governo ed ha costruito la sua identità con l’antipolitica. Ora la Lega nord governa tre Regioni, un terzo della popolazione, il 60% della produzione industriale.
Una forte carica identitaria ha permesso di gestire grandi contraddizioni ma la crisi globale, le politiche europee, le vicende del premier hanno tuttavia reso questo sempre più problematico. La Lega Nord ha visto aprirsi una pesante contraddizione tra propaganda populista e realizzazioni concrete. A Mirafiori si è inchinata all’odiata Fiat, ha ammorbidito il contrasto con le banche, con la finanza ed il giudizio sulla stessa Europa.
In generale la Lega non è riuscita a separare la sua immagine da quella di Berlusconi e a soddisfare nell’azione di governo le aspettative sollevate nell’azione di propaganda. Questo ha messo radicalmente in crisi il progetto della Lega, aprendo conseguentemente un aspro scontro interno. È in crisi la Lega di governo, la Lega nazionale. L’alternativa è il ritorno all’antico: la secessione. Questa pare essere l’approdo della crisi della Lega di governo nel tentativo di rimanere un partito regionale di destra a base di massa. La crisi economica e le tensioni dell’Euro possono favorire questa prospettiva politica che quindi va presa molto sul serio. Non è detto però che questo funzioni e quindi è molto probabile che la Lega torni a giocare fino in fondo la carta del razzismo da spingere alle estreme conseguenze. In questo caso, più che un partito regionale di destra, assumerebbe le caratteristiche del partito di estrema destra, in sintonia con un fenomeno ben presente a livello europeo.
I poteri forti. I poteri forti stanno operando per dare uno sbocco politico di destra alla crisi del berlusconismo, in nome della salvezza della nazione. Il loro primo obiettivo è sostituire l’impresentabile Berlusconi, ricostruendo la sintonia con la leadership europea della Merkel e della BCE. Parallelamente sono evidenti i tentativi di destrutturare i partiti politici e di privatizzare tutto, a partire dall’ informazione.  Da qui nascono i tentativi di scalzare Berlusconi sostituendolo con un governo tecnico – istituzionale, evitando ogni spostamento a sinistra. Questi tentativi trovano nell’accordo interconfederale del 28 giugno una base di supporto materiale e vedono nella destabilizzazione del PD e della Cgil punti di passaggio rilevanti.
Abbiamo quindi una concorrenza, sulla stessa linea di Maastricht, tra un Berlusconi che resiste e cerca di continuare fino alla fine della legislatura e un tentativo di determinare gli equilibri del futuro, con l’obiettivo di una uscita a destra dalla crisi del berlusconismo.

La questione sindacale oggi. L’azione del governo, che traduce oggi il disegno già contenuto nel Libro Bianco del 2001 di Maroni, riscrive il ruolo del sindacato dentro la compiuta ridefinizione neo-corporativa del modello sociale. E’ il sindacato della bilateralità, quello che trae la sua legittimazione non più dalla rappresentanza dei lavoratori e dalla contrattazione, ma dalla cogestione con le imprese di una pluralità di funzioni impressionanti: “mercati locali del lavoro e dei servizi che danno valore alla persona, quali sicurezza, formazione, integrazione del reddito, ricollocamento, certificazione dei contratti di lavoro, previdenza complementare, assistenza sanitaria,  oneri per la non-autosufficienza” secondo il Libro Bianco di Sacconi.
La questione sindacale oggi non può prescindere dal fare i conti con la ridefinizione radicale del ruolo del sindacato che viene prospettata. Una ridefinizione che se nella politica del governo Berlusconi assume la consueta declinazione estremistica, attraversa il dibattito sul sindacato non solo nel nostro Paese, come conseguenza dell’indebolimento delle organizzazioni sindacali che la  globalizzazione capitalista ha comportato.
Riaffermare un modello di sindacato che pone al centro l’autonoma rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori, la loro potestà sulla contrattazione della prestazione lavorativa, richiede un deciso salto di qualità. Nella capacità di lettura della crisi del neoliberismo, di essere soggetto effettivo della ricomposizione delle mille forme di lavoro, di rinsaldare il vincolo con le lavoratrici e i lavoratori con una proposta di democrazia radicale nel rapporto tra lavoratori e organizzazioni sindacali.
La situazione sindacale oggi è particolarmente negativa, anche rispetto al resto d’Europa. Cisl e Uil sono le uniche due grandi centrali a non aver preso parte alle mobilitazioni continentali indette dalla Ces. Si sono distinte per la subalternità e la complicità totali con i voleri del governo e di Confindustria. La Cgil si è opposta alla maggior parte dei provvedimenti del governo e da sola ha promosso cinque scioperi generali. La mancanza di un bilancio della stagione concertativa, le modificazioni nel proprio quadro dirigente prodotte da quella stagione, l’assenza di un dibattito sulle prospettive e il ruolo del sindacato nella crisi del neoliberismo, ne hanno però condizionato l’azione. Sia nell’incapacità di porsi come punto di riferimento di un movimento duraturo di opposizione sociale, sia nella permeabilità ai tentativi di uscita dalla crisi del berlusconismo nel segno della “responsabilità nazionale” alla base dell’accordo interconfederale del 28 giugno e del patto sociale del 4 agosto. Le contraddizioni che attraversano la più grande organizzazioni sindacale del Paese, sono tuttavia, come dimostra anche la proclamazione dello sciopero del 6 settembre, aperte ad esiti diversi.
Gli anni dell’ultimo governo Berlusconi sono stati però anche anni di riconquista di una centralità e visibilità del lavoro nello spazio pubblico. La stessa pesantezza dell’attacco portato dalle destre e da Confindustria, l’estremismo del modello Marchionne, hanno contribuito a far sì che attorno alla centralità della condizione lavorativa, al nesso tra diritti del lavoro e difesa della sostanza della Costituzione, alla necessità di contrastare i processi di precarizzazione di massa, si coagulasse un inedito schieramento di forze. Il ruolo soggettivo svolto dalla Fiom è stato decisivo: ha rappresentato non soltanto la “resistenza” all’offensiva Fiat, ma anche l’esperienza sindacale che nel nesso tra conflitto e democrazia ha individuato la leva per la ricostruzione della soggettività del lavoro e, nella ricerca delle connessioni tra i diversi conflitti, la premessa per la ricostruzione di un movimento antiliberista.
Così come la ricomposizione che è avvenuta sul terreno del sindacalismo di base con la nascita dell’Usb indica un positivo processo di superamento della frammentazione e della concorrenza tra sigle, con l’obiettivo di costruire la massa critica necessaria a lotte non testimoniali.
Il valore del riconoscimento delle reciproche autonomie tra soggetti sindacali e soggetti politici significa per noi, operare perché a partire dal merito si determini la più ampia unità d’azione dei sindacati nell’opposizione al tentativo di azzeramento della contrattazione collettiva e dei diritti del lavoro; perché si affermi un modello di sindacato di classe, del conflitto e della democrazia; e perché si determini un campo di forze politiche, sindacali, sociali, in grado di sconfiggere Berlusconi, il berlusconismo, le politiche neoliberiste.
Centro sinistra e nuovo Ulivo. Il carattere intimamente contraddittorio è il punto caratterizzante il Pd e il Nuovo Ulivo in fase di costruzione. Questo emerge anche nel frangente della crisi del governo Berlusconi: la richiesta di dimissioni di Berlusconi si sostanzia a volte con la richiesta di elezioni anticipate e a volte con la disponibilità a sostenere un governo istituzionale.
Ovviamente questa contraddittorietà non è priva di un centro gravitazionale: il Pd si è schierato con la NATO, a favore di tutte le guerre fatte dall’Italia negli ultimi decenni fatto salvo l’Iraq. Convinto sostenitore dell’Unione Europea liberista costruita con Maastricht e portatore di una idea di etica pubblica di tipo europeo, che costituisce un elemento centrale della distinzione da Berlusconi. Portatore di una ideologia e di una politica di liberismo temperato, sostanziata dal progetto della costruzione di un rinnovato compromesso sociale in Italia. Sostenitore del referendum per ripristinare il “Mattarellum”, salvaguardando così il bipolarismo dall’impresentabilità del “porcellum”. In sintesi, il baricentro politico e culturale del gruppo dirigente del centrosinistra non tende alla costruzione dell’alternativa, che infatti oggi, sul piano politico, non è per niente matura. Inoltre, rispetto ai due decenni passati, la prospettiva prodiana della costruzione di un nuovo compromesso sociale, viene completamente messa fuori gioco dalla crisi economica e dalle politiche imposte a livello europeo. Politiche economiche e finanziarie peraltro non messe in discussione seriamente dal centro sinistra.
Senza rinunciare a dispiegare la nostra azione politica in relazione alle contraddizioni del Pd, che ci sono ben chiare, in primo luogo tra i gruppi dirigenti e il popolo democratico ma anche all’interno dello stesso gruppo dirigente, non possiamo rimuovere gli elementi di giudizio e valutazione sul Pd e sul progetto di Nuovo Ulivo. Questi confermano l’ipotesi delle due sinistre e motivano la nostra valutazione di impraticabilità, nell’attuale fase politica, di un accordo di governo. La convinta adesione del Pd alla guerra in Libia e la blanda opposizione al colpo di stato monetario lo dimostrano.
Tuttavia, l’elemento della contraddittorietà è assai significativo in relazione al dispiegarsi della nostra azione politica. Ritroviamo infatti questa contraddittorietà nell’impianto delle proposte che avanza in primo luogo il gruppo dirigente democratico. Portatore di una idea di liberismo temperato ma anche attento alla redistribuzione del reddito e alle istanze dei lavoratori.
Attento alle istanze vaticane ma anche laico e attento ai diritti civili. Promotore delle riforme istituzionali ma anche attento alle regole e alla difesa della Costituzione. Interlocutore di Confindustria e schierato con Marchionne ma anche attento alle istanze della Cgil e dei lavoratori. Bipolare ma diviso tra chi punta al bipartitismo e chi ad una maggiore articolazione democratica.
Questa contraddittorietà alberga nello stesso rapporto tra i gruppi dirigenti e il “popolo” del centro sinistra. La domanda di trasformazione sociale che è presente nella base del Pd e in generale del nuovo Ulivo è generalmente assai più di sinistra di quanto non esprimano i gruppi dirigenti. Su punti come la patrimoniale, la precarietà, la guerra, questa contraddizione è palese e visibilissima. La stessa piattaforma della Cgil sulle questioni economiche e sociali è radicalmente diversa e più avanzata delle proposte che l’opposizione avanza in parlamento.
A causa di questo impianto fortemente contraddittorio – che la dice lunga sul carattere coercitivo ed “innaturale” del sistema bipolare in Italia – il centrosinistra, che è fatto oggetto di forti aspettative di cambiamento nelle fasi di opposizione, determina poi rapidamente elementi di frustrazione quando va al governo. Vi è una palese contraddizione tra la domanda sociale rivolta al centro sinistra e il suo progetto dello stesso.
Questa situazione si modifica prendendo in esame le singole forze politiche che compongono il nuovo Ulivo, ma non viene radicalmente contraddetta.
L’Italia dei Valori per una fase si è posizionata sul lato sinistro della coalizione, pur collocandosi nel Parlamento europeo nel gruppo liberale. Nel passaggio delle elezioni amministrative, l’IdV è stata protagonista con la Federazione della Sinistra dell’appoggio alla candidatura di Luigi de Magistris a sindaco di Napoli. Oggi ha scelto un terreno più moderato e sul piano delle politiche economiche non si discosta dal dibattito del PD. L’IdV si presenta quindi oggi come forza responsabile del centro-sinistra e costruisce il suo tratto distintivo sul terreno della questione morale, con una curvatura che tende a presentare il complesso dei problemi del Paese come problemi di casta, sprechi e ruberie.
Nemmeno Sinistra Ecologia e Libertà sfugge alla cifra contraddittoria che caratterizza tutto il Nuovo Ulivo. La partecipazione alla fase costituente di quest’ultimo, fortemente bipolare, unita alla promozione del referendum per il ripristino del Mattarellum, contrasta con la domanda di unità della sinistra di alternativa espressa da molte delle persone che militano o simpatizzano per SEL e con i contenuti avanzati che questa esprime su svariati terreni: dal “no” alla guerra alla lotta alla precarietà, dalla difesa della scuola e dell’Università pubblica alle proposte sui diritti sociali e civili. Anche nei gruppi dirigenti di SEL si registrano posizioni diverse su terreni cruciali a testimonianza di un processo non ancora chiuso di definizione dell’identità politica e culturale. Sta di fatto – e questo appare a noi l’elemento più significativo – che a SEL guardano molti compagni e compagne radicalmente critici nei confronti del PD e che auspicano la costruzione di una sinistra unitaria, non certo di un nuovo Ulivo.
Inoltre, il gruppo dirigente di SEL affida al terreno assorbente delle primarie la richiesta di spostamento a sinistra del centro-sinistra. Anche questo contiene un elemento fortemente contraddittorio: è del tutto evidente che, in un sistema a base parlamentare, non basta cambiare il presidente per cambiare politica. L’esempio di Obama, impossibilitato anche quando aveva la maggioranza parlamentare a realizzare il suo programma, è lì a dimostrarlo.  Per fare un governo di alternativa occorre modificare a fondo i programmi che impegnano i parlamentari, pena una sostanziale inefficacia. Non ci pare che la proposta delle primarie sia oggi in grado di determinare questo spostamento. Anche perché, di fronte alla più grave crisi del capitalismo dal ’29 ad oggi, le forze di centro sinistra non mettono seriamente in discussione le politiche europee.

Il punto di fondo è quindi questo: una parte significativa della gente che vota e si identifica nel centro-sinistra è portatrice di richieste e posizioni politiche decisamente più radicali dei gruppi dirigenti. In secondo luogo, la strada scelta delle primarie non è per nulla sufficiente a colmare questa divaricazione e che – al fondo – non esiste un popolo del centro-sinistra radicalmente separato da un popolo della sinistra. Esiste un popolo di sinistra, in larga parte disorientato, a cui occorre avanzare una proposta politica coerente con le sue aspirazioni e con la necessità di uscire da sinistra dalla crisi.
La costruzione dell’alternativa non consiste infatti nella denuncia dei cedimenti altrui ma nella concreta capacità di definire percorsi praticabili di accumulo di forze e di trasformazione. Per questo – nel permanere e per certi versi nell’approfondirsi delle differenze tra le due sinistre – proponiamo la costruzione di una opposizione unitaria, la rottura del bipolarismo e la costruzione di un polo della sinistra di alternativa. Anche a partire dalla contraddittorietà del Nuovo Ulivo dobbiamo sviluppare una forte battaglia politica, proponendo l’aggregazione di un polo della sinistra di alternativa quale condizione per l’uscita a sinistra dalla crisi.
La contraddizione tra la domanda sociale e le risposte politiche. Gli effetti della crisi e il resistere, contemporaneamente, di culture ed esperienze critiche, hanno determinato nel Paese una forte domanda di cambiamento, nelle cui esperienze più avanzate l’anti-berlusconismo si intreccia con l’anti-liberismo.
I metalmeccanici e la Fiom non hanno solo tenuto vivo il conflitto operaio ma hanno costruito relazioni con altre soggettività sociali in movimento, a partire dagli studenti. Il 16 ottobre ha evidenziato questo ruolo positivo che prosegue tuttora. Come in Grecia, Spagna e Nord Africa, anche in Italia le giovani generazioni di studenti e precari sono state protagoniste di un grande movimento di opposizione alle politiche neoliberiste, dell’Europa e di questo governo.
Studentesse, studenti, precari, hanno attraversato il Paese, le piazze, hanno occupato i tetti contro la riforma Gelmini, le stazioni, le strade, con la volontà di lottare per ottenere i propri diritti, a partire da quello ad attraversare con dignità il presente, per potere abitare pienamente il futuro. Una lotta consapevole, in una società di diritti negati, da quello alla formazione in scuole e università che non siano sempre più classiste ed asservite a mercato e Vaticano, fino al diritto al lavoro.
In un Paese come il nostro, dove l’investimento nella ricerca è agli ultimi posti d’Europa, dove chi governa e le figure chiave del sistema hanno l’età media più alta d’Europa, dove vige la politica del favore anziché quella del diritto, si ritiene ancora necessario e urgente rivoluzionare ogni cosa. Lo scorso anno, di cui il 14 dicembre è stato l’emblema per le lotte delle giovani generazioni, è stato solo l’inizio di quella che abbiamo chiamato appunto “ri-presa del futuro”.
Un anno che ricorderemo anche per le mobilitazioni delle donne, che hanno segnato lo spazio pubblico, spesso con un’eccedenza di radicalità rispetto alle stesse piattaforme di convocazione delle manifestazioni. Nelle piazze le donne hanno portato la denuncia della regressione culturale che il governo Berlusconi sta producendo nella società, attraverso l’oscena e grottesca esibizione di un potere maschile che, sempre più in crisi, trae linfa dalla mercificazione del corpo delle donne. Hanno portato il disagio, mai superato, del doppio lavoro, produttivo e riproduttivo, che continua a scaricarsi su di loro, nella perpetuazione della divisione sessuata del lavoro, il cui peso assume un carattere sempre più discriminatorio per i continui processi di attacco al welfare. Hanno portato la contestazione di uno spazio pubblico ancora pesantemente segnato dal monopolio e dal dominio maschile.
Hanno segnato il Paese le mille vertenze ambientali contro il consumo del territorio, di cui sono emblematiche le lotte di popolo contro la Tav in Val di Susa, contro il Ponte sullo Stretto e le tante forme in cui la coscienza del limite sta modificando stili di vita e producendo nuove pratiche sociali. Quella coscienza del limite, che nel passaggio dei referendum ha conquistato la maggioranza tra il popolo italiano, nel rifiuto del nucleare e nella rimessa in discussione, a partire dall’acqua, delle privatizzazioni, di quel pensiero unico che ha accompagnato le nuove enclosures della globalizzazione neo-liberista.
La domanda di cambiamento attraversa la società italiana. Si è espressa con nettezza nei referendum e con altrettanta nettezza alle elezioni amministrative, che hanno sconfitto un altro dogma di questi anni: quello per cui si vince al centro nella perpetua rincorsa al voto “moderato”, nell’omogeneizzazione degli schieramenti.
E’ tutt’altro che semplice tuttavia il processo di messa in connessione dei movimenti, di costruzione di luoghi condivisi, spazi pubblici in cui si sedimentino le relazioni tra soggetti e obbiettivi e si determini un salto di qualità, di progetto e mobilitazione. Né questa domanda di cambiamento trova una sponda in una sinistra anti-liberista di dimensioni sufficienti, né in una possibile alternativa sul piano del governo e delle politiche economiche.
Questo contribuisce non poco a determinare una situazione in cui i movimenti sono in larga parte difensivi e di resistenza. Determinati più dalla pesantezza dell’attacco dell’avversario che non da una propria capacità di iniziativa. Questo vale sia sul piano della democrazia sia sul piano dei diritti dei lavoratori, dei diritti sociali e civili. Situazione che tende a generare sia una pulsione alla rivolta sia una percezione di impotenza, che è ancora il dato maggiormente caratterizzante la situazione. Ovviamente, laddove il conflitto e l’organizzazione sono più forti, la costruzione di un nuovo senso comune di una nuova consapevolezza è una realtà che si tocca con mano.
Il punto politico è quindi che vi è in Italia una domanda di alternativa che non ha oggi uno sbocco in larga parte a causa del bipolarismo. Infatti durante i governi di Berlusconi matura una opposizione di massa che eccede significativamente i contenuti politici e culturali delle forze del centro sinistra. Questa domanda eccedente è la base materiale per costruire una sinistra di alternativa. In un sistema proporzionale, questo avverrebbe naturalmente. Nel bipolarismo, al contrario, questa domanda di trasformazione viene deformata, rendendo artificialmente contraddittorie la necessità di cacciare le destre e la richiesta di modifiche radicali nelle politiche economiche e sociali. Il superamento del bipolarismo – come hanno capito benissimo gli indignados spagnoli – non è quindi questione solo istituzionale, ma nodo politico dirimente per costruire una sinistra degna di questo nome.
In conclusione. Possiamo dire che nella crisi della Seconda Repubblica sono messe in discussione le conquiste che riguardano ben tre cicli della storia del Paese. In primo luogo il ciclo degli anni ’70 che la controrivoluzione berlusconiana vuole definitivamente seppellire. In secondo luogo, il ciclo nato dalla lotta partigiana e che ha visto nella Costituzione e nella forza della sinistra e del movimento operaio i propri caratteri distintivi. In terzo luogo la messa in discussione della stessa unità del Paese.
Il nostro compito non si esaurisce quindi nella battaglia politica quotidiana. Occorre la capacità di riprendere i fili della storia del Paese, per proporre oggi un’alternativa che si collochi a livello culturale e sociale oltre che a livello politico. Questo in un contesto in cui vi è una significativa disponibilità al conflitto, una significativa capacità di egemonia dei movimenti in grado di condizionare l’opinione pubblica ma, nel contempo, la drammatica immaturità del tema dell’alternativa sul piano politico e la totale non coincidenza tra il tema dell’alternanza e quello dell’alternativa.
Dalla necessità di dare un risposta politica compiuta a questa situazione nasce la nostra proposta politica di uscita a sinistra dalla crisi.

Capitolo 6 – IL NOSTRO PROGETTO POLITICO

Il nostro progetto di fondo, la nostra ragion d’essere, è l’alternativa di società. Siamo uomini e donne che si battono per la fuoriuscita dal capitalismo e dal patriarcato in direzione di una società comunista.
Questo progetto si articola concretamente, in questa fase storica, nella lotta per l’uscita da sinistra dalla crisi del capitalismo.
E’ una crisi che produce insicurezza, sofferenze sociali e individuali, che determina il netto peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della maggioranza della popolazione. L’alternativa socialismo o barbarie matura concretamente sotto i nostri occhi. Dentro il capitalismo neoliberista non esiste nessuna uscita dalla crisi. Da qui deriva la pericolosità delle destre che consapevolmente operano in direzione della regressione sociale e civile e di qui matura l’inefficacia delle forze del centro sinistra, incapaci di uscire dalla gabbia neoliberista.
Noi riteniamo che l’uscita a sinistra dalla crisi corrisponda agli interessi delle classi lavoratrici e della maggioranza della popolazione e operiamo dunque affinché venga riconosciuta come aspirazione e necessità a livello di massa. L’uscita a sinistra dalla crisi, la modifica profonda dei rapporti sociali, è l’obiettivo di fase del nostro lavoro politico nei prossimi anni, a livello italiano, europeo e mondiale.
Costruire l’opposizione. E’ necessario innanzitutto costruire l’opposizione sociale, culturale e politica contro le destre e le politiche di gestione capitalistica della crisi, a partire dall’aggressione alla democrazia e al lavoro. La possibilità di sconfiggere le politiche antisociali che il governo sta attuando dipende dal grado di opposizione che saremo in grado di produrre. Questa opposizione, che ha un punto comune nella difesa della democrazia e della Costituzione, per sua natura non può che essere articolata, con posizioni più avanzate e altre più arretrate: dall’antiberlusconismo interclassista al conflitto contro Confindustria, alla lotta antiliberista. Basti pensare alla differenza tra l’iniziativa in difesa della democrazia di piazza del popolo del 13 marzo scorso e la lotta NO TAV in Val di Susa. Le caratteristiche variegate dell’opposizione non devono essere un ostacolo al suo sviluppo e noi abbiamo il compito di attraversare tutte le forme di costruzione dell’opposizione, costruendo nessi e legami e puntando ad una sua maturazione e alla costruzione di una soggettività di massa antiliberista.
Un fronte democratico per cacciare Berlusconi. Rifondazione Comunista si pone quindi l’obiettivo di far cadere da sinistra il governo Berlusconi e di andare alle elezioni anticipate. Parimenti contrastiamo nettamente le ipotesi di stabilizzazione moderata che puntano a sostituire Berlusconi con un governo “tecnico” o “istituzionale” che prosegua nella gestione capitalistica della crisi. La cacciata di Berlusconi dal governo del Paese rappresenta una priorità assoluta, sul piano sociale come su quello democratico e dell’etica pubblica.
Nel quadro dell’attuale legge elettorale maggioritaria proponiamo quindi di dar vita ad un Fronte democratico tra le forze di sinistra e di centro sinistra per sconfiggere le destre e porre condizioni migliori per difendere e rilanciare la democrazia e la Costituzione, contrastare gli effetti sociali negativi della crisi e superare il bipolarismo.
Il contrasto radicale alle destre è infatti costitutivo del profilo politico e culturale di Rifondazione Comunista. Ricordiamo che nel 2001, nel massimo del contrasto con il centro sinistra e nel pieno di una campagna denigratoria che intendeva descrivere il Prc come una forza che favoriva la vittoria delle destre, Rifondazione Comunista praticò, nelle forme consentite dalla legge elettorale, la desistenza unilaterale nell’elezione della Camera dei Deputati.
La nostra valutazione di fase sull’impraticabilità di un accordo di governo non rende al tempo stesso meno necessaria la battaglia per la qualificazione programmatica dell’alleanza contro le destre. Vogliamo contrastare la separatezza delle dinamiche politiche, per obbligarle a fare i conti con i contenuti e le aspirazioni del conflitto sociale. Dobbiamo quindi concepire la nostra proposta in modo dinamico, nella piena convinzione che gran parte degli uomini e delle donne che vogliono cacciare Berlusconi vogliono contemporaneamente uscire dalle politiche neoliberiste. Questa domanda politica, di cambiamento radicale, non riesce oggi a determinare i comportamenti delle forze politiche di opposizione.
Nostro compito politico è operare al fine di massimizzare la capacità di questa domanda di trasformazione sociale di incidere sul quadro politico. Per questo dobbiamo stare fino in fondo nel processo politico che porterà alla costruzione di uno schieramento alternativo a quello delle destre ponendo al centro la questione dei programmi. Costruire a livello di massa il dibattito sui programmi è decisivo per determinare un coinvolgimento effettivo dei soggetti sociali che hanno lottato contro Berlusconi e per massimizzarne il peso politico. Occorre uscire da una discussione ridotta a pura questione di schieramenti per aprire nella società una discussione sul che fare nel dopo Berlusconi.
Per questo abbiamo avanzato e riproponiamo il tema delle primarie di programma. Proponiamo che la discussione sui punti qualificanti dello schieramento che nel sistema bipolare si contrapporrà alle destre avvenga in modo allargato, nel pieno coinvolgimento dei movimenti e dei soggetti sociali che in questi anni si sono battuti contro il neoliberismo e hanno costruito l’opposizione concreta al governo Berlusconi. Proponiamo le primarie di programma non per determinare i rapporti tra noi e il nuovo Ulivo ma come condizione più favorevole per le domande sociali di incidere sullo schieramento antiberlusconiano. La sconfitta delle ipotesi centriste che cercano di egemonizzare l’opposizione a Berlusconi può avvenire unicamente in un processo di coinvolgimento pieno dei soggetti sociali.
In questo quadro, non riteniamo centrali le primarie per la scelta del capo del governo, che introiettano le distorsioni del maggioritario e del presidenzialismo e che affrontano le questioni di contenuto come sottoprodotto della definizione del leader.
Riteniamo invece decisivo il coinvolgimento dei movimenti, delle associazioni, dei lavoratori, dei tanti comitati che innervano il tessuto democratico del Paese e che hanno sostenuto l’opposizione al governo. E’ dentro quel campo largo che deve essere raccolta e alimentata la sfida sulle idee e i programmi per battere le destre, un campo in cui il popolo antiberlusconiano esprime contenuti molto più avanzati di quelli delle rappresentanze politiche: dalla guerra alla patrimoniale alla tutela del lavoro, ai diritti civili, per non fare che alcuni esempi. Questo è il terreno di sfida che vogliamo praticare.
Avanziamo questa proposta sapendo che la sconfitta di Berlusconi non coincide con la costruzione dell’alternativa, perché l’indirizzo politico maggioritario del centrosinistra non si pone l’obiettivo di fuoriuscire dalle politiche neoliberiste. Questa analisi deve essere la nostra bussola, non un impedimento al pieno dispiegarsi di una nostra offensiva politica unitaria sui contenuti da immettere nel fronte anti-berlusconiano.
Per un movimento di massa antiliberista. Come abbiamo sottolineato, la cacciata di Berlusconi non risolve il tema dell’uscita a sinistra dalla crisi. Occorre costruire un’opposizione di massa alle politiche neoliberiste, italiane ed europee, uscendo dai confini asfittici della dimensione nazionale e superando i limiti di un antiberlusconismo interclassista.
Contribuire alla costruzione di un movimento di massa anticapitalista, radicato nel Paese ma con forti legami a livello europeo e mondiale, è quindi il secondo obiettivo che ci poniamo. L’assemblea dei movimenti tenutasi a Genova il 24 luglio scorso e la manifestazione unitaria del 15 ottobre sono primi positivi passi in questa direzione. Si tratta innanzitutto di estendere e unificare i movimenti presenti e di qualificarne la piattaforma in senso antiliberista.
La costruzione del movimento deve mantenere una piena autonomia dal quadro politico e dal governo, non può avere un unico punto di riferimento politico o non può avere governi amici da sostenere. Del resto i movimenti antiliberisti che concretamente si presentano oggi sulla scena hanno proprio questa caratteristica plurale come elemento costitutivo. Avanziamo questa riflessione anche a partire da una valutazione autocritica del ruolo che Rifondazione Comunista ha svolto – dopo il referendum sull’articolo 18 – nei confronti della possibilità di consolidare un forte movimento antiliberista dopo Genova.  La costruzione del movimento non può essere storpiato dalle storture del bipolarismo coatto che – anche per questo – vogliamo superare.
Dobbiamo rovesciare la crisi costituente nell’opposizione costituente di una nuova soggettività anticapitalistica.
La Costituente dei Beni Comuni e del Lavoro. Nel quadro del movimento antiliberista avanziamo la proposta di costruire una Costituente dei Beni Comuni e del Lavoro. Un progetto politico di aggregazione di tutti coloro che ritengono i beni comuni e la liberazione del lavoro la strada attraverso cui superare la mercificazione delle cose e dei rapporti sociali.
Parlano di questa esigenza la campagna che ha portato alla vittoria nei referendum per l’acqua pubblica, come i conflitti di lavoro o su base territoriale come il movimento NO TAV in Val di Susa. L’efficacia dell’azione politica dei movimenti di lotta è direttamente proporzionale alla costruzione di un progetto comune che diventi una presenza stabile nel Paese. Rivolgiamo questa proposta agli animatori dei principali movimenti, nella consapevolezza che si tratta di un passaggio politico: il passaggio da movimenti unificati dal comune avversario ad un conflitto contro la gestione capitalistica della crisi è tutto da fare e necessita l’individuazione degli obiettivi intermedi ma anche la costruzione di una lettura anticapitalista della crisi.
Il termine “Costituente” indica quindi un passo in avanti rispetto alla dimensione del movimento sia in termini organizzativi sia in termini di consapevolezza e di definizione degli obiettivi. Proponiamo quindi la Costituente dei beni comuni e del lavoro come “istituzione di movimento” che, a partire da obiettivi chiari, sappia confrontarsi con il sistema istituzionale senza esserne trasfigurata. Infatti, tra i soggetti collettivi che possono concorrere alla costruzione di una Costituente dei Beni comuni e del lavoro, vi sono soggetti politici e soggetti – ad esempio le organizzazioni sindacali – che in nessun modo possono far parte organicamente di un soggetto politico istituzionale. Inoltre il quadro bipolare ci consegna – a partire da comuni obiettivi e contenuti condivisi – diverse ipotesi di collocazione politica  e di schieramento sul piano istituzionale.
L’unità della sinistra di alternativa. In tutta Europa si evidenzia il permanere e per certi versi l’approfondirsi delle differenze tra le due sinistre e sono in corso processi di aggregazione della sinistra di alternativa. Anche in Italia occorre aggregare la sinistra di alternativa, in sinergia con il movimento di massa, con la Costituente dei beni comuni e del lavoro, con l’impegno della Federazione della Sinistra. Occorre organizzare il campo delle forze che si pongono il problema di uscire dalle politiche neoliberiste in una direzione anticapitalista e di uscire dalla Seconda Repubblica superando la gabbia del bipolarismo.
L’esperienza di questi anni ci insegna che senza la sinistra non c’è opposizione efficace, né politica né sociale, giacché neppure l’opposizione sociale, pure così radicale e attiva in questo ultimo anno, riesce a riaprire il terreno dell’alternativa. Per questo, nell’ambito del movimento di massa anticapitalista, proponiamo un percorso unitario per costruire un polo politico autonomo della sinistra di alternativa. E’ infatti necessario superare l’attuale dispersione e frantumazione che incide assai negativamente sull’efficacia e sulla credibilità della nostra azione. Avanziamo questa proposta a tutte le formazioni politiche di sinistra, così come alle compagne e ai compagni dei movimenti che, variamente organizzati, si pongono la necessità politica di costruire una sinistra degna di questo nome. In particolare, riteniamo che la soggettività delle lavoratrici e dei lavoratori, la loro organizzazione, il concreto manifestarsi della lotta di classe, rappresentino un elemento decisivo per l’esistenza della sinistra di alternativa.
Nel ritenere Rifondazione comunista necessaria per l’oggi e per il domani avanziamo quindi una proposta unitaria, federata, volta ad archiviare una stagione di scissioni che abbiamo subito e che hanno inciso negativamente sulla credibilità della sinistra. Va riedificato l’agire collettivo, attivando le forme della democrazia partecipativa, reinventando le relazioni tra movimenti e partito, facendo coesistere esperienze diverse disposte a riconoscersi reciprocamente, praticando esperienze di democrazia diretta a partire dall’uso dello strumento del referendum come è accaduto nella straordinaria esperienza di quelli sull’acqua e nucleare.
La costruzione di una sinistra di alternativa passa anche attraverso la forte valorizzazione delle esperienze locali. Già in occasione delle scorse elezioni amministrative si sono formate sui territori aggregazioni di forze politiche e sociali che hanno assunto un profilo politico e programmatico dichiaratamente antiliberista. Esse hanno raccolto una nuova domanda emergente a livello locale che non solo rimette in discussione l’idea di governo come istanza separata, ma che pone anche la necessità di politiche alternative a quelle abitualmente praticate. In queste esperienze si sono consolidate pratiche, relazioni unitarie, aperture vere alle istanze sociali e ai movimenti che vanno sostenute, allargate, consolidate e connesse, con l’obiettivo della costruzione della sinistra di alternativa.
Proponiamo un processo unitario a base federativa, partecipato e democratico, da costruirsi sulla base di un lavoro politico comune, articolato e sperimentato nei territori e radicato nei conflitti, a partire dalle lotte per il lavoro e per la giustizia sociale. Un processo che Rifondazione Comunista propone alle forze politiche, sociali, culturali, associative, a singole e singoli disponibili a costruire un polo politico autonomo dal centro sinistra e capace di una rinnovata critica del modo di produzione capitalistico e di un’alternativa di società. Un polo politico che si propone di incidere sul piano politico e nello stesso tempo capace di rappresentare un progetto strategicamente alternativo, che assuma come fondative e discriminanti la connessione tra anticapitalismo, critica al patriarcato, riconversione ambientale e sociale dell’economia, antirazzismo, pacifismo, solidarietà internazionale, lotta contro l’omofobia, critica della politica come attività separata e del bipolarismo.
La Federazione della Sinistra. Nella prospettiva di costruzione di un polo autonomo della sinistra di alternativa abbiamo dato vita alla Federazione della Sinistra. Lo abbiamo fatto con il Partito dei Comunisti Italiani, con Socialismo 2000, Lavoro e solidarietà e con altre soggettività presenti nei movimenti di lotta, consapevoli di fare un primo ma indispensabile passo. Una scelta unitaria compiuta proprio mentre subivamo l’ennesima scissione, giacché riteniamo che non si costruisce unità a sinistra attraverso rotture, e perché riteniamo che il patrimonio di militanza e di saperi di Rifondazione Comunista sia fondamentale per una prospettiva di sinistra e anticapitalista nel Paese.
Come abbiamo detto, il nostro obiettivo di fase è la costruzione di un polo politico autonomo della sinistra di alternativa. Proponiamo quindi a tutti coloro che fanno parte della Federazione della Sinistra di agire in questa direzione e di operare affinché la Federazione possa essere strumento utile a questo obiettivo.
La Federazione, così come essa oggi è, non rappresenta certo la tappa conclusiva dell’aggregazione della sinistra di alternativa. Siamo consapevoli di tutti i limiti della Federazione: di funzionamento, di radicamento sui territori, di democrazia e relativi alle diversità politiche che l’attraversano. Così come riconosciamo le nostre responsabilità a proposito. Ci è ben chiaro che larga parte degli uomini e delle donne di sinistra così come moltissime soggettività che si pongono il problema di costruire una sinistra di alternativa oggi in Italia non fanno parte della Federazione. Anche per questo ci poniamo l’obiettivo di allargare la Federazione, qualificandone il lavoro politico e democratizzandone il funzionamento.
Oggi non c’è nel Paese una realtà sociale passivizzata, come ci dicono le tante mobilitazioni dell’anno in corso. Tuttavia, c’è una realtà sociale assai distante dalla sinistra politica. Nei corpi intermedi della società, sindacati, associazioni, centri sociali, volontariato, come in quelle di movimento, realtà di fabbrica, studenti, precari, operatori della cultura dell’arte e dello spettacolo, c’è il deposito di resistenze e di insorgenze. Qui vive un patrimonio di esperienze e saperi che parla le lingue della sinistra, senza tuttavia riconoscerla come utile per sé. Proponiamo che la Federazione cammini con questa umanità, muova i propri passi mettendo a disposizione uno spazio politico comune che ognuno e ognuna possa attraversare riconoscendolo come proprio. Fondamento di questa possibilità dev’essere la certezza della democrazia e del rapporto paritario tra tutti coloro che vogliano far parte della Federazione.
Riteniamo infatti che il tema dell’unità a sinistra oggi, lungi dal declinarsi nella forma di nuovi partiti, che si risolvono in nuove scissioni  trovi nella forma federativa il suo punto più avanzato. La forma della federazione permette di mettere in comune la sostanza delle cose che ci uniscono evitando di riprodurre laceranti divisioni o addirittura scissioni sulle cose che ci dividono.
Riteniamo quindi necessario operare per superare i limiti della Federazione, al fine di realizzare il comune obiettivo che ci siamo dati nel suo congresso costitutivo. In quella sede abbiamo infatti deciso che: “E’ un soggetto politico e sociale che vive e trae alimento dalle risorse ideali e umane delle diverse soggettività politiche che costituiscono la Federazione, senza presupporre né implicare lo scioglimento dei partiti esistenti e delle associazioni che decidono di farne parte, superando i limiti già verificati della dinamica scioglimento dei partiti esistenti – costituzione dei nuovi partiti”. In particolare dobbiamo dare corso fino in fondo alla decisione espressa nel documento congressuale che recita “la Federazione della Sinistra decide di presentarsi unitariamente, come soggetto politico, con il proprio simbolo, alle elezioni a tutti i livelli, sulla base della ispirazione e del programma condivisi, e di assumere democraticamente, in modo vincolante per tute e tutti, le decisioni relative alla partecipazione elettorale e le regole per la vita delle proprie rappresentanze istituzionali”.
A partire dall’impegno nella costruzione e del miglioramento della Federazione, siamo quindi perfettamente consapevoli che il tema della costruzione di un soggetto politico della sinistra di alternativa non è oggi un dato acquisito, ma sta davanti a noi come compito politico di fase. La proposta politica di Rifondazione Comunista si articola quindi su più piani e con una pluralità di interlocutori, proprio con l’obiettivo di costruire un movimento e un soggettività politica anticapitalista in grado di porre concretamente il tema dell’uscita a sinistra dalla crisi.

Capitolo 7  – IL PROGRAMMA

Il programma non può che essere per noi un terreno di ricerca aperto, la cui definizione va oltre questo congresso. Aperto al rapporto con tutte le soggettività sociali e di movimento poiché non esiste rivendicazione od obiettivo che possa vivere se non si incarna in movimenti e conflitti reali e nella ricostruzione di un nuovo spazio pubblico. Aperto all’interlocuzione con i saperi sociali diffusi e con il mondo della cultura. Aperto al confronto a sinistra, per costruire un polo della sinistra di alternativa.
Questa ricerca vuole mettere in connessione la necessità di dare risposta alle contraddizioni della crisi del capitalismo globalizzato nella riattualizzazione di un’alternativa di sistema, con l’individuazione della parole d’ordine capaci di rompere qui ed ora il senso di impotenza che rischia di essere l’elemento sovradeterminante.  In questo quadro riteniamo decisivo il livello europeo, quello su cui si giocherà la vera partita politica. Il terreno europeo, la costruzione di un efficace partito della Sinistra Europea non è quindi per noi questione di politica estera, ma punto decisivo della possibilità di costruire una risposta da sinistra alla crisi costituente del capitale.

Una piattaforma per uscire a sinistra dalla crisi. Le proposte che avanziamo sul terreno economico e sociale si muovono su quattro assi fondamentali:
- di regolazione, per contrastare la speculazione finanziaria;
- redistributive, per ridurre le diseguaglianze e salvaguardare i diritti sociali;
- di riqualificazione e riconversione ambientale e sociale delle produzioni;
- di contrasto della precarietà, per il diritto al lavoro e per i diritti del lavoro.

L’EUROPA
Va riscritta in radice la costruzione europea. Va costruita l’Europa politica e sociale nella piena democratizzazione, nel rovesciamento dell’impianto delle sue politiche, nella ridefinizione del suo ruolo nella globalizzazione. Noi proponiamo il ruolo di guida delle istituzioni democratiche sulle scelte finanziarie della BCE, regole contro la speculazione finanziaria, la realizzazione di un sistema fiscale, di welfare e di diritti contrattuali del lavoro omogenei, contro ogni forma di dumping sociale e fiscale. Va quindi rilanciato e reso più efficace il Partito della Sinistra Europea, ridefinita la sua piattaforma con la quale contribuire alla costruzione ed unificazione delle lotte indispensabili a far vivere questi obiettivi. Le nostre proposte:
1) Modifica dei trattati di Maastricht e dello Statuto della BCE trasformandola in una Banca Centrale sottoposta alle direttive del Parlamento Europeo e avente come obiettivi istituzionali la piena occupazione e il finanziamento dei Fondi Comunitari e degli Stati membri, attraverso l’acquisto diretto dei titoli di Stato.
2) Forte tassazione comunitaria sulle transazioni finanziarie speculative a partire dall’introduzione immediata della Tobin Tax, abolizione dei paradisi fiscali, introduzione di una regolamentazione rigorosa dei mercati finanziari.
3) Messa in discussione degli accordi GATT e WTO con la ricontrattazione dei dazi per quanto riguarda le merci e l’introduzione del “labour standard” per la loro circolazione. Adozione di un comune sistema fiscale. Definizione di una politica economica finalizzata alla piena occupazione e alla riconversione ambientale e sociale dell’economia. Misure di contrasto alle delocalizzazioni produttive.
Contro l’Europa della BCE e dell’asse franco- tedesco perseguiamo la costruzione di un’area euro-mediterranea che sposti l’asse delle politiche europee verso il Mediterraneo facendo di quest’ultimo un luogo di formazione di relazioni solidali sul piano economico, culturale e civile.
Se le proposte che avanziamo sul piano europeo, in particolare in relazione alla BCE, non dovessero trovare risposte positive e continuassero gli attacchi speculativi, l’Italia deve ristrutturare il debito, garantendo per intero i piccoli risparmiatori e allungando unilateralmente i tempi di restituzione e la definizione delle cifre da restituire alle grandi finanziarie, cioè agli speculatori. Anche se nessuno ne parla, l’Islanda lo ha fatto con ottimi risultati.

L’ITALIA
1) Contrastare la speculazione e la finanziarizzazione. Se la misura più efficace per contrastare la speculazione nell’immediato passa dall’acquisto diretto da parte della BCE dei titoli degli stati membri, sul piano nazionale occorre vietare la vendita di titoli allo scoperto, come altri paesi a partire dalla Germania hanno fatto. Occorre costruire un polo pubblico del credito, nazionalizzando le banche di interesse nazionale, trasformando la Cassa Depositi e Prestiti in un banca pubblica, nel mantenimento pubblico di Poste. Occorre separare le banche di deposito da quelle di investimento e dare applicazione immediata delle regole di Basilea 3 e al divieto di gestione fuori bilancio di qualsiasi titolo.
Vanno infine introdotti meccanismi che scoraggino l’accesso del piccolo risparmio e delle risorse previdenziali dei lavoratori al mercato finanziario speculativo. Per questo proponiamo la costituzione presso l’INPS di un fondo pubblico per la gestione delle pensioni integrative, fiscalmente conveniente.
2) Per politiche industriali pubbliche, per il contrasto delle delocalizzazioni.
L’eliminazione dei vincoli alla libera circolazione dei capitali e i processi di finanziarizzazione hanno avuto una pesante ricaduta sui processi produttivi. Quei processi che hanno determinato un ricatto pesantissimo sui lavoratori e i sindacati, riassumibile nello spostamento massiccio di ricchezza dal lavoro ai profitti e alle rendite: 10 punti di Pil come media nei paesi Ocse, 15 in Italia. Inoltre l’Italia vede aziende mediamente più piccole del 40% rispetto all’Europa, investimenti diminuiti negli ultimi trent’ani di quasi il 40% in rapporto alla crescita dei profitti, mentre la ricchezza prodotta si è trasferita ai compensi dei grandi manager e alle rendite (+87% dal ’90 al 2009), produzione ad alto contenuto teconologico più bassa del 75% di quella media delle imprese europee. Emblematica l’importazione del 98% dei pannelli solari dall’estero. Questo a fronte di salari tra i più bassi in Europa e nei paesi Ocse – scesi in un ventennio dal 4° al 23° posto – e orari di lavoro tra i più lunghi.
Per uscire da questa situazione occorre quindi un intervento pubblico sul terreno delle politiche industriali che si doti di progetti e di strumenti operativi in grado di intervenire efficacemente (una nuova IRI, per usare uno slogan). Occorre rafforzare l’apparato produttivo e operare una sua riconversione ambientale che promuova la “filiera corta” delle produzioni, dentro un modello di pubblico fondato sul protagonismo delle comunità, dei lavoratori, dei cittadini, sulle scelte di fondo di “cosa, come, per chi produrre”.
Proponiamo poi di contrastare le delocalizzazioni, obbligando le imprese che delocalizzano a restituire i contributi pubblici ricevuti.
3) Redistribuire la ricchezza: un’imposta sui grandi patrimoni per la difesa e la riforma universalistica del welfare.
L’Italia ha un’evasione fiscale doppia rispetto a Francia e Germania e quadrupla rispetto a Austria e Olanda, con appena il 52% delle imprese che dichiara bilanci in attivo, mentre il 90% ricorre all’elusione fiscale attraverso l’utilizzo della filiera societaria. Se l’evasione fosse nella media Ocse il rapporto deficit/PIL sarebbe fra l’80 e il 90%. Inoltre negli ultimi 15 anni la tassazione sui patrimoni è scesa, all’opposto di quanto avvenuto nei principali paesi europei. In conseguenza di questi processi, l’Italia ha visto crescere più degli altri paesi le disuguaglianze. Se i dati sulla distribuzione del reddito sono già particolarmente iniqui, quelli sul patrimonio sono scandalosi. Il 10% più ricco della popolazione possiede il 45% della ricchezza immobiliare e finanziaria complessiva, mentre il 50% più povero non ne possiede che il 9,8%. L’1% delle famiglie, quelle ricchissime, detiene una quota di patrimonio (il 13%) uguale a quella posseduta dal 60% delle famiglie meno abbienti.
Proponiamo di istituire un’imposta ordinaria sui grandi patrimoni sopra il milione di euro, che potrebbe dare risorse per 20 miliardi annui, e di potenziare in ogni modo la lotta all’evasione fiscale.
Le risorse recuperate devono servire a diminuire il carico fiscale su salari e pensioni, istituire il reddito sociale, rafforzare il welfare a partire dal diritto all’abitare e dalle politiche per la non autosufficienza. Ci battiamo per la difesa e la riforma universalistica del welfare, ci opponiamo inoltre a qualsiasi ulteriore intervento peggiorativo in materia previdenziale e rivendichiamo meccanismi che garantiscano il diritto alla pensione per le lavoratrici e i lavoratori precari.
4) Un piano per il lavoro, l’ambiente, la conoscenza, la cultura. Tagliare le spese militari, le grandi opere, i privilegi della politica.
Riconvertire il nostro modello di sviluppo significa lavorare da subito per contrastare scelte profondamente regressive che si stanno facendo e proporre una destinazione alternativa delle risorse, che dia risposta alle contraddizione più aspre, ai bisogni sociali inevasi.
Le crisi climatica ed energetica domandano un immediato intervento sul risparmio energetico, le fonti rinnovabili, un diverso modello di mobilità. Destinare a questi interventi prioritari le risorse ingentissime previste per opere dannose e inutili come la Tav in Val di Susa e il Ponte sullo stretto significa tenere insieme la salvaguardia dell’ambiente, una nuova politica industriale e un grande piano per l’occupazione. Con la possibilità di creare, in questi soli settori, almeno mezzo milione di posti di lavoro, secondo le stime più prudenti. Tagliare le spese militari, dagli F35 agli organici di un esercito in cui i graduati sono più dei soldati semplici, la fine delle guerre in Afghanistan e in Libia, incrociano sia la lotta per la pace sia quella di una ridestinazione delle risorse in un paese che è terzo in Europa per spesa militare pro-capite e ventunesimo per spesa per l’istruzione. Così come il taglio dei privilegi della politica, degli stipendi dei parlamentari e dei consiglieri regionali, degli enti inutili e delle consulenze d’oro, è connesso per noi al blocco dei processi di smantellamento della funzione pubblica, a partire dalla stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione.
Il nostro impegno è quello di costruire l’opposizione alla nuova ondata di privatizzazioni che l’Euro Plus Pact e il governo Berlusconi vorrebbero imporci. Per un’altra idea dello sviluppo: un piano costruito nelle lotte, nella messa in connessione dei saperi sociali per il lavoro, l’ambiente, la conoscenza. Per noi la cultura e la conoscenza sono un bene comune e un diritto inalienabile e ambito strategico di investimento pubblico che garantiscano a tutti l’accesso alla produzione e alla fruizione della cultura. Che i lavoratori della cultura siano equiparati ai diritti previsti per il mondo del lavoro.
5) Contro la precarietà, per i diritti del lavoro. No all’articolo 8, al Collegato Lavoro, alla legge 30, alla Bossi-Fini.
Con l’ingresso nell’Euro, non essendo più possibile la svalutazione della lira, si è scelta la via della svalorizzazione del lavoro che vede oggi un deciso salto di qualità: dall’articolo 8 al Collegato lavoro. La crescita della disoccupazione – in particolare femminile e giovanile – va di pari passo con la crescita della quota di lavoro precario, ormai l’80 per cento dei nuovi assunti. Donne, migranti, precari si trovano costantemente nelle mansioni meno qualificate e con i salari più bassi. Alle forme flessibili del lavoro a termine e interinale si aggiunge la platea del falso lavoro autonomo, delle collaborazioni e delle partite IVA.
La ricomposizione del mondo del lavoro è per noi una priorità. Il contratto a tempo indeterminato deve essere la forma ordinaria del rapporto di lavoro. Per questo va rilanciato il contrasto alla legge 30, va superata la distinzione fittizia tra lavoro subordinato e parasubordinato, vanno introdotti limiti all’utilizzo dei contratti a termine, va introdotto un salario orario minimo da definire con riferimento ai minimi contrattuali. Va istituito un reddito sociale, per disoccupati e inoccupati, come elemento decisivo del contrasto alla precarietà. Va rilanciata l’iniziativa contro la Bossi-Fini.
Mentre sosteniamo tutte le iniziative che sul piano sindacale si pongono l’obiettivo di difendere la libertà dei lavoratori, la piena agibilità del diritto di sciopero, la contrattazione collettiva contro le deroghe, a partire dalla necessità assoluta di cancellare l’articolo 8, torniamo ad avanzare la proposta di costruire una stagione referendaria  contro la precarietà del lavoro.

I nuovi termini della questione meridionale- La crisi ha prodotto un ulteriore ampliamento del divario tra il Mezzogiorno ed il Centro-Nord. I tassi di occupazione giovanile e femminile sono bassissimi, rispettivamente il 31,7% e il 23,3%. Una massa consistente di giovani e di donne è costretto a dipendere dai trasferimenti di risorse delle generazioni più anziane. Le politiche restrittive e il federalismo fiscale aggraveranno pesantemente la situazione.
In questo contesto, in un processo di sempre maggiore internità al sistema politico, le mafie rappresentano oggi a tutti gli effetti una imprenditoria produttiva, uno dei pochi settori che non conosce crisi. Oltre al dato economico, esiste una seconda costante del fenomeno mafioso: il controllo sociale del territorio, reso possibile dall’assenza o dal malfunzionamento dello Stato sociale in tutti i suoi aspetti.
Alla questione meridionale oggi occorre rispondere organicamente con proposte che delineino un nuovo modello di sviluppo. Capaci dunque di fare i conti anche con i fallimenti della logica tardo-socialdemocratica fondata sull’idea che la grande impresa capitalistica fosse di per sé portatrice di sviluppo e razionalità.  La scelta che noi sosteniamo di una ripresa della politica industriale e che si intreccia all’intervento del partito per difendere il lavoro nelle tante drammatiche vertenze occupazionali aperte, mai come oggi deve essere connessa ad un nuovo intervento pubblico, esplicitamente caratterizzato da precisi vincoli sociali.
Detto in rapida sintesi, si tratta di promuovere grandi, indispensabili piani di bonifica ambientale, mettendo in sicurezza il Sud che frana e abbandonando opere faraoniche, inutili e dannose come il ponte sullo Stretto. Ma si tratta anche di ristrutturare integralmente la rete idrica e di avviare pratiche innovative di riassetto urbano, con la riqualificazione delle periferie dell’anonimia e dell’abbandono. Parallelamente occorre un coraggioso piano pluriennale di incentivazione delle produzioni tradizionali ed eco-compatibili, col rilancio – e nel Sud sarebbe una novità – della realtà cooperativa. In questa ottica una sicura priorità è la ripresa dell’agricoltura meridionale, con la valorizzazione commerciale dei prodotti tipici e il sostegno alle filiere biologiche. Tra gli interventi che riteniamo indifferibili va considerato il sostegno pubblico alla produzione culturale ed artistica: si tratta non solo della più importante risorsa di cui dispone il nostro Mezzogiorno, ma anche della leva fondamentale per una progressione effettiva di civiltà.
D’altra parte, tutte le iniziative produttive vanno collocate anche in uno scenario complessivo che guardi ad un futuro di relazione positiva con i paesi del Mediterraneo, in particolare con i paesi della sponda sud. Il nostro Mezzogiorno è un crocevia naturale. Occorre farlo diventare un crocevia organizzato di relazioni, di cooperazioni e di scambi, in un clima di reale apertura e reciprocità.
Allo stesso modo la centralità dell’obiettivo della stabilizzazione contrattuale dei precari e del contrasto alle assunzione in nero si accompagna non solo al nostro impegno per l’introduzione del reddito sociale per i disoccupati e gli inoccupati, come strumento decisivo per consentire di sottrarsi alle più odiose forme di ricatto occupazionale, ma anche alla riaffermazione del fatto che non vi è sviluppo possibile fuori dalla difesa dei “presidi di civiltà” sui territori, dalle scuole, agli ospedali alle associazioni culturali, da un diverso sviluppo delle persone.
Per quel che riguarda il contrasto alla criminalità va superata l’idea che sia possibile un’antimafia sul terreno della mera legalità. Si tratta invece di prospettare una vera e propria lotta sociale contro la criminalità organizzata e un’iniziativa sociale e politica specifica contro l’illegalità diffusa e la microdelinquenza. Si tratta, in sostanza, di mettere insieme più piani di iniziativa, ma soprattutto di rendere protagonisti di una tale iniziativa non le istituzioni separate, ma direttamente le popolazioni, legando questa lotta al loro riscatto sociale.
La questione sarda. A 150 anni dall’Unità d’Italia restano invariate le ragioni della specificità di una questione sarda. Essa nasce dalla storia di oppressione del popolo sardo nel corso di dominazioni e dalla marginalizzazione dei movimenti culturali e politici della Sardegna e dalla sottovalutazione del suo diritto all’autodeterminazione. L’isola per secoli è stata dominata da una nobiltà decadente e da una borghesia assenteista e parassitaria a cui si è aggiunto lo sfruttamento coloniale di quella sabaudo-piemontese e italiana. Oggi la crisi economica ha enormemente peggiorato la condizione materiale delle lavoratrici e dei lavoratori sardi, con la dismissione del settore industriale e l’impoverimento del comparto agro-pastorale. La Sardegna è preda di due fenomeni rappresentativi di una crisi strutturale: i flussi emigratori e lo spopolamento delle zone interne. Dobbiamo dunque impegnarci ad affrontare in termini nuovi il tema dell’autogoverno in rapporto ad un profondo programma di rinnovamento. Su questi temi il Partito deve giocare un ruolo propulsivo per coniugare le esigenze di autogoverno e sovranità del popolo sardo con quelle di una profonda riforma intellettuale e morale che sia economica, sociale e istituzionale.
Diritti civili
. La piena libertà di scelta individuale del proprio orientamento sessuale, che è fatto di piena rilevanza sociale, è parte costitutiva della nostra idea della trasformazione. Nel nostro Paese si registrano gravi discriminazioni in relazione all’orientamento sessuale, nella vita sociale, nell’accesso al lavoro e al welfare.
Appoggiamo il movimento LGBTQI che si batte per l’emancipazione e la liberazione delle donne e degli uomini, non solo dei gay, delle lesbiche, delle e dei trans. Un mondo e un Paese liberati dalle discriminazioni, dalle ingerenze vaticane, dall’oscurantismo che non è solo religioso, è un mondo più libero per tutte e tutti, eterosessuali compresi. Un movimento che è antifascista, che si batte per una società laica e contro le derive securitarie degli Stati e dei governi. Un movimento di cui siamo parte, orgogliosamente, e le cui proposte e rivendicazioni sono imprenscindibili punti del nostro programma.

Riteniamo quindi indispensabili:
- il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto e delle differenti forme di relazione;
- il contrasto a tutte le forme di omofobia e transfobia, attraverso mirate legislazioni ma anche attraverso la diffusione di modelli sociali e culturali “altri”;
- l’abrogazione della legge 40, che ha inteso legiferare sul corpo delle donne;
- la depatologizzazione della transessualità;
- il contrasto alle ideologie familiste e alle conseguenti legislazioni che producono emarginazione;
- una legislazione che introduca norme attive contro ogni forma di discriminazione fondata sul genere e sull’orientamento sessuale;
La società che vogliamo, l’altra umanità a cui vogliamo “dare vita”, parte anche da qui.

Il nostro impegno per i diritti – l’intreccio strettissimo tra diritti civili e diritti sociali – significa anche battersi contro le logiche dello stato penale, permeato dalla logica emergenziale, diventata permanente. Quello che trasforma la povertà, la tossicodipendenza, il diritto di migrare, in reati. Quello in cui il carcere diventa struttura classista di controllo statuale della marginalità: la lotta contro l’ergastolo a partire da quello ostativo; la chiusura immediata degli OPG; processi di depenalizzazione e di decarcerizzazione sono elementi fondamentali per l’applicazione della logica garantista dello “stato penale minimo”. L’abolizione del reato razzista di “clandestinità” e la chiusura dei CIE riguardano la nostra concezione di un rapporto di accoglienza, condivisione con i migranti.
Pacifismo e questioni internazionali. Il primo punto all’ordine del giorno è la costruzione del più vasto movimento per la pace, contro tutte le guerre e le politiche degli Stati che le producono e le determinano. Nello specifico, dobbiamo rilanciare in Italia un ampio movimento contro la partecipazione italiana alle guerre – a cominciare dall’Afganistan e dalla Libia – che ponga al centro la necessità di una soluzione politica e negoziata dei conflitti.
Parallelamente proponiamo un programma di disarmo attraverso la drastica diminuzione delle spese militari, l’annullamento dei programmi di riarmo (a partire dal più recente, relativo all’acquisto dei cacciabombardieri F-35), il ritiro dei militari italiani dall’Afganistan, la chiusura delle basi Nato e statunitensi presenti sul territorio nazionale.
La lotta contro la guerra e l’imperialismo implica la lotta per la pace e quindi il sostegno – culturale e politico – alle esperienze di resistenza al modello neo-liberista incamminate, ciascuna con la propria specificità, verso prospettive di carattere socialista. In particolare, ribadiamo la nostra solidarietà a Cuba e il nostro sostegno a qualunque iniziativa atta a rimuovere il criminale embargo a cui è sottoposta da cinquant’anni e il nostro impegno a fianco del governo cubano nella richiesta presso la comunità internazionale della scarcerazione dei Cinque patrioti detenuti illegalmente negli Stati Uniti dal 1998.
Allo stesso tempo, riteniamo determinante che si costruiscano anche nel nostro Paese una attenzione profonda e una solidarietà attiva nei confronti di quei popoli che – nella stessa area del Mediterraneo – subiscono da decenni violenze e discriminazioni intollerabili.
Rifondazione Comunista sostiene la lotta del popolo kurdo, contro le politiche vessatorie e repressive del governo turco e chiede l’immediata scarcerazione di Abdullah Ocalan, come prima azione concreta che possa favorire un processo di pace e la soluzione politica del conflitto.
Rifondazione Comunista sostiene la lotta del popolo Sahrawi e del Fronte Polisario e condanna in maniera inequivoca la pretesa del governo marocchino di risolvere con la repressione il contenzioso. La soluzione del conflitto è possibile soltanto nel rispetto di quanto sancito in sede Onu e cioè con il riconoscimento del diritto del popolo Sahrawi all’autodeterminazione.
Rifondazione comunista sostiene infine la lotta del popolo palestinese per la libertà e l’autodeterminazione, nella convinzione che soltanto una soluzione equa e giusta del conflitto israelo-palestinese, basata sulla parola d’ordine dei “Due popoli per due Stati”, potrà aprire scenari di pace nel futuro del Mediterraneo. In quest’ottica sosteniamo la richiesta avanzata dall’Anp alle Nazioni Unite del riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese. Esprimiamo il nostro sostegno alle campagne internazionali fondate sulla condanna delle politiche del governo israeliano, della sua opera di colonizzazione dei territori palestinesi determinati dai confini del 1967, della vergogna del Muro, dell’espulsione dei palestinesi da Gerusalemme, dell’embargo e della guerra nella Striscia di Gaza. Sosteniamo le forze progressiste e democratiche che in Israele si battono per la fine dell’occupazione e le azioni e le campagne internazionali, a partire dalla campagna di BDS sostenuta dalla società civile palestinese, che nascono sul terreno della resistenza non violenta all’occupazione israeliana.
Per dare più forza a queste proposte, Rifondazione Comunista si impegna a lavorare, di concerto con le altre forze della Sinistra Europea, per l’organizzazione del prossimo Forum sociale dell’area euro-mediterranea, allo scopo di ricostruire una prospettiva comune tra le forze della sinistra e i movimenti sociali delle due sponde del Mediterraneo, necessaria anche per determinare in senso progressivo l’esito delle rivolte che si sono prodotte nei mesi scorsi.

Una rivoluzione democratica per uscire dalla crisi. Mai come in questo momento affrontare il nodo della democrazia non è altra cosa da una piattaforma per uscire dalla crisi, a sinistra. Opporsi al tentativo di smantellamento dei diritti del lavoro, alla volontà di cancellazione dell’articolo 41, alla follia della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, significa riaffermare il carattere progressivo del conflitto sociale, gli obiettivi di uguaglianza e libertà che sono lettera e sostanza della Carta Costituzionale. Significa opporsi a quel sofisticato ed esteso attacco al complessivo impianto costituzionale che è passato, anche a sinistra, attraverso la concezione della “democrazia governante” che ha imposto il sistema bipolare maggioritario, alluso al sistema presidenziale, affievolito gli istituti di controllo e critica del potere, puntato a rendere il Parlamento un superfluo orpello.
Significa rilanciare la democrazia conflittuale e organizzata che si fondi sul protagonismo quotidiano, su strutture di partecipazione autonoma, sull’autogestione.

Una testa, un voto: per un sistema elettorale proporzionale.
Il maggioritario e il bipolarismo non sono solo un modello istituzionale, sono un modello di società. Lo hanno capito gli indignados in Spagna, lo dobbiamo affermare con forza nel nostro Paese. Il meccanismo maggioritario ha costretto in questi anni la politica dentro coalizione forzose, guidate dalla logica del “meno peggio” ed ha gravemente penalizzato la possibilità di ricostruzione di una sinistra autonoma.. Il teorema della conquista del centro ha incorporato strutturalmente le politiche neoliberiste. Ha consentito che la destra avesse maggioranze assolute in Parlamento, anche se non le aveva nel Paese. Ha reso impermeabile la politica – a cui si concede una delega totale per 5 anni – ai conflitti sociali. Ha negato il principio elementare della democrazia “una testa, un voto”. Per questo ci battiamo per il proporzionale, per togliere alla società la camicia di forza del bipolarismo neoliberista.

Una testa, un voto nei luoghi di lavoro. Per il voto vincolante su piattaforme e accordi. Rompere la delega significa intrecciare il ripristino del principio della rappresentanza dentro le istituzioni con la riappropriazione sociale di poteri e decisioni. E’ nostro obiettivo prioritario quello di una legge sulla democrazia nei luoghi di lavoro che sancisca il potere vincolante delle lavoratrici e dei lavoratori su piattaforme e accordi, attraverso il voto segreto. La potestà di pronunciarsi sulle condizioni di lavoro, il salario, gli orari e i ritmi, su quanto determina una parte decisiva della propria vita, è un nodo ineludibile della ricostruzione della soggettività del lavoro ed è quindi una questione politica di prima grandezza.

Per la democrazia partecipata. Per un nuovo intreccio tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Rompere la delega significa costruire un nuovo intreccio tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Il neoliberismo ha ridotto la democrazia spostando il potere dalla sfera pubblica a quella privata; noi vogliamo ampliare la democrazia con una riforma delle istituzioni che sviluppi la partecipazione a tutti i livelli, nel coinvolgimento diretto dell’associazionismo, dei movimenti, di singole e singoli, in un nuovo statuto della cittadinanza. Questo non vale solo per le istituzioni ma per il sistema politico nel suo complesso: la nostra proposta di “primarie di programma” va in questa direzione e vuole costruire processi di coinvolgimento e protagonismo popolare in grado di stabilire vincoli politici su contenuti qualificanti, al mandato che si conferisce nel momento delle elezioni.

Per il diritto di voto alle migranti e ai migranti. Una piattaforma per la democrazia deve comprendere la ripresa della campagna per il diritto di voto amministrativo di donne e uomini migranti e una riforma della cittadinanza che renda possibile il pieno esercizio dei diritti politici. L’esclusione dei migranti dal diritto di voto significa l’esclusione di una parte decisiva della nuova classe operaia dai diritti politici, in un sistema di sostanziale apartheid censitario. Ne risulta erosa la qualità complessiva della nostra democrazia.

Per la rottura del monopolio maschile dello spazio pubblico
Processi materiali e simbolici, particolarmente gravi nel nostro Paese, concorrono a determinare lo spazio pubblico come sostanziale dominio maschile. E’ tempo di porre il tema di una legge che obblighi non solo a candidare, ma ad eleggere le donne secondo i principi della rappresentanza paritaria dei sessi, a tutti i livelli istituzionali. E’ una delle vie da percorrere per modificare oltre che la politica, l’immaginario sociale.

In conclusione. Quelle elencate sono proposte tutt’altro che esaustive, accomunate però dalla volontà di ridare voce e potere ai soggetti e alle culture indispensabili per il cambiamento. Cercano di rispondere al nodo fondamentale: esiste un’alternativa al ricatto dei governi e delle finanze che usano la crisi come “vincolo esterno”. Esiste un’alternativa alla distruzione dei diritti del lavoro e del welfare, alla precarizzazione integrale del lavoro e della vita. Esiste un’alternativa alla distruzione della democrazia costituzionale, alla trasformazione della statualità da potere di programmazione, coordinamento, regolazione delle attività economiche, in stato penale, che produce e reprime le marginalità sociali nel definitivo abbandono di ogni obiettivo di uguaglianza e libertà. Esiste un’alternativa al dominio maschile, che si rafforza dentro una crisi che nello smantellamento del welfare accentua piuttosto che superare la divisione sessuata del lavoro produttivo e riproduttivo, mentre le conquiste di libertà delle donne, sul terreno della sessualità e dell’autodeterminazione sono messe in discussione tanto dal disciplinamento neo-familista, quanto dalla reificazione mercatista dei corpi delle donne. Esiste un’alternativa al consumo onnivoro e alla mercificazione delle risorse, ad un modello di sviluppo che mette in discussione la riproducibilità della natura, e dunque il benessere e la stessa sopravvivenza della specie umana.
Il tema del programma consiste nel cercare i nessi unitari tra i vari movimenti e conflitti, identificando nei diritti universali e in una nuova “confederalità dal basso” le leve di una difficile ma necessaria riunificazione. Evitando la doppia deriva dell’autonomia del politico e dell’autonomia del sociale, politicizzando invece il sociale e socializzando il politico; il che comporta che il ruolo primo di una soggettività organizzata alternativa è di individuare gli obiettivi che permettano di alimentare i conflitti, unificare le lotte, accompagnarle nella costruzione di una uscita da sinistra dalla crisi.

Capitolo 8 – IL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA

Dalle cose sin qui espresse risulta evidente che il Partito della Rifondazione Comunista ha un ruolo indispensabile nel progetto di aggregazione delle soggettività e nell’individuazione del progetto di costruzione dell’alternativa di società. Nel contempo le nostre forze sono insufficienti ed anche per questo poniamo il tema dell’unità della sinistra di alternativa al centro del nostro progetto.
Merito fondamentale degli iscritti e delle iscritte, del quadro attivo è l’aver impedito la liquidazione dell’esperienza di Rifondazione Comunista. Ciononostante, dopo il Congresso di Chianciano, anche a seguito della scissione e al conseguente dimezzamento della consistenza numerica del partito, i problemi della vita interna non sono stati ancora superati. A vent’anni dalla nascita, siamo in una situazione di grande fragilità se non di crisi. Accanto a realtà territoriali caratterizzate da una positiva ripresa del lavoro politico, permangono situazioni di grave difficoltà. Così come il nostro oscuramento mediatico pesa non poco sul lavoro quotidiano dei compagni e delle compagne. Da questa condizione di debolezza dobbiamo partire, sapendo che si tratta di un problema politico, culturale e organizzativo.
I problemi. Rifondazione Comunista si è opposta sin dalla sua nascita al processo di costruzione della seconda repubblica, Il primo ostacolo – oggettivo – che Rifondazione si è trovata ad affrontare è dato dalla modifica del contesto istituzionale. Il bipolarismo ha posto in questi anni Rifondazione di fronte al tema delle alleanze con una pesantezza che ne ha condizionato fortemente – quando non deformato – il progetto politico.
A questa difficoltà oggettiva il partito non ha saputo fare fronte costruendo un percorso di elaborazione strategica e di radicamento sociale all’altezza della sfida. Così le singole scelte di volta in volta operate sul piano delle alleanze sono diventate laceranti e hanno determinato pesantemente la pratica del partito, la sua identità oltre che la sua immagine esterna. Da questo punto di vista, l’esperienza del governo Prodi è stata un fattore decisivo della crisi di Rifondazione ed ha determinato risposte divaricanti, che hanno portato ad una scissione molto rilevante.
Nel corso degli anni, questa centralità assorbente della tattica istituzionale si è sommata a fenomeni di deformazione leaderistica non dissimili dal contesto politico in cui ci siamo mossi e ad una discussione sull’innovazione politico-culturale che non sempre ha avuto il necessario respiro strategico.  Questi elementi hanno pesato non poco nel rafforzamento e nella cristallizzazione di correnti strutturate che costituiscono oggi un limite pesante nell’elaborazione politica e nell’azione del partito. Il correntismo esasperato si traduce spesso in cordate in cui la fedeltà alla corrente e al capo corrente ha il sopravvento sul resto, mortificando competenze, entusiasmi, capacità di fare. Esso si è tradotto in molti territori in una lotta sorda per la conquista di posti di comando. Laddove si è determinato un compromesso, si è spesso tradotto in un equilibrio tra vertici di correnti, fondato sulla spartizione degli incarichi. Occorre rompere il monopolio correntizio che attanaglia la vita di Rifondazione Comunista. Ciò non si fa con la riduzione degli spazi di democrazia o in nome di una unità formale che spesso cela posizioni politiche divergenti e guerre intestine nei territori. Aree culturali, tendenze, diversità non sono il male da distruggere, sono il sale del confronto in una forza in cui le compagne e i compagni sono “liberamente comuniste e comunisti”. Tuttavia ciò che dobbiamo evitare è che i luoghi di direzione politica si trasformino in istanze all’interno delle quali si ratifichino decisione assunte altrove. E’ perciò indispensabile che almeno che riveste ruoli esecutivi, ad ogni livello, non precostituisca in riunioni correntizie decisioni che debbono scaturire unicamente dagli organismi statutari del nostro partito. Che i gruppi dirigenti che usciranno dal prossimo Congresso non siano determinati dalle correnti, ma siano il frutto di una discussione unitaria, partecipata e collegiale all’interno della quale ognuno si senta libero di avanzare proposte senza vincoli di appartenenza. Che si instaurino pratiche e comportamenti che valorizzino i ruoli e le competenze. Per uscire da questa situazione la democrazia è il punto fondamentale di svolta e noi riteniamo che il Convegno di Carrara abbia tracciato le linee di autoriforma del partito. Si tratta di applicare quelle decisioni, che al contrario sono rimaste lettera morta in questi anni.
Le proposte. Il punto di fondo è che il tema della rifondazione comunista, a vent’anni dalla nostra nascita, non è stato risolto positivamente. A partire dall’analisi e dalle proposte politiche che abbiamo avanzato nel documento, si tratta allora di impostare una “rifondazione della rifondazione” che proponiamo si muova sui seguenti terreni.
Ribadendo la nostra lotta strategica contro il bipolarismo, vogliamo costruire un partito che sappia vivere, discutere e svilupparsi senza essere deformato da una centralità assorbente del piano istituzionale. Non perché questo non abbia una grande rilevanza politica – al contrario – ma perché se il bipolarismo costituisce una condizione istituzionale funzionale alla distruzione delle forze politiche antisistema, noi dobbiamo conquistare un grado di autonomia strategica dal bipolarismo che ci permetta di fare politica senza esserne fagocitati. Occorre quindi costruire consapevolmente un Partito della Rifondazione Comunista che non abbia nella discussione sui passaggi istituzionali il centro della sua vita politica. In questa prospettiva proponiamo di assumere la scelta di praticare il terreno della rappresentanza politica come Federazione della Sinistra e in prospettiva come aggregazione della sinistra di alternativa. Ovviamente il terreno della rappresentanza costruito come terreno unitario deve vedere la definizione e la pratica di regole chiare nella definizione degli indirizzi politici e del funzionamento delle rappresentanze istituzionali. Si tratta di applicare in modo rigoroso i regolamenti già varati e di farlo a partire dalle situazioni attualmente in essere.
Questa scelta ci chiede un deciso salto di qualità sugli altri terreni dell’azione politica, sulla base delle analisi e delle proposte che sviluppiamo in questo documento. Dalla prospettiva dell’alternativa di società declinata nella prima parte del documento, al progetto di uscita a sinistra dalla crisi, abbiamo riassunto i nostri compiti, in cui Rifondazione deve agire consapevolmente come forza che lavora ad organizzare forze per questi obiettivi. Abbiamo bisogno di un partito che:
1) si faccia portatore di una critica dell’economia politica del capitalismo attuale e individui i concreti obiettivi di fase, costruendo una visione del mondo anticapitalista e comunista che sappia riallacciare i fili della memoria con il movimento operaio italiano, con il movimento altermondialista, nella prospettiva del socialismo del XXI secolo. Si tratta cioè di riprendere seriamente il lavoro teorico e di analisi critica della realtà;
2) che ritessa il filo rosso dell’internazionalismo per il rafforzamento del Partito della Sinistra Europea e per la costruzione di un soggetto politico mondiale anticapitalista superando un certo ripiegamento sulla dinamica nazionale che ci ha caratterizzato in questi ultimi anni;
3) che rilanci la pratica dell’inchiesta operaia sul complesso delle soggettività che subiscono la crisi capitalistica, sui conflitti sociali, sulle ristrutturazioni in corso. Occorre analizzare molto meglio la soggettività effettiva che cresce nel conflitto, trasformando il lavoro di inchiesta nel modo di essere del partito militante;
4) che operi per lo sviluppo delle lotte e per la loro unificazione. Il tema della costruzione delle lotte è decisivo per lo sviluppo di una nuova soggettività antagonista. Altrettanto importante è il tema della connessione tra le lotte e la valorizzazione dei punti di vista dei diversi soggetti coinvolti. La centralità dello scontro  tra capitale e lavoro – alla quale deve corrispondere il più marcato radicamento del partito nei luoghi del lavoro e del conflitto – non deve assolutamente essere declinata come irrilevanza della altre contraddizioni o peggio come se dal conflitto capitale-lavoro sgorgasse una compiuta soggettività in grado di costruire l’alternativa di società. Solo una grande operazione politica e culturale di connessione e confronto tra le soggettività e le elaborazioni che emergono dalle diverse contraddizioni oggi determinate dalla crisi capitalistica può dar luogo alla costruzione di una soggettività dell’alternativa. Per questo nel ribadire che lottiamo per il superamento del capitalismo e del patriarcato siamo impegnati nella costruzione di lotte su tutti i terreni in cui avviene sfruttamento o compressione delle libertà degli uomini e delle donne. In tal senso la democrazia di genere deve diventare elemento fondamentale della vita del partito e della sua gestione, nel riconoscimento del carattere sessuato dei soggetti. E’ necessario aprire una riflessione su di noi. Ci impegniamo a realizzare un’inchiesta che attraversi il partito a tutti i suoi livelli, per comprendere le ragioni organizzative, politiche, culturali e simboliche, della totale asimmetria di presenza dei generi che segna la nostra composizione materiale. Occorre cercare le ragioni alla nostra evidente incapacità di essere vissuti come strumento del protagonismo delle donne;
5) che si adoperi per l’allargamento dei beni comuni e delle forme di democrazia diretta, partecipata, di genere;
6) che agisca per la costruzione di un tessuto di mutualismo e autorganizzazione sociale, che rappresenta un punto decisivo per l’aggregazione dei soggetti sociali frantumati dalla crisi e un punto fondamentale per la riconquista della nostra credibilità politica. La ricostruzione dei legami sociali di Rifondazione Comunista con la propria gente, dentro la crisi, è quindi un fondamentale obiettivo di fase e qualifica la nostra volontà di costruirci come partito di massa. Da questo punto di vista tutte le pratiche del partito sociale vanno allargate ed approfondite sino a diventare un fatto non solo culturalmente ma socialmente rilevante oltre che un fattore di identificazione della proposta comunista oggi. Il punto non è costruire il partito sociale dentro Rifondazione ma il fatto che tutta Rifondazione deve caratterizzarsi per le pratiche sociali. Anche perché l’attacco allo Stato sociale e in generale alla redistribuzione del reddito è fortissimo. Così come le tendenze neo-corporative a costruire vere e proprie forme di welfare aziendalistico e privatizzato. Noi dobbiamo affiancare alla lotta per la difesa di un welfare pubblico che garantisca l’universalismo dei diritti, forme di mutualismo e di autotutela dei soggetti colpiti dalla crisi. In questo senso, le pratiche del partito sociale, cioè l’autorganizzazione delle forme di tutela del quotidiano, sono parte costitutiva della pratica politica comunista oggi;
7) che riprenda con forza il tema dell’antifascismo, inteso come ricerca e diffusione della conoscenza dei diversi fascismi per poter portare una seria azione di contrasto al revisionismo storico imperante e ai nuovi fenomeni di neofascismo e neonazismo e, più in generale, alle destre razziste e xenofobe. E’ un impegno già presente in sempre più numerose realtà giovanili, che si organizzano nell’ANPI ma anche e sempre più spesso, in circuiti, coordinamenti, reti a carattere territoriale, nei quali occorre rafforzare il nostro impegno militante;
8) che sviluppi la formazione e l’auto-formazione legandola ad ogni momento della vita del Partito: dalle Feste del Tesseramento fino ad attività di studio e lettura collettiva del patrimonio storico e teorico della nostra tradizione, da lavori di valorizzazione della memoria e del sapere diffuso dei nostri compagni più anziani fino a specifiche attività formative rivolte al “saper fare” dei nostri quadri dirigenti a tutti i livelli. Occorre connettere la formazione e l’auto-formazione a momenti di dibattito, di diffusione di un sapere critico costruito nel concreto delle lotte, così come è successo nelle battaglie del movimento per l’acqua pubblica, nella lotta contro la TAV in Val di Susa e in molte altre lotte. L’obiettivo ambizioso che ci dobbiamo porre è produrre una nuova leva di quadri comunisti capaci di “nuotare controcorrente” con propri autonomi strumenti nella crisi culturale, e ormai anche etica e antropologica, del capitalismo;
9) che ponga particolare attenzione alla questione dell’informazione. L’oscuramento mediatico che subiamo è frutto di una censura consapevole causato anche da nostre lacune nell’organizzazione della comunicazione. Accanto a Liberazione, a cui abbiamo dedicato grandi risorse e grandi attenzioni nel tentativo di rilanciarlo, dobbiamo sviluppare fortemente la comunicazione su tutti i terreni, a partire dall’utilizzo della rete, sviluppando le straordinarie innovazioni del web e dalle sue evoluzioni, social network e social media, valorizzandone il carattere dialogico e interattivo, ritrovando nella rete strumento e forma di relazione. Ciò comporta l’assunzione di proposte tese alla valorizzazione della condivisione di saperi open source, peer-to-peer e copy-left.  Così come la rivista Su la testa deve diventare effettivo strumento di ricerca, dibattito e formazione teorica per il complesso del partito.
Vogliamo quindi costruire un partito in grado di fare una analisi critica del capitalismo oggi, di avere un progetto di trasformazione, di fare battaglia culturale, di organizzare lotte e strumenti di autorganizzazione sociale. Un partito intellettuale collettivo che si ponga l’obiettivo di aggregare le avanguardie di lotta presenti nei diversi movimenti e di essere punto di riferimento per il precariato intellettuale diffuso, portatore di saperi essenziali per il progetto di trasformazione. Un partito che sia in grado di coltivare la speranza e di farla diventare forza materiale di trasformazione.

FIRMATARI:
Paolo Ferrero, Maria Campese, Roberta Fantozzi, Eleonora Forenza, Claudio Grassi, Gianluigi Pegolo, Rosa Rinaldi, Augusto Rocchi;
Maurizio Acerbo, Veronica Albertini, Salvatore Allocca, Beatriz Paula Amadio, Marco Amagliani, Fabio Amato, Roberto Antonaz , Patrizia Arnaboldi, Imma Barbarossa, Luca Barbuti, Danilo Barreca, Sandro Barzaghi, Iglis Bellavista, Anna Belligero, Fabio Biasio, Ugo Boghetta, Salvatore Bonadonna, Antonietta Bottini, Antonella Bozzi, Bianca Bracci Torsi, Stefania Brai, Irene Bregola, Alberto Burgio, Luca Cangemi, Giovanna Capelli, Mimmo Caporusso, Guido Cappelloni, Renato Cardazzo, Paolo Carrazza, Carlo Cartocci, Bruno Casati, Giusto Catania, Silvana Cesani, Nicola Cesaria, Mauro Cimaschi, Francesco Cirigliano, Maddalena Cirigliano, Fausto Co’, Pino Commodari, Anna Rita Coppa, Mimmo Cosentino, Aurelio Crippa, Stefano Cristiano, Alfredo Crupi, Nicola Culeddu, Francesco D’agresta, Marco Dal Toso, Antonio D’Alessandro, Walter De Cesaris, Valentina Di Gennaro, Italo Di Sabato,  Roberto Di Stefano, Monica Donini, Erminia Emprin Gilardini, Alessandro Esposito, Giuliano Ezzelini Storti, Stefano Falcinelli, Marco Fars, Alessandro Favilli, Giuseppe Fazzese, Veruska Fedi, Saverio Ferrari, Antonio Ferraro, Roberta Forte, Loredana Fraleone, Ottavio Frammartino, Kristian Franzil, Gianni Fresu, Alessandro Fucito, Marco Gelmini, Luigi Gianfreda, Rosita Gigantino, Matteo Giordano, Rossella Giordano, Alberto Giorgi, Orfeo Goracci, Damiano Guagliardi, Dafne Iriti, Igor Kocijancic, Francesco Labernarda, Elisa Laudiero, Alessandro Leoni, Letizia Lindi, Simona Lobina, Ezio Locatelli, Angela Lombardi, Marina Loro Piana, Francesco Lucat, Annalisa Magri, Ferdinando Mainardi, Cesare Mangianti, Piero Manni, Vittorio Mantelli, Ramon Mantovani, Loredana Marino, Antonio Marotta, Danilo Marra, Leonardo Masella, Citto Maselli , Marina Melappioni, Adriana Miniati, Grazia Montoro, Salvatore Morsellino, Luciano Muhlbauer, Francesco Nappo, Marco Nesci, Alfio Nicotra, Vito Nocera, Marcello Notarfonso, Simone Oggionni, Ottavia Oliverio, Sergio Olivieri, Luciano Pantanetti, Alba Paolini, Davide Pappalardo, Renato Patrito, Nello Patta, Achille Peluchetti, Armando Petrini, Vincenzo Pillai, Andrea Pitoni, Gianluca Primavera, Simone Pulici, Rosario Rappa, Licia Rasori, Roberto Romito, Daniela Ruffini,  Giovanni Russo Spena, Linda Santilli, Luigi Saragnese, Marco Savelli, Gianluca Schiavon, Monica Sgherri, Giacinto Antonello Soccio, Simone Stefan, Bruno Steri, Valentina Steri, Laura Stochino, Damiano Stufara, Rocco Tassone, Raffaele Tecce, Giovanna Ticca, Alessandro Trotta, Elena Ulivieri, Sandro Valentini, Danielle Vangieri, Stefano Vinti, Francesco Voccoli, Pasquale Voza, Stefano Zuccherini;
Stefano Alberione, Francesco Daniele, Silvia Di Giacomo, Giuseppe Benassi, Stefania Brunini, Ernesto Cairoli, Adriano D’Amico, Sabino De Razza, Elena Lucenti, Cristiana Morsolin, Donatella Mungo, Patrizia Poselli, Elio Romano, Gino Sperandio, Walter Tanzi.

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1. Crisi della rappresentanza di classe.

A partire dal 2008 abbiamo visto aprirsi una voragine nella rappresentanza e nell’espressione organizzata dei lavoratori nel nostro paese. La scomparsa della sinistra dal parlamento per la prima volta dal 1892 è stata solo l’espressione più clamorosa di questo vuoto, che in realtà si era già creato nei due anni di governo Prodi con la completa incapacità della sinistra di affermare gli interessi di classe all’interno di una coalizione dominata da politiche confindustriali sul piano interno e filo-atlantiche sul piano internazionale.
Non è scomparsa tuttavia la militanza di sinistra, che in questi anni ha continuato a cercare terreni sui quali esprimersi, né tantomeno è scomparso il conflitto sociale, tornato a farsi sentire con forza crescente. Neppure il Prc è scomparso, a dispetto delle scissioni e dell’abbandono di una parte della propria militanza ha mantenuto un patrimonio di forza organizzata. In quale direzione investire questo prezioso e unico patrimonio del nostro partito è il tema di questo congresso.

2. “Pomigliano non si piega!” e la ripresa del movimento di massa.

Immediatamente dopo la sconfitta elettorale 2008 la questione della rappresentanza di classe è stato percepita soprattutto in forma negativa. La cancellazione dal parlamento, la vittoria elettorale delle destre e lo choc prodotto dalla crisi, che pareva stordire i lavoratori e minarne la capacità di resistenza, facevano prevalere nella nostra militanza e in generale nella sinistra letture pessimiste. Si teorizzava lo “sbocco a destra” della crisi, l’atomizzazione sociale e una “lunga marcia nel deserto” per la sinistra. Al tempo stesso il vuoto e lo sbandamento politico lasciavano spazi per tentativi populisti di varia natura. Forze estranee al movimento operaio come l’Idv tentavano di accreditarsi una funzione di “tutela” degli interessi operai attraverso una demagogia di stampo vagamente peronista
Dopo il 2009 la questione si è posta in modo positivo, grazie al risveglio del conflitto di classe nei luoghi di lavoro e in primo luogo fra i metalmeccanici. Se la Innse nel 2009 è stato un primo annuncio, lo scontro frontale apertosi nel gruppo Fiat e poi a cascata in tutto il settore metalmeccanico e anche in altre categorie, con la firma di accordi separati riguardanti oltre sette milioni di lavoratori, ha posto al centro la questione del conflitto operaio e delle sue espressioni sindacali e politiche. Il 16 ottobre 2010 la risposta di massa all’appello della Fiom ha dimostrato come il conflitto operaio potesse essere il punto di raccolta di tutti i movimenti di lotta che attraversano il nostro paese. Questo si è confermato nei giorni del referendum di Mirafiori e dello sciopero metalmeccanico del 28-29 gennaio 2011. Oggi è chiaro che anche nel nostro paese, come in Grecia, Spagna, Gran Bretagna, all’ordine del giorno non dobbiamo mettere il ripiegamento di fronte a una destra egemonica, ma il dispiegarsi del conflitto di classe al livello più alto. Questo si deve in primo luogo alla capacità di settori operai di farsi carico, in quasi totale solitudine, dell’intero peso dello scontro come dimostrato dalla svolta di Pomigliano e dalle sue successive ricadute.
I mesi successivi hanno mostrato l’ampiezza e l’articolazione del fronte del conflitto, dagli studenti del 14 dicembre fino al movimento per l’acqua pubblica e agli scioperi generali del 6 maggio e 6 settembre 2011, alla grande manifestazione del 3 luglio in Val Susa, la ripresa del movimento degli immigrati con la lotta di Milano e Brescia e con vertenze operaie, in particolare nel settore della logistica, nelle quali le rivendicazioni strettamente sindacali si sono intrecciate con una forte affermazione della soggettività dei lavoratori migranti, espressa anche nella lotta di Nardò.
La sintesi più accurata di questo processo è la seguente: per la prima volta da 30 anni, ossia dalla sconfitta della Fiat del 1980, nel nostro paese si può produrre un movimento di massa che veda al centro una chiara discriminante di classe, e la classe lavoratrice come suo architrave ed elemento egemonico.

3. Miseria dell’elettoralismo

Centrale è quindi il modo come il nostro partito si pone di fronte a questi sviluppi. A dispetto delle decisioni assunte nel documento conclusivo del Congresso di Chianciano (alternatività strategica al Pd, ricostruzione del partito “in basso a sinistra”, immersione nel conflitto sociale), negli ultimi due anni la discussione del gruppo dirigente è stata completamente dominata da un solo punto: come garantire al Prc una rappresentanza istituzionale che permettesse di “rientrare nei giochi”. Tutte le scelte e discussioni fondamentali sono state condizionate da questo solo punto. Come sottoprodotto, ognuna delle componenti presenti nell’attuale maggioranza del partito è stata guidata dalla priorità di posizionarsi nel conflitto interno al partito per poter beneficiare del poco di rappresentanza istituzionale che rimane e di una futura auspicata presenza parlamentare (oltre che delle strutture di partito).
Si sono così generate dinamiche di divisione e ricomposizioni all’interno delle correnti che reggono la “gestione unitaria” e successivamente anche della Federazione della sinistra, in un conflitto permanente a somma zero che ha mortificato ogni tentativo di fare uscire il partito e soprattutto i suoi militanti dalle secche nelle quali era entrato. Rompere questa gabbia è il primo compito del dibattito congressuale.

4. Quale lettura della crisi

L’analisi della crisi capitalistica, delle sue conseguenze e delle risposte che genera nei diversi settori della società costituisce il punto qualificante per determinare il carattere di una opzione politica.
La crisi esplosa nel 2007 vede sommarsi la classica crisi ciclica che, a dispetto di tutte le teorizzazioni degli anni ’90 e 2000 rimane anche nell’epoca attuale una caratteristica ineliminabile del sistema capitalista, con un cambiamento di fase che va al di là del semplice ciclo boom-recessione. Stiamo quindi parlando di un passaggio d’epoca nel quale entrano in crisi e si modificano in maniera profonda non solo determinati indicatori economici, ma i rapporti tra le classi, i rapporti internazionali, l’intero equilibrio capitalistico.
Lungi dall’essere una crisi finanziaria, essa nasce dalla gigantesca sovrapproduzione o sovracapacità produttiva accumulata nei due cicli precedenti (1991-2000; 2001-2007), rinviata per alcuni anni grazie all’enorme espansione del debito e della finanza e dal rilancio del saggio di profitto che su scala mondiale si avvantaggiava dell’espansione asiatica (entrata nel mercato di milioni di lavoratori a bassi salari) e del basso prezzo delle materie prime ottenuto in primo luogo grazie al riaffermarsi dell’egemonia dell’imperialismo Usa dopo il 1991. La relativa pace sociale, l’abbattimento delle barriere commerciali, la ulteriore penetrazione in aree del mondo in precedenza parzialmente sottratte al dominio del mercato mondiale grazie ai processi rivoluzionari del periodo post-coloniale e ai diversi rapporti di forza su scala mondiale, l’apertura cinese al capitalismo e al mercato, sono alcuni dei fenomeni che hanno accompagnato e rafforzato il ciclo ascendente.
Proprio l’aver procrastinato l’esplosione di una crisi di questo genere, in particolare dopo la crisi del 2001, con politiche monetarie espansive oltre ogni limite (si ricordi la “irrazionale esuberanza” citata dall’allora Governatore della Federal Riserve Alan Greenspan che pure ne fu uno dei principali responsabili) ha causato infine il suo carattere generalizzato e la portata destabilizzante su scala globale.
Seppure questi concetti siano patrimonio largamente diffuso nella sinistra, esiste una evidente contraddizione tra l’analisi della crisi, definita “sistemica”, “strutturale”, ecc. e le risposte che vengono messe in campo.
La crisi produce anche la critica del sistema, tuttavia ciò non è sufficiente di per sé a determinare uno sbocco alternativo. Esiste una critica interna alla classe dominante, volta a trovare misure che ristabiliscano l’equilibrio perduto; esiste una critica che proviene da settori di ceto medio, piccola impresa, piccola borghesia, che si caratterizza sempre più per il suo carattere rabbioso ma anche impotente a indicare soluzioni credibili. Non esiste, ad oggi, una chiara e coerente posizione antisistema, che può essere espressa solo dal movimento operaio.
Al di là delle spiegazioni “popolari” che ne cercano le cause negli “eccessi” della finanza e nella “mancata regolazione” dei mercati, è la stessa borghesia ad individuare con determinazione inflessibile il punto centrale e inaggirabile per rilanciare l’accumulazione, ossia la lotta per la diversa ripartizione della giornata lavorativa tra lavoro e capitale; la lotta per l’incremento del plusvalore assoluto e relativo, per l’estensione della giornata e della vita lavorativa, per l’intensificazione della prestazione di lavoro. Il modello Marchionne non è solo la risposta di un capitalismo relativamente debole quale è quello italiano, ma una lucida interpretazione delle necessità vitali del sistema. Lavorare più ore nella settimana, più anni della vita, più intensamente e per un salario minore: questo il semplice nocciolo della risposta al problema di ricostituire la profittabilità del capitale investito.

5. L’illusione tardo keynesiana

L’intervento statale in forma di socializzazione delle perdite del sistema finanziario e di salvataggio di gruppi industriali è diventato una realtà a partire dal 2008. Tuttavia sarebbe errato vedere in ciò un abbandono del cosiddetto neoliberismo. Non a caso si è parlato, a proposito del salvataggio delle banche, di “socialismo dei ricchi”.
Indubbiamente esistono settori della classe dominante che si rendono conto della necessità di introdurre alcuni correttivi e di rinunciare a qualcosa in nome dell’interesse generale (borghese). Non deve stupire quindi che i Montezemolo o i Profumo parlino di imposta patrimoniale o di riequilibrare il sistema fiscale. Tuttavia sarebbe esiziale confondere queste posizioni, dettate dal tentativo di ricostruire l’equilibrio di un sistema completamente destabilizzato, con la possibilità di un terreno di incontro, sia pure temporaneo, fra gli interessi dei lavoratori e quelli di un settore borghese, magari in nome della “produzione” contro la “finanza”, rischiando di attribuire patenti di progressismo a demolitori dei diritti dei lavoratori come accadde a Bertinotti nei confronti di Marchionne. Da sempre, e oggi più che mai, l’“interesse generale” è l’interesse dell’insieme della borghesia, e i sacrifici per sostenerlo ricadono inesorabilmente su chi lavora.
Nella sinistra riformista è oggi egemone l’idea che si tratti semplicemente di orientare diversamente tali masse di denaro pubblico affinché ne scaturiscano effetti benefici per i lavoratori e i ceti popolari. Analogamente si propongono misure la cui logica ispiratrice è quella di un ritorno indietro nel tempo: una tassazione un po’ più equa, una certa regolamentazione e limitazione della finanza, un accordo internazionale sulle valute, una maggiore attenzione all’economia reale, un freno alle disparità sociali eccessive, maggiori strumenti di intervento degli Stati nell’economia… in sostanza un tentativo di ritornare agli anni d’oro del boom economico postbellico e delle classiche politiche keynesiane.
Si tratta di una utopia illusoria e pericolosa al tempo stesso. Illusoria, perché non tiene conto delle circostanze che resero possibile quella determinata fase storica del capitalismo; pericolosa, perché proponendo al movimento operaio di accodarsi a questo o quel settore “riformatore” del sistema apre in realtà lo spazio, questa volta sì, al rischio concreto che di fronte all’inevitabile fallimento di questi tentativi, siano in una fase successiva le forze di destra ad avanzare la propria egemonia basandosi sulla disillusione dei lavoratori e sulla disgregazione sociale.
Peraltro data l’esplosione dei debiti pubblici negli ultimi tre anni, né negli Usa, né in Europa è pensabile un rilancio di politiche classicamente keynesiane, per le quali non esistono le risorse (dato l’enorme indebitamento pubblico e privato), né tantomeno la volontà politica. Passi in questa direzione potrebbero essere effettuati solo come sottoprodotto di un conflitto di classe che raggiunga livelli tali da mettere a rischio il potere della classe dominante. Non a caso nel mondo di oggi le uniche nazionalizzazioni di carattere effettivamente progressivo, sia pure incomplete e limitate, si sono date in quei paesi latinoamericani investiti da processi rivoluzionari quali Bolivia e Venezuela.

6. Europa

L’Europa vive la peculiarità della moneta unica, che lungi dal porci “al riparo dalla crisi”, come si teorizzava al tempo della sua creazione, si è dimostrata uno strumento che, con la sua rigidità estrema, ne ha amplificato gli effetti. Su basi capitalistiche è impossibile unire sistemi economici che vanno in direzioni diverse; senza rompere le compatibilità del sistema l’Unione europea non può essere altro che un club di capitalisti dominato dalle banche e dai grandi monopoli degli Stati membri a partire dai più forti. È inevitabile che paesi deboli, sicuramente la Grecia e forse altri, siano costretti ad un determinato momento a fallire e in via ipotetica ad abbandonare la moneta unica. Se l’uscita di alcune economie periferiche quali Grecia, Portogallo e Irlanda è plausibile, un processo analogo in Italia, per il suo peso relativo nell’Unione, causerebbe di fatto la fine dell’Euro come moneta continentale e forse il suo abbandono definitivo.
Una parte della classe dominante tenta di scongiurare questa ipotesi proponendo una maggiore integrazione delle politiche economiche europee e la creazione di titoli europei (Eurobond) che contribuiscano ad alleviare le tensioni sui paesi più deboli. Queste proposte sono ovviamente più popolari nei paesi sotto attacco speculativo e in generale vengono fatte proprie dai partiti socialisti, che costituiscono una delle forze trainanti del processo di integrazione dell’Europa capitalista.
La nostra posizione deve essere esattamente opposta: qualsiasi tentativo di maggiore integrazione su basi capitalistiche non può che tradursi, come già sta accadendo, in attacchi concentrati contro il movimento operaio e contro ciò che rimane dello Stato sociale, in una austerità permanente, in una gestione sempre più autoritaria di politiche di privatizzazione e saccheggio delle risorse pubbliche. D’altra parte l’accumulo di contraddizioni a livello dei debiti sovrani e delle istituzioni europee fa sì che questo fronte generalizzato di attacchi alle condizioni di vita delle masse lavoratrici incontri la resistenza e la disponibilità alla mobilitazione da parte di movimenti che possono assumere un respiro continentale, come ha dimostrato il modo in cui i movimenti in Spagna e in Grecia si sono ispirati reciprocamente.

7. Il Meridione affonda

La crisi ha avuto effetti devastanti al Sud. Secondo il rapporto Svimez pubblicato nel luglio 2010, il Pil del Meridione è tornato ai livelli di 10 anni fa. Gli investimenti industriali nel 2009 sono crollati del 9,6%. È un Sud abbandonato, non solo dai privati ma anche dallo Stato.
I Fondi Aree Sotto Utilizzate (Fas) sono stati tagliati nel dicembre 2008 per 12 miliardi e 900milioni, su un totale previsto di 64 miliardi nella finanziaria 2007. Ulteriori tagli sono stati confermati nel 2009 e nel 2010. I fondi sono stati dirottati a coprire i buchi della spesa ordinaria, soprattutto della sanità. La realtà, taciuta dalla propaganda leghista, è quella di una diminuzione del trasferimento delle risorse al meridione.
La percentuale destinata alle otto regioni del Sud sul totale della spesa in conto capitale (investimenti pubblici e risorse destinate alle imprese) è passata dal 40,4% del 2001 al 35,3% del 2007. La spesa in conto capitale è passata dal 2001 al 2006 da 21 a 22,2 miliardi di euro al Sud mentre nel resto del paese si è passati da 31 a 38,2 miliardi di euro. La spesa per le infrastrutture sociali nel decennio 1998-2008 è stata del 20% inferiore alla media nazionale.
Degli investimenti statali, la componente che va agli incentivi alle imprese è considerevole. È più di un terzo del totale al Sud, mentre al Centro nord è pari a un quinto. Lo Stato quindi non solo ha diminuito le risorse per il meridione, ma una parte importante di queste risorse vengono dirottate verso i privati.
Il numero di occupati è tornato a livelli del 2000. Due terzi dei posti di lavoro persi negli ultimi due anni sono al Sud. Fatto pari a 100 il reddito medio nazionale, il Sud si ferma al 77, contro il 112 del centro-Nord, con punte del 71 in Calabria e Sicilia. Quasi un meridionale su tre è a rischio povertà. In termini assoluti, questo significa che nel Mezzogiorno ci sono oltre 6milioni e 800mila persone indigenti.
Tra il 1990 e il 2009 circa 2 milioni 385mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno. Ricordiamo che nel 2009 la popolazione residente al sud si attestava sui 20,8 milioni di abitanti. (Svimez, rapporto 2010).
Questo abbandono del meridione, che è responsabilità esclusiva delle classi dominanti (del sud e del nord) produce effetti politici e sociali. Solo per elencare le più importanti: le lotte della giovane classe operaia, da Pomigliano a Melfi fino al Porto di Gioia Tauro, passando per Portovesme, ma anche le rivolte popolari contro i rifiuti in Campania e le discariche in Calabria, fino ai movimenti di massa contro i megaprogetti al Ponte sullo Stretto e a quelli contro i radar costieri, le servitù e i poligoni militari in Sardegna.
Le navi dei veleni in Calabria, l’impossibilità di valutare perfino il quantitativo di rifiuti pericolosi che arrivano attraverso il circuito delle ecomafie, l’avvelenamento delle popolazioni riscontrato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (con aumenti fino all’84% dei casi di tumori e malformazioni) mettono in risalto come non sia possibile affrontare il problema dei rifiuti senza parallelamente affrontare quello della produzione e del suo carattere privato.
Negli ultimi anni la diminuzione del trasferimento delle risorse alle regioni del mezzogiorno ha prodotto anche uno scontento crescente nelle file del centrodestra e in quei settori sociali che facevano riferimento a Berlusconi. La divisione crescente tra Nord e Sud del paese è la base concreta per tutte le ipotesi di leghe del sud e “patti meridionalisti, spesso trasversali agli schieramenti politici, che cercano di contrattare più risorse e mantenere così saldo il blocco di potere mafioso-borghese che ha affamato il sud da un secolo a questa parte. Una prospettiva che si propone di dividere il movimento operaio su basi regionali e che dobbiamo contrastare con tutte le nostre forze, anche quando, come in Sardegna, siamo in presenza di una vera e propria questione nazionale. Nulla può giustificare la divisione dei lavoratori sardi con quelli dello stato italiano.
Nel contesto di crisi economica, le mafie continuano a rappresentare un settore importante dell’economia italiana: 135 miliardi di fatturato, pari al 7% del Pil, 78 di utili. I processi descritti di deindustrializzazione, di povertà e di degrado del Mezzogiorno creano condizioni favorevoli alle mafie per potersi impadronire di manovalanza e estendere il giro d’affari, come dimostrano le decine di centri commerciali, di appartamenti e di edifici costruiti su ex aree industriali. Il caso della Calabria ne è l’esempio più palese: nella regione in cui il PIL pro-capite è pari solo al 54% di quello nazionale, il tasso di povertà sfiora il 25% , la disoccupazione il 27%, e le percentuali di emigrazione sono – secondo lo Svimez – pari a quelle degli anni ’50.
La militarizzazione del territorio, lanciata già a inizio anni ’90 con l’operazione Vespri Siciliani e periodicamente poi estesa ad altre regioni meridionali, non solo non è riuscita a far diminuire il controllo sociale mafioso, ma nemmeno tanto paradossalmente crea ulteriori affari (approvvigionamento e logistica dei corpi militari) e viene utilizzata in realtà come arma a difesa degli interessi statali e privati.
La profonda crisi del Mezzogiorno e il tentativo di trasformare il territorio in una discarica a cielo aperto produce rivolte come quelle che abbiamo visto in questi anni a Terzigno, Acerra, Scanzano. È nostro obiettivo intervenire nelle future esplosioni sociali per offrire al movimento una espressione politica organizzata.
Questo sbocco è stato nel passato in gran parte impedito dalla nostra prolungata partecipazione alle giunte regionali di centrosinistra (Campania, Basilicata, Calabria) individuate dai movimenti come responsabili dirette del disastro sociale ed ambientale di cui è vittima il Mezzogiorno. La stessa partecipazione da parte nostra alla giunta de Magistris a Napoli andrà misurata in funzione di questo criterio, di non entrare in contraddizioni con i nostri referenti sociali e di classe.

8. Un movimento internazionale

I movimenti di massa che hanno rovesciato i regimi in Egitto e Tunisia sono stati una fonte diretta di ispirazione e di “contagio” anche per le mobilitazioni in Europa. Assistiamo alle prime fasi di un nuovo movimento internazionale che può scuotere gli assetti stabiliti per decenni. Se nello scorso decennio i processi rivoluzionari erano essenzialmente concentrati nel continente latinoamericano, oggi questi si avvicinano rapidamente alla nostra parte del mondo. L’idea della rivoluzione non è più confinata a un mondo lontano nello spazio o nel tempo.
La “primavera araba” ha una volta di più confermato che nessun regime può resistere a un movimento di massa che coinvolga i lavoratori e i gli strati più oppressi una volta che questi siano determinati a portare la loro lotta fino alle ultime conseguenze. Il movimento si è diffuso con un “effetto domino” che ha spiazzato anche le diplomazie dei paesi imperialisti, colte completamente alla sprovvista. Con l’intervento in Libia la Nato è riuscita a introdurre un cuneo nella regione, così come sta tentando di fare la Turchia. Dobbiamo quindi rifiutare qualsiasi sostegno alla logica dell’”intervento democratico” sostenuto con forza dal Pd e in particolare dal presidente della Repubblica.
E’ quanto mai significativo il fatto che il movimento egiziano sia stato preso a riferimento anche simbolico (“piazza Tahrir”) in numerosi paesi europei e persino negli Usa.  E in effetti stiamo parlando di un unico processo, per quanto articolato, che si sviluppa su scala internazionale. Il risveglio non ha toccato solo la Grecia o i paesi mediterranei, fondamentale è segnalare l’esplosione del movimento giovanile e operaio in Gran Bretagna, con una discesa in campo di giovani e giovanissimi a partire dal movimento studentesco dello scorso anno, che ha fatto da detonatore anche per l’inizio di una mobilitazione sindacale di grande significato.
Va rilevato come ad oggi l’arco delle forze socialiste e di centrosinistra in Europa si sia schierato senza fratture significative sulla linea dell’austerità e della rigida osservanza delle direttive della Bce e dell’Unione europea, gestendo in prima persona laddove governa (Grecia, Spagna) o ha governato fino a poco fa (Portogallo) i piani di austerità.

9. La logica di un programma di alternativa

Il programma necessario per contrapporsi alle varie ipotesi di ristrutturazione interne al sistema deve assumere la logica del programma transitorio, ossia del legame tra i livelli di coscienza e di mobilitazione che si esprimono oggi nel nostro paese e su scala internazionale, e la necessità di una prospettiva di superamento del sistema. Dobbiamo cioè rifiutare l’idea di dividere il nostro programma in due parti, la prima fatta di “realistiche proposte” accettabili da un ampio arco di forze, la seconda di rivendicazioni generali, relegate a una non meglio definita fase successiva.
Oggi sono tre i punti centrali rispetto alle mobilitazioni che si stanno producendo:
1) La questione del debito
2) Le crisi industriali e in generale la crisi occupazionale
3) La questione dei diritti del lavoro e la prospettiva di una vita di precarietà permanente.
Grida vendetta al cielo il fatto che mentre la destra si attrezza a rispondere alla crisi sul suo terreno, non esista ancora una seria piattaforma programmatica di sinistra capace di parlare al movimento in campo e di cogliere la sua radicalità, sintetizzata dalla parola d’ordine “non pagheremo la vostra crisi”.
Il nostro partito deve essere identificato come il partito del pubblico, delle nazionalizzazioni, del controllo dal basso, da parte dei lavoratori organizzati e degli strati popolari di quelle risorse che ieri, nella fase del liberismo trionfante, venivano massicciamente spostate dal basso verso l’alto e oggi vengono nuovamente dirottate dallo Stato a beneficio di coloro che sono i primi responsabili della crisi.
Il tema della nazionalizzazione delle principali leve dell’economia (sistema bancario, settori strategici dell’industria, delle comunicazioni, della grande distribuzione, del patrimonio immobiliare) diventa rapidamente comprensibile a milioni di persone di fronte al dilagare di licenziamenti, crisi, chiusure aziendali e al tentativo di rilanciare in grande stile le privatizzazioni.
Ci limitiamo ad indicare un pacchetto rivendicativo generale che andrà sviluppato con una discussione approfondita nel movimento oltre che nelle nostre fila:
1) Forte tassazione progressiva dei patrimoni e delle grandi rendite.
Il debito è stato fatto dai padroni e dai banchieri perchè per loro a differenza dei comuni mortali il debito non è fonte di perdita ma di guadagno. Attraverso la leva del debito in 20 anni sono riusciti a dirottare 8 punti di Pil da salari e pensioni verso la rendita e il profitto. Facciamo nostra la parola d’ordine del movimento greco: noi il debito non lo paghiamo! Verranno indennizzati solo i piccoli risparmiatori.
2) Blocco delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni del patrimonio industriale del paese. Nazionalizzazione sotto il controllo operaio delle fabbriche che minacciano la chiusura. Blocco dei licenziamenti.
3) Difesa ad oltranza dei beni comuni che devono essere pubblici sotto il controllo dei lavoratori e dei cittadini.
4) Nazionalizzazione delle banche, delle immobiliari, delle finanziarie e delle compagnie assicurative sotto il controllo e la gestione democratica dei lavoratori. Le banche devono essere utilizzate nell’interesse generale della società. Vanno indennizzati solo i piccoli azionisti. La nazionalizzazione delle banche è l’unico modo per garantire risparmi e depositi della gente comune. Vista l’importanza strategica di Cassa Depositi e Prestiti il nostro no a qualsiasi ipotesi di privatizzazione di Bancoposta deve essere netta. Si blocca tale privatizzazione salvaguardando l’unicità di Poste Italiane.
5) Ritiro dell’articolo 8 e difesa dell’articolo 18 esteso a tutti i lavoratori. Abolizione del pacchetto Treu, della legge 30 e di tutti i dispositivi che in questi anni hanno precarizzato il mondo del lavoro. Abolizione della Bossi-Fini e di tutte le leggi contro gli immigrati, diritti di cittadinanza per tutti.
6) Ritiro dei progetti delle cosiddette Grandi Opere: Tav e ponte sullo stretto per prime, ma anche progetti quali il Terzo valico e la gronda autostradale in Liguria.
7) Su queste basi sarebbe possibile raddoppiare i finanziamenti per il welfare, l’istruzione, la sanità che devono rimanere pubblici sotto un controllo democratico e partecipato.
8) Abolizione dei finanziamenti alle scuole e alla sanità privata e dei privilegi per la Chiesa cattolica (dall’8 per mille all’esenzione dell’Ici).
9) No agli aumenti dell’età pensionabile, ritorno a un sistema pensionistico pubblico, universale e basato sul sistema retributivo. Scorporo di previdenza e assistenza (quest’ultima deve passare in carico alla fiscalità generale) e riassorbimento delle forme di previdenza integrativa nel sistema pubblico.
10) Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario.
11) Ripristino della scala mobile. I sindacati e le associazioni dei consumatori devono elaborare l’effettivo indice per calcolare l’inflazione reale.
12) Per un piano idrogeologico pubblico dedito alla tutela del territorio, alla costruzione di infrastrutture  ecocompatibili e la riconversione energetica (energie alternative).
13) Salario minimo intercategoriale (Smi) fissato per legge indicizzato all’inflazione: non si lavora per meno di 1000 euro netti al mese, quale che sia la tipologia contrattuale.
14) Salario minimo garantito per disoccupati ai due terzi dello Smi.
15) Reintroduzione dell’equo canone (affitto delle case non superiore al 20% del salario), esproprio delle case sfitte in mano alle grandi immobiliari e costituzione di un piano di lavori pubblici teso alla difesa del patrimonio immobiliare pubblico (case popolari, scuole, ospedali, strade, ecc.)
16) tutela dell’occupazione femminile, paga uguale per pari mansione, corsi professionalizzanti, tutela della maternità, per il diritto alla continuità lavorativa.
17) Socializzazione del lavoro domestico, attraverso un piano di investimenti pubblici in mense popolari, lavanderie pubbliche, asili nido, ecc, che dia occupazione e allo stesso tempo liberi le donne dal cosiddetto “doppio turno”.
Questo programma implica una prospettiva di rottura dei vincoli imposti dall’Unione europea: trattato di Maastricht, Patto di stabilità, Trattato di Lisbona, statuto della Bce ecc., fino ai recenti accordi relativi alla gestione delle crisi debitorie (Patto euro plus). All’Unione europea del capitale contrapponiamo una libera e volontaria federazione socialista dei popoli europei.

10. Quale battaglia per i “beni comuni”

La vittoria dei referendum sull’acqua pubblica ha segnalato in modo dirompente come oggi possa essere maggioritaria la prospettiva di una economia pubblica e il rifiuto dell’ondata privatizzatrice che per trent’anni ha segnato non solo l’economia, ma anche la coscienza diffusa. Di qui l’urgenza di una precisa posizione da parte nostra rispetto al dibattito che ha attraversato il movimento per l’acqua.
Si ripropone un dibattito che ha attraversato tutti i movimenti a partire dal 2001 passando per il movimento in difesa della scuola e dell’università pubblica, numerose lotte ambientali, ecc., all’interno dei quali ampi settori hanno abbracciato la posizione che la difesa dei “beni comuni” possa portare ad immaginare la crescita di un settore dell’economia “né pubblico né privato”, ma “oltre” queste forme. Si tratta di una posizione radicale nella critica ma inconsistente nella proposta, ovvero nell’illusione che si possa semplicemente “aggirare”, “ignorare” o “disperdere” il potere della classe dominante (tanto quello economico quanto quello politico e statale). A questa si legano le proposte sul reddito sociale nella loro forma “non lavorista”, ossia slegate dalla prospettiva del conflitto di classe. Seppure è indiscutibile che l’esistenza di queste diverse posizioni non precluda la possibilità di costruire fronti di lotta comune come è stato appunto nel movimento per l’acqua, è altrettanto necessario segnalare tutti i pericoli impliciti in tali posizioni.
L’illusione di potere aggirare il nodo della proprietà può aprire la strada a sviluppi assai negativi, poiché l’idea che possano esistere beni economici né pubblici, né privati all’interno di un sistema che rimane nel suo insieme dominato dal mercato e dai meccanismi capitalistici porta fatalmente o alla scomparsa, o all’assorbimento all’interno di logiche di ristrutturazione del sistema, come dimostra ampiamente la traiettoria del Terzo settore, che ha trasformato numerosissime realtà di volontariato in vere e proprie incubatrici di processi di privatizzazione all’interno delle logiche della sussidiarietà e del “privato sociale” funzionali ai processi di smantellamento dello Stato sociale, oltre che spesso luogo di supersfruttamento e precarizzazione dilagante dei lavoratori.
L’unico sviluppo coerente della lotta per i beni comuni è nella rivendicazione della proprietà pubblica e del controllo dei lavoratori e dei cittadini su aziende nazionalizzate. Anche qui ci aiuta l’esperienza latinoamericana, dove non a caso le punte più avanzate dei movimenti di occupazione di aziende chiuse o sottoutilizzate si sono orientate alle parole d’ordine della nazionalizzazione, del controllo operaio e al tentativo di costruire forme consiliari di organizzazione. È su questa prospettiva che dobbiamo intervenire nel dibattito attorno alla proposta di Costituente dei beni comuni: una proposta che può costituire un significativo passo avanti se indirizza alla creazione di un fronte più ampio di lotta per la ripubblicizzazione di tutti i settori privatizzati in questi vent’anni e capace di promuovere la costruzione di strumenti di controllo operaio sulle aziende pubbliche, sulle reti strategiche (energia, telecomunicazioni, acqua), in una parola di inserire la lotta per i beni comuni in una prospettiva di classe e anticapitalista.
Decisiva è la mobilitazione che si sta portando avanti in Val Susa contro il Tav. Un movimento nato per difendere un “bene comune” e che velocemente ha saputo fare un salto di qualità sia nel livello di partecipazione e nella capacità di fare egemonia, sia nella consapevolezza delle dinamiche che rendono fondamentale per la borghesia italiana la costruzione di questa come di altre opere. A chi ha portato e porta avanti coerentemente questa vertenza è chiaro “chi ci guadagna” e “chi ci rimette”. In questa consapevolezza diffusa è presente, a livello embrionale o conscio a seconda dei soggetti, il carattere di classe del movimento. Il nostro compito è far emergere questo carattere e dargli una forma compiuta. Ma anche in questo campo la nostra ambiguità è stata un freno al radicamento in una lotta e un contesto di grande potenzialità per un partito comunista. Da un lato i compagni attivi nella valle, presenti fin dall’inizio e che hanno contribuito in maniera spesso decisiva allo sviluppo del movimento. Dall’altro un continuo rincorrere il centro sinistra e il Pd, convinti sostenitori dell’opera e in prima linea nel chiedere la massima repressione del movimento, a livello istituzionale. Lo spazio guadagnato dal movimento cinque stelle e da Grillo è anche conseguenza di questa ambiguità. Anche in questo contesto non è sufficiente la presenza del segretario nazionale ad una o più manifestazioni in valle. È necessaria una chiara collocazione nel conflitto e all’opposizione di tutti coloro che sostengono la costruzione dell’opera. Solo così potrà essere messo a frutto il lavoro dei nostri compagni in termini di radicamento, influenza politica e militanza.
In assenza di questa prospettiva, la proposta della costituente rischia di ripetere l’esperienza dei Social Forum del 2001-2002, capaci nella fase ascendente del movimento di aggregare una partecipazione di massa, ma poi rapidamente burocratizzati e svuotati dalla logica di mediazione di vertice fra le varie componenti presenti al loro interno, nessuna delle quali si dimostrò disposta a costruire forme autentiche di democrazia nel movimento.

11. Per il partito di classe

Lo scarto che dobbiamo superare riguarda anche la debolezza del nostro partito, la sua perdita di consistenza, credibilità e radicamento, e la urgente necessità di ricostruire una autentica rappresentanza di classe nel nostro paese. La risposta a questo punto decisivo non risiede nelle alchimie organizzative che da oltre un decennio hanno infestato il dibattito della sinistra, ma nell’assunzione di una prospettiva generale da fare vivere all’interno di tutti i contesti nei quali operiamo, a partire dai movimenti di massa.
La crisi che ha investito il movimento operaio deve quindi trovare una risposta teorica, ma anche la proposta di un percorso di costruzione credibile. A nostro avviso esistono forze di molto superiori a quelle ad oggi organizzate nel Prc che possono essere mobilitate attorno alla costruzione del partito di classe. Ossia: i quadri della classe che sostengono il conflitto nei suoi momenti più avanzati sono anche quelli che devono farsi carico della costruzione di una forza politica all’altezza delle loro necessità; in assenza di ciò, il conflitto verrà inquadrato nell’alveo dell’alternanza di governo come è stato negli anni ’90 e 2000. È in questa direzione che proponiamo di investire tutte le forze organizzate oggi nel nostro partito.
Storicamente in più occasioni, in presenza di una crisi profonda delle organizzazioni di classe, sono stati appunto attivisti d’avanguardia a farsi carico della costruzione di organizzazioni che potessero dare espressione politica al movimento operaio; senza volere proporre modelli, abbiamo presente situazioni quali il Pt brasiliano, il Psuv venezuelano, la stessa storia del partito comunista in Italia ai suoi albori, che seppe fondare la sua battaglia su quanto di meglio era stato espresso dal movimento operaio nel Biennio Rosso. Ci sentiamo di riproporre le parole di Gramsci pochi mesi prima della fondazione del Pcdi come un utile orientamento:
“(…) Noi abbiamo sempre ritenuto che dovere dei nuclei comunisti esistenti nel Partito (socialista – NdR) sia quello di non cadere nelle allucinazioni particolaristiche (problema dell’astensionismo elettorale, problema della costituzione di un partito “veramente” comunista) ma di lavorare a creare le condizioni di massa in cui sia possibile risolvere tutti i problemi particolari come problemi dello sviluppo organico della rivoluzione comunista. Può infatti esistere un partito comunista (che sia partito d’azione e non accademia di puri dottrinari e di politicanti, che pensano “bene” e si esprimono “bene” in materia di comunismo) se non esiste in mezzo alla massa lo spirito di iniziativa storica e la aspirazione all’autonomia industriale che devono trovare il loro riflesso e la loro sintesi nel Partito comunista?” Ravvisiamo in queste righe il nesso fra le battaglie che segnarono la nascita dei Consigli di fabbrica, ossia una delle esperienze rivoluzionarie fondamentali nella storia del movimento operaio italiano, con la creazione del partito rivoluzionario allora incarnato dal Partito comunista d’Italia e un indispensabile richiamo alla connessione tra forma e contenuto, tra movimento reale di massa e le sue espressioni organizzate.

12. Le forze disponibili

Al di fuori del nostro partito, queste forze esistono oggi: nella Fiom; nella sinistra Cgil; in un settore dei sindacati di base; in un settore delle scissioni di sinistra del Prc; nel movimento in difesa della scuola pubblica e dei beni comuni; queste forze inoltre si allargheranno significativamente in base all’onda crescente che a partire dalle elezioni amministrative e dai referendum della primavera di quest’anno, che porta migliaia di persone e in particolare di giovani verso la partecipazione politica attiva.
Il punto non è fare una sommatoria, ma indicare il conflitto di classe come fulcro per l’aggregazione di queste forze. Non è in discussione che la classe operaia debba essere in grado di stabilire alleanze e fronti di lotta con altri settori sociali e movimenti, la questione dirimente è chi eserciterà la funzione centrale e dirigente in tale fronte. Il 16 ottobre 2010 ha mostrato almeno potenzialmente come attorno al conflitto operaio si possa costituire un fronte estremamente vasto, capace di rompere gli equilibri del bipolarismo di liberarsi della tutela del Pd innanzitutto sul piano ideologico e programmatico. È quello il modello da perseguire.

13. Rappresentanza operaia o rappresentanza burocratica?

Il livello di coscienza e combattività crescenti dimostrato in tante mobilitazioni degli ultimi anni non trova quindi riferimenti credibili in alcuna forza politica nella sinistra italiana. Il partito di Pomigliano, il partito di Fincantieri oggi non esiste. È tutto da costruire; le lotte sono più avanti delle organizzazioni: questa è la nuda realtà. Non a caso la Fiom si è trovata a svolgere un ruolo di riferimento politico al di là della semplice battaglia sindacale, come manifestato chiaramente nella piazza del 16 ottobre e nello sciopero del 28 gennaio.
Tale questione è dominante nella coscienza di tutti i settori più avanzati del movimento, in particolare di quelli che sono stati in prima fila protagonisti delle mobilitazioni di questi anni. Quale sindacato, quale partito, quale programma possono esprimere in forma compiuta le istanze che si sono manifestate negli scioperi e nelle piazze?
Il problema si pone in forma speculare anche negli apparati sindacali privi di riferimenti e “copertura” politica. La lettura burocratica di questo problema storico porta a scelte di  fiancheggiamento o costruzione di “coalizioni” che hanno assunto la forma di una struttura quale “uniti contro la crisi”, il rapporto di una parte del gruppo dirigente della Fiom con Sel; altre tendenze danno una risposta ancora più moderata allo stesso problema (Lavoro e libertà promossa da Bertinotti e Cofferati) che fanno il paio con l’associazione, nata dalla fusione tra Socialismo 2000 e Lavoro Solidarietà; quest’ultima propone la costruzione di un “partito del lavoro” tutto interno all’alleanza di centrosinistra.
Dobbiamo condurre una classica battaglia di egemonia su questo terreno, ossia essere la parte militante che lotta coerentemente contro queste espressioni moderate e che al problema della “rappresentanza del lavoro” risponde che essa può essere costruita solo in base a un autentico protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici e alla irriducibilità dei loro interessi alle compatibilità di un sistema in crisi.

14. No a un nuovo centrosinistra, per un polo della sinistra di classe.

La crisi protratta del governo Berlusconi nasce da due esigenze contrapposte della borghesia: da un lato non si ritiene possibile applicare il programma di lacrime e sangue dettato dai “mercati” con un governo screditato che affoga negli scandali e le cui priorità sono dettate sempre più dalle necessità di sopravvivenza di un parlamento di nominati. D’altro canto temono che una crisi di governo nel contesto attuale possa diventare ingovernabile e soprattutto temono “la piazza in rivolta”, come lucidamente paventato dall’ex ministro Pisanu.
Da qui i tentativi di una transizione il più possibile pilotata, le ipotesi di salvacondotti giudiziari per Berlusconi se accettasse di farsi da parte e i frenetici tentativi di lanciare sulla scena politica i vari Monti, Montezemolo, Profumo.
Qualsiasi alternativa deve necessariamente coinvolgere il Pd, si tratta quindi di zavorrare il più possibile tale ipotesi per garantire che il futuro governo, quale che sia, si muova rigidamente nei binari tracciati. La preferenza è quindi per una soluzione di Grande coalizione, una forma di unità nazionale che eviti elezioni immediate ma soprattutto che sia capace di blindarsi per imporre nuovi e più pesanti sacrifici ai lavoratori.
Il presidente della repubblica Napolitano è il principale interprete di questa spinta. Il Pd per parte sua ha fornito l’ennesima conferma della sua totale subordinazione agli interessi capitalistici nazionali e internazionali mettendosi a disposizione per sostenere tanto l’intervento militare in Libia e rinunciando a una seria opposizione alle manovre economiche di Tremonti. Nella crisi del berlusconismo vediamo quindi già prefigurarsi gli equilibri successivi.
La crisi politica può sfociare in coalizioni di unità nazionale o in un nuovo centrosinistra. Ma il punto fondamentale è che, quale che sia la formula politica, il programma è già dettato: il futuro governo non potrà che applicare la medesima politica di tagli, austerità, demolizione dei diritti che in tutta Europa tanto i governi di destra come quelli di centrosinistra portano avanti in maniera omogenea. Il governo Berlusconi è indubbiamente il peggior governo nella storia della Repubblica, ma il punto fondamentale per determinare il nostro orientamento è che quanto di peggio ha elaborato sul piano sociale ed economico non viene eliminato con un semplice cambio della guardia a Palazzo Chigi. Al contrario, proprio le forze borghesi che oggi sono in prima linea nel criticarne l’operato, reclamano a gran voce ulteriore rigore, flessibilità, privatizzazioni, controriforme allo stato sociale. Il punto quindi non è solo come battere Berluconi, ma come sconfiggere Marcegaglia, Marchionne, Napolitano, Draghi…
Significativo l’esempio di Alessandro Profumo, ex amministratore delegato di Unicredit in procinto di una possibile “discesa in campo” politica, propone di tagliare non 80 o 130, ma 400 miliardi di euro dal bilancio pubblico, come terapia d’urto per ridurre il debito, trovando per giunta immediato sostegno in un settore del Pd.
Nasce da queste semplici constatazioni l’esigenza imprescindibile per noi di mantenere la nostra opposizione strategica al Pd e di farci promotori di un polo della sinistra di classe con le forze che condividano questa discriminante fondamentale.

15. Sui fallimentari progetti a sinistra

Il rifiuto di assumere questa prospettiva, cioè di rompere una volta per tutte il cordone ombelicale con le varie ipotesi di “nuovo centrosinistra”, porta il dibattito a sinistra ad avvitarsi in un balletto infinito di posizionamenti e controposizionamenti (primarie, primarie di programma, aggregazioni elettorali, ecc.) che se da un lato appassiona irresistibilmente i gruppi dirigenti orfani di governi e postazioni istituzionali, dall’altro costituisce un ostacolo permanente allo sviluppo di quel conflitto di massa e radicale che, solo, può portare a sconfiggere questo governo e soprattutto ad aprire una prospettiva diversa da quelle già in gestazione nei piani alti del potere economico e politico.
Nessuna delle proposte fin qui avanzate dal gruppo dirigente per intervenire nella crisi politica ha avuto alcun esito: non la Federazione della sinistra, non la proposta di gruppi istituzionali unitari con Sel e Idv, non le diverse variazioni sul tema del fronte democratico in funzione antiberlusconiana. Da oltre due anni il Prc viene impantanato in una discussione sempre più surreale e contorta il cui unico risultato è di spostare progressivamente verso destra la linea politica: si è passati dal dichiararsi strategicamente alternativi al Pd al proporre una semplice alleanza elettorale, poi trasformata in una proposta di appoggio esterno a un eventuale governo, fino a teorizzare che oggi non potremmo assumere la stessa posizione che venne sostenuta nel 1998 (rottura col primo governo Prodi).
Le discriminanti vanno tracciate non in rapporto ad avvenimenti superficiali legati agli schieramenti elettorali, ma basandosi sugli elementi fondamentali dello scontro di classe. La prospettiva di alternanza di governo implica necessariamente il coinvolgimento del Pd e un tentativo di patto sociale con la maggioranza della Cgil. La sinistra di classe, a partire dal nostro partito, deve essere il punto di riferimento per chiunque intenda avversare questi due tentativi e mantenersi sul terreno del conflitto.
Dobbiamo batterci con coerenza contro tutti i tentativi di offuscare questa divisione e di ricondurci sul terreno di un nuovo centrosinistra. L’accordo del 28 giugno firmato da tutte le parti sociali prefigura precisamente quel tipo di sbocco, e non a caso ha avuto non solo l’entusiasta appoggio del Pd, ma ha anche messo a nudo l’ipocrisia e le contraddizioni di Sel, che tenta appunto di accreditarsi come unica sinistra capace di incidere nei processi in quanto inserita nella prospettiva di un rinnovato centrosinistra. Sel non ha potuto né sostenere l’accordo, né prendere una posizione realmente contraria, precisamente perché entrando nel merito delle vere discriminanti di classe (applicazione del modello Marchionne, deroghe ai contratti nazionali di lavoro, democrazia sindacale, ecc.) l’accordo di giugno costringeva ad uscire dal terreno fumoso delle “narrazioni” con relativo contorno di primarie, lotte per la leadership, ecc., mettendo in luce la subalternità di Vendola.
Proprio per questo dobbiamo rifiutare con nettezza quei terreni di scontro che tendono ad offuscare le reali discriminanti di classe: l’esatto contrario di quanto fatto dalla maggioranza del nostro partito, che accettando la proposta delle “primarie di programma” e in generale la logica di coalizione, contribuisce, nonostante dichiari il contrario, precisamente al successo di quelle forze di sinistra moderata che a parole si dichiara di voler combattere.
Il punto più importante è che anche un governo senza Berlusconi non sarà nelle condizioni di addormentare il conflitto sociale come pure fece il primo centrosinistra negli anni ’90. La situazione sociale è troppo deteriorata, la portata delle misure richieste dal padronato è troppo devastante per potere immaginare che passino senza una opposizione di massa nel paese, come peraltro si è visto in Europa dove le contestazioni non hanno certo risparmiato i governi socialisti (Spagna, Grecia). È questa la prospettiva che dobbiamo mettere al centro della nostra strategia.

16. Milano e Napoli: due lezioni importanti

L’idea che dalle primarie potessse venire la spinta per un forte cambiamento e per superare il moderatismo del Pd era emersa enormemente rafforzata dopo le elezioni comunali di Milano. Tuttavia sono bastati pochi mesi per mostrare come il vento del cambiamento che pure si era espresso nel voto è stato rapidamente spento nelle scelte della giunta. Pisapia ha immediatamente aperto ai centristi dell’Udc, escludendo contestualmente il nostro partito dalla giunta; ha confermato le decisioni della giunta Moratti in merito alla decisiva questione dell’Expo e del PGT, ha aumentato il biglietto del trasporto pubblico del 50 per cento.
Il nostro partito si è trovato senza neppure rendersene conto in una posizione di opposizione quando pensava invece di essere entrato nella plancia di comando di Palazzo Marino. A tutto questo si aggiunge l’inchiesta sulle aree ex Falck, che mette in luce una volta di più come il Pd sia del tutto interno alle logiche di gestione del potere, degli affari e del territorio che hanno segnato questi ultimi decenni in Lombardia come dappertutto. La prospettiva rimane per noi quella di costruire una opposizione efficace e radicata.
Se Pisapia è un candidato interno alla borghesia milanese tanto quanto la Moratti, De Magistris era un outsider che al momento della sua elezione non aveva schierati dietro di sé i poteri forti del territorio campano. In un contesto politico e sociale quale quello napoletano De Magistris, per mantenere il consenso conquistato, potrebbe essere spinto a compiere scelte che approfondiscano questa contraddizione. Abbiamo qui una opportunità, ma anche un pericolo: esiste il rischio reale che nella crisi della sinistra e nella crescente radicalizzazione sociale la rabbia e lo scontento creino la base per movimenti populisti che ammantandosi di una retorica antisistema raccolgano attorno alla figura del “salvatore” di turno il consenso di settori significativi di lavoratori e di settori popolari. Fenomeni che sono stati e sono tipici dei paesi latinoamericani e non solo, dove più volte gli errori disastrosi delle forze di sinistra, in particolare comuniste, hanno aperto la strada a movimenti populisti che hanno poi preso gli sviluppi più diversi, offuscando la necessità di un partito di classe che rappresenti un punto di riferimento per quei settori di lavoratori e di popolazione che si riconoscono in un’istanza di cambiamento radicale.
A Napoli il Prc può combattere una battaglia egemonica anche a partire dall’attuale collocazione in maggioranza, alla quale peraltro siamo giunti in base a circostanze che ci hanno favorito al di là e contro le scelte compiute dal gruppo dirigente: sbagliato fu infatti partecipare alle primarie, e solo lo scandalo esploso nel Pd, che ha portato all’annullamento delle stesse primarie, ha permesso che emergesse la figura di De Magistris come candidato “di rottura”. Gli errori successivi di Sel, che nel primo turno appoggiò il candidato del Pd Morcone, ci ha poi consegnato in modo del tutto inopinato una posizione di obiettivo vantaggio, quale unico partito di sinistra all’interno della coalizione di De Magistris. La nostra politica andrà calibrata sul criterio fondamentale di non entrare in contrasto con i nostri referenti sociali e di impedire che le speranze iniziali vengano spente come già avvenne col “laboratorio campano” dei primi anni ’90, che sfociò nella costruzione di un sistema di potere che per quasi vent’anni ha egemonizzato la Campania rispetto al quale il Prc fu largamente subalterno, finendone stritolato.

17. Bilancio di Chianciano. Requiem per la “svolta a sinistra”

Il bilancio della “svolta di Chianciano” è presto tratto: il sussulto della militanza che impedì nel 2008 la vittoria della proposta apertamente liquidatrice del partito è stato soffocato nel giro di un anno e rimpiazzato con una linea che, sostenuta da una diversa maggioranza all’interno del partito, ha collezionato una serie di fallimenti a catena nei suoi punti fondamentali.

18. Una strategia di classe nella battaglia sindacale

Fallimentare e assurda è stata la politica sindacale del partito, che ci ha portato a negare il sostegno alla battaglia della Fiom nel congresso della Cgil e a legarci alla componente di Lavoro e società che in tutta questa fase si è schierata come vera e propria guardia pretoriana della maggioranza. La contraddizione diventa insopportabile dopo la firma dell’accordo del 28 giugno, al quale il partito si oppone con posizione unanime del Cpn, ma senza poter poi applicare tale decisione per non aprire il conflitto nella Federazione della sinistra.
È necessario dotarci di una strategia sindacale coerente e di lungo periodo, senza la quale è impossibile costruire un serio radicamento nei luoghi di lavoro. Dobbiamo essere in prima fila nella battaglia per la costruzione di una seria opposizione nella Cgil, che non si consumi nelle battaglie di apparato e di organismi, ma si radichi sistematicamente nelle categorie e nei luoghi di lavoro, impugnando le battaglie più avanzate, a partire da quella per la difesa e la riconquista dei contratti nazionali di lavoro, senza riunciare alla necessaria azione autonoma e alla critica anche verso il gruppo dirigente della Fiom, dove e quando questa si renda necessaria. Dobbiamo avanzare e praticare percorsi di autorganizzazione e collegamento dal basso fra le Rsu e i lavoratori, non in alternativa alla necessaria battaglia nelle strutture sindacali, ma come elemento indispensabile per allargare la partecipazione per fare avanzare rivendicazioni più radicali e metodi di lotta e organizzazione che rendano i lavoratori stessi protagonisti e dirigenti delle proprie battaglie, sfidando le burocrazie di tutte le sfumature, nel sindacato confederale come nei sindacati di base.
Le linee guida della nostra battaglia sono: riconquista del contratto nazionale con tutela universale e livelli salariali dignitosi; lotta alla precarietà e per l’abolizione della legge 30 e di tutte le leggi precarizzanti; lotta alla frantumazione delle forme contrattuali; lotta alla flessibilizzazione e all’estensione dell’orario di lavoro (lavoro festivo, notturno, turnazioni sempre più incompatibili con la vita sociale e la salute, dilagare dello straordinario obbligatorio); controllo sulle modalità e l’intensità della prestazione lavorativa; contro l’offensiva che (da Marchionne a Sacconi) mira al controllo totale da parte dell’azienda sul lavoratore; piena democrazia sindacale e nei luoghi di lavoro, controllo dei lavoratori sulle loro rappresentanze, sulle piattaforme e gli accordi.
La costruzione dell’area alternativa “la Cgil che vogliamo” sconta – anche per ragioni oggettive – una impostazione che limita la battaglia a una logica di posizionamento, giocando sempre di rimessa rispetto alle scelte della maggioranza e cercando di superare le proprie debolezze costruendo relazioni politiche con forze politiche o “di movimento” le quali diventano poi il veicolo per condizionarne le posizioni in senso moderato. Evidente è il rischio che “Uniti contro la crisi”, che nasceva dalla giusta esigenza di creare un fronte di alleanze attorno alla battaglia della Fiom, finisca completamente risucchiata da queste logiche. La nostra battaglia deve ribaltare questa dinamica, proponendo la costruzione dell’opposizione nella Cgil come strumento per sviluppare il conflitto nei luoghi di lavoro, assumendo i bisogni dei lavoratori e la loro capacità di conflitto come unica bussola e discriminante, contro ogni compatibilità dettata dagli apparati e dalle loro relazioni politiche nel campo del centrosinistra. Parallelamente il partito deve essere impegnato tramite i suoi militanti nel percorso di unificazione del sindacalismo di base, un progetto quanto mai necessario, ma che non può essere imposto con operazioni di vertice “a freddo”.
Solo attraverso lo sviluppo di un movimento di massa si possono superare divisioni, travalicando i recinti organizzativi e le gelosie di apparato o di micro apparato. Un nuovo movimento dei consigli, autoconvocato dal basso così come si è visto in altre fasi storiche (Autunno caldo, 1984, 1992-93) è oggi un obiettivo possibile al quale lavorare e può determinare quell’unità di classe compromessa dall’azione di sigle in competizione tra loro, superando anche il muro costruito dalla burocrazia per separare i militanti della Cgil da quelli del sindacalismo di base.

19. Prendere atto del fallimento della Federazione della Sinistra

La Fds rappresenta il condensato degli errori di questi due anni. Ha ingabbiato il partito in una struttura antidemocratica che ne ha limitato l’autonomia e lo ha costantemente condizionato in direzione moderata. Ha sancito un legame inaccettabile con una componente sindacale, Lavoro e Società, obiettivamente incompatibile con la urgente necessità di collocare i lavoratori e i militanti sindacali iscritti al nostro partito su una chiara posizione di critica e opposizione al percorso assunto dalla maggioranza del gruppo dirigente Cgil.
Due esempi sono stati particolarmente clamorosi: il primo riguarda il voto favorevole espresso a maggioranza nel direttivo della Cgil (al quale si è associata Lavoro e società) che di fatto legittimava l’intervento militare in Libia; il secondo è il già citato accordo del 28 giugno, con l’aggravante che la Fds ha di fatto sconfessato il suo portavoce nazionale che aveva espresso un giudizio di netta critica dell’accordo, giudizio che non è stato confermato dell’organismo dirigente della Fds stessa, dove la decisione assunta a maggioranza è stata di non esprimere alcun voto al riguardo.
Anche sul terreno elettorale la Fds è stata strumento per imporre posizioni moderate anche laddove la larga maggioranza dei militanti del Prc era contraria, come ad esempio nel caso della candidatura Bonino alle elezioni regionali del Lazio.
La Fds ha anche favorito episodi di vero e proprio trasformismo, posto che il suo funzionamento antidemocratico favorisce la rappresentanza di piccoli gruppi senza alcun radicamento reale e con posizioni politiche a volte molto discutibili, a tutto danno della militanza autentica la quale non ha alcuno strumento per impedire simili fenomeni.
Il congresso nazionale deve pertanto deliberare di conseguenza e in particolare respingere ogni tentativo di cedere la sovranità del partito su determinate materie (presentazioni elettorali, gruppi istituzionali, ecc.).

20. Quale modello di partito?

Avanziamo la proposta del partito di classe senza autoreferenzialità, come uno dei soggetti che mira alla costruzione di una aggregazione di classe nel nostro paese.
Abbiamo visto forti elementi di autorganizzazione e radicalità operaia (Innse, Pomigliano, Terim, Fincantieri…), l’idea di occupare gli stabilimenti, di difendere il patrimonio produttivo è una idea che si è andata diffondendo. Decisiva nelle lotte spesso è stata la presenza di quadri operai sperimentati, nel caso di Pomigliano, di Fincantieri, della Terim e tanti altri, e si trattava in buona parte di militanti del nostro partito.
Dobbiamo lavorare a far emergere questi stessi elementi perché si diffondano in ogni conflitto e perché vengano socializzati.
Non si tratta solamente che gli operai parlino della condizione di fabbrica o delle lotte che li vedono protagonisti ma che da queste esperienze possa emergere una soggettività di classe in grado di mettersi all’altezza della sfida imposta dalla crisi. Formare dei quadri capaci di far vivere questa prospettiva costituisce il principale aspetto strategico della costruzione di un partito comunista e rivoluzionario.
Se da una parte abbiamo citato  alcune esperienze positive, dall’altra non possiamo che constatare che la maggior parte dei nostri quadri sono stati orientati in tutt’altra direzione, spesso impastoiati in pratiche istituzionali e politiciste, con un largo disinteresse verso il radicamento sociale del partito oltre che verso la teoria e la formazione politica.
Siamo così venuti meno a uno dei nostri compiti fondamentali, i lavoratori hanno trovato solo in pochissimi casi il conforto delle proprie organizzazioni sindacali (in particolare la Fiom seppure tra mille contraddizioni) in altre questo non c’è stato. In altre ancora c’è stato un vero e proprio sabotaggio da parte sindacale.
Il partito quando era presente, raramente si è posto il problema di costruire assieme ai lavoratori una strategia di lotta. Nella maggioranza dei casi così non è stato e spesso ha prevalso la logica della “sponda istituzionale”.
Andare ai cancelli con le brigate di solidarietà è senza dubbio utile, e va riconosciuto il contributo positivo di queste compagne e compagni al sostegno delle mobilitazioni, ma in ultima analisi la nostra funzione dovrebbe andare oltre la semplice solidarietà.
Non dobbiamo dimenticare, per non ripercorrere vecchie strade che hanno portato il movimento su binari morti, che le pratiche sociali e mutualistiche hanno una contraddittorietà intrinseca. Si tratta di attività che indicano il problema. Alludono alla soluzione ma non la contengono in sé.
Per fare un esempio se proponiamo le casse di resistenza, questa è cosa buona e giusta, ma se questa proposta non scaturisce dal conflitto reale e non si creano le condizioni politiche e le necessarie alleanze sociali perché avanzi e raggiunga gli obiettivi che si è proposta allora si scade nella politica delle sterili proclamazioni di principio che non faranno aumentare di un millimetro il nostro radicamento sociale, né contribuiranno a scalfire il muro di diffidenza che permane attorno a noi.
Per essere radicati in una realtà lavorativa non basta che singoli compagni siano dei riferimenti per i lavoratori, è necessario che questi stessi lavoratori capiscano che il comportamento individuale che loro apprezzano fa parte della strategia e del modo complessivo di porsi del partito nei confronti della classe.
Viceversa, anche quando si affermano le cosiddette pratiche sociali queste vengono trattate alla stregua di prodotti di marketing da propore al “mercato della politica”, senza alcuna riflessione sugli obiettivi proposti e su come conseguirli.
Non c’è carenza solo di lotta ma anche di studio, e sistematico delle realtà produttive, della struttura di classe, del contesto economico-politico, delle esperienze avanzate del movimento internazionale. Solo conoscendo e discutendo collettivamente è possibile apprendere le forme di lotta più efficaci e determinare le strategie  corrette in ogni contesto.
Il ruolo di un partito comunista è quello di provare a comprendere le tendenze del capitale per contrastarle definendo proposte programmatiche, che si inseriscano nella realtà viva del conflitto sociale. Tutto questo è quanto di più lontano possa esserci oggi dalla vita reale del nostro partito. Non si tratta di un problema meramente organizzativo ma di una questione intrinsecamente legata alla linea politica.
Non ci sarà conferenza di organizzazione che potrà cambiare tutto ciò. Non a caso i buoni propositi di Carrara e Caserta sono rimasti lettera morta mentre dilagavano le pratiche vergognose di un ceto istituzionale totalmente separato dal corpo militante. La vicende degli assessori e consiglieri regionali De Gaetano e Gabriele (fuoriusciti entrambi per andare nel Pd) è emblematica ed è solo la punta dell’iceberg di un malcostume consolidato con l’esistenza di veri e propri comitati elettorali e affaristici che si insinuano nelle strutture del partito, lì dove governiamo.

21. La radicalizzazione investe i giovani

La crisi economica e le manovre in atto si scaricano con particolare violenza sui giovani. Il diritto allo studio è messo ormai in crisi da 20 anni di controriforme (dall’Autonomia Scolastica e Universitaria in poi) e dai tagli che si sono accumulati, in particolare quelli dell’ultimo governo. Siamo ormai arrivati a un cambio qualitativo della crisi dell’istruzione pubblica, che si riscontra a livello di strutture, di personale docente e non, di sovraffollamento, di aumento dei costi, di tagli alla didattica. Parallelamente la disoccupazione giovanile raggiunge la soglia del 30% e l’occupazione giovanile è quella maggiormente colpita dal precariato. Se, come si ripete spesso, l’attuale generazione giovanile è la prima ad andare incontro a condizioni di vita peggiori di quelle dei propri genitori, capiamo come l’effetto della crisi si traduca per i giovani in una vera e propria negazione del futuro. La gestione di queste politiche si sposa con un aumento della repressione, dalle ordinanze locali all’uso sempre più spregiudicato delle forze di polizia per gestire l’ordine pubblico, dalle commissioni disciplinari in scuole e università a dispositivi come la Fini-Giovanardi, che non colpisce la criminalità organizzata ma reprime il singolo consumatore, contribuendo alla situazione ormai insostenibile di sovraffollamento carcerario.
Questi elementi politici di fondo sono sostanzialmente identici a livello internazionale. Di insegnamento deve essere dunque la radicalizzazione giovanile che ha avuto luogo in diversi paesi (Grecia, Spagna, Egitto, Gran Bretagna, Cile solo per citarne alcuni). Questa radicalizzazione arriverà anche in Italia, dove assistiamo già a un processo di attivazione politica giovanile che, come normale, si sviluppa attraverso le possibilità offerte dallo scenario politico.
Le mobilitazioni contro la riforma Gelmini dell’autunno hanno coinvolto un settore importante di giovani e giovanissimi ed è stato posto all’ordine del giorno il problema dell’unità con il movimento operaio. Il 14 dicembre a Roma è emersa una volontà di non arretrare più e una disponibilità a sostenere le forme di lotta più radicali. È la stessa volontà che abbiamo ritrovato in Val Susa il 3 luglio, dove centinaia di giovani (ma non solo) hanno sostenuto uno scontro non minoritario e condiviso politicamente dal resto del corteo.
Tale processo offre grandi possibilità al partito e ai Gc, a patto di saper intervenire, anche qui, con una proposta politica complessiva che possa orientare e organizzare una radicalità che altrimenti incontra forti difficoltà a tradursi in forma organizzata, complice anche il ruolo delle principali strutture giovanili, che riflettono su minor scala le logiche di compatibilità che troviamo nel dibattito politico generale.

22. Il rapporto coi movimenti

Il movimento degli “indignados” è uno dei terreni decisivi su cui impegnare i nostri militanti a partire dai/dalle GC, ma anche qui è necessario apprendere dagli errori passati. In passato l’“immersione” nei movimenti è stata condotta in base a un dibattito spesso mistificato. La tessitura di rapporti con ceti politici e gruppi dirigenti più o meno rappresentativi è stata privilegiata rispetto all’incontro con le energie più fresche e militanti che si esprimevano nelle mobilitazioni e che cercano innanzitutto una prospettiva di lotta contro questo sistema e una proposta di costruzione, anche organizzativa, del movimento che possa dargli la durata, profondità e radicalità necessarie di fronte alla portata dell’attacco. Di tutto questo non c’è quasi traccia nell’intervento dei Gc, paralizzati nel loro livello nazionale dal conflitto interno alle correnti di maggioranza.
Anziché proporre audacemente una prospettiva di cambiamento una generalizzazione teorica e politica all’altezza della richiesta impetuosa salita dal movimento e dall’aspirazione a un “altro mondo possibile”, ci siamo lasciati contaminare (in questo caso l’espressione è pertinente) dalle più classiche mode ideologiche che hanno un solo comune obiettivo: criticare, attaccare e ridicolizzare ogni idea di salda organizzazione degli oppressi, di lotta organizzata, prima fra tutte l’idea della necessità di un partito comunista con una prospettiva rivoluzionaria.
La svolta necessaria e urgente deve essere una vera e propria svolta operaia del nostro partito.
Questo non significa fare del partito un organismo parasindacale che discute solo temi economico-sindacali. Significa invece che deve proporsi tenacemente di conquistare posizioni, autorevolezza, consenso e adesioni con un lavoro di conoscenza e intervento sistematico e centralizzato in tutti i terreni di conflitto, in ciascuno di essi ponendo un punto di vista di classe e anticapitalista.
È stato più volte commentato, e con ragione, come militanti del nostro partito siano presenti in tutti i conflitti che prendono vita e forma nel nostro paese.
Questa constatazione deve essere fonte di ottimismo, ma non deve oscurare l’altra faccia della medaglia: troppo spesso i nostri militanti si trovano privi di punti di riferimento, proposte, analisi, canali d’intervento propri del partito, se non addirittura col partito schierato elettoralmente a fianco di chi sta dall’altra parte della barricata (il caso della Val di Susa è il più eclatante).
Si dice che il centralismo sarebbe in contrasto con la possibilità di forme di militanza parziali, legate magari a tematiche specifiche. È vero invece il contrario: rivendichiamo che il nostro obiettivo sia quello di avere militanti formati ad una visione ampia dei problemi sociali, non rinchiusi nella logica settoriale valida forse per gli “specialisti” di mestiere, ma che poco può ispirare a una visione del mondo di oggi, con la sua complessità, e soprattutto a una prospettiva di cambiamento della società. La militanza necessariamente “parziale” (se non per visione, certo per necessità pratica) di ciascuno di noi può acquisire efficacia e forza cento volte maggiore proprio se inserita in un piano generale di intervento, di elaborazione, di attività. E indubbiamente piani di questo genere possono essere discussi, elaborati e messi in pratica solo con una discussione che riconduca tutte le sollecitazioni e le proposte in un ambito centrale, il più possibile democratico e partecipato, che possa farle proprie e riproporle all’insieme delle strutture del partito, a cominciare dai circoli.
Se c’è un male che colpisce oggi le nostre strutture, anche quelle più attive, è la mancanza di punti di riferimento all’interno del partito, l’impossibilità di accedere a canali di dibattito efficaci, stabili e accessibili, dove si possano dare come ricevere stimoli e indicazioni.
Il modello attuale dei nostri organismi dirigenti costituisce una brutta copia di una modesta democrazia parlamentare. Dobbiamo andare verso organismi meno pletorici nei quali la indispensabile rappresentanza dei diversi orientamenti politici venga associata al diretto coinvolgimento dei loro componenti nel lavoro di costruzione e direzione dell’intervento del partito nei vari settori.
L’apparato di partito va selezionato in modo trasparente, democratico e mantenuto sotto un costante controllo della base e dei militanti. Va introdotto innanzitutto in forma rigida e inderogabile il criterio del salario operaio a tutti i livelli istituzionali e per qualsiasi incarico di partito. Va introdotto un meccanismo effettivamente democratico di selezione delle candidature da parte dei militanti per tutti i livelli elettorali.

23. La militanza politica delle donne

Un odio particolare è riservato alle donne negli attacchi promossi dai governi degli ultimi anni: il sistema contributivo del calcolo delle pensioni, così come il meccanismo delle finestre penalizza soprattutto le donne, l’aumento dell’età pensionabile nel pubblico e nel privato, i tagli agli enti locali e in generale ai servizi pubblici, il peggioramento delle condizioni nei luoghi di lavoro a forte presenza femminile: impiego pubblico, insegnamento, commercio, per citarne alcuni, fanno del nostro paese uno dei paesi a minore occupazione femminile, siamo al 46%, 12 punti sotto la media europea.
Queste  politiche, unite ai finanziamenti ad hoc per le famiglie e al rinnovato vigore delle campagne clericali rappresentano i pilastri su cui poggia la campagna ideologica martellante che vuole le donne angeli del focolare e oggetto del piacere maschile.
Non potremmo certo spiegarci in altro modo almeno gran parte dell’aumento delle violenze contro le donne, prevalentemente perpetrate nelle quattro mura domestiche, ma non solo. Le donne sono esseri umani inferiori: questo è il messaggio di fatto dominante nella nostra cultura che autorizza gli uomini ad abusare delle donne, sia sessualmente che sfruttandole nel lavoro domestico e di cura. Combattere questa cultura significa in primo luogo combattere con coerenza i pilastri su cui poggia.
Il nostro partito ha gravi lacune su questo terreno di intervento politico che si evidenziano anche nella scarsa presenza di compagne nella sua militanza.
Come era ipotizzabile questo problema non si è risolto imponendo una partecipazione delle donne alla vita politica del partito e ai suoi gruppi dirigenti attraverso la norma cosiddetta antidiscriminatoria. Essa consolida l’idea delle donne soggetto debole e di serie B, incapaci di conquistarsi uno spazio politico se non viene loro attribuito e soprattutto nasconde l’assenza nel nostro partito di un orientamento verso le donne della classe lavoratrice e quelle che più di tutte subiscono gli effetti della cultura maschilista. A questi settori dobbiamo offrire una battaglia coerente sul piano politico, culturale e anche sociale che le renda autenticamente protagoniste della propria militanza e della lotta per la propria liberazione.

24. Sulle correnti del Prc

A partire da quando nel 2009 si è affermata nel livello nazionale la cosiddetta “gestione unitaria”, ovvero la coalizione di tutte le correnti interne al Prc ad eccezione di quella che presenta queste tesi, si è affermata la vulgata secondo la quale sarebbe necessario “superare le componenti interne”, le “cristallizzazioni”, ecc. Il contrasto tra le parole e i fatti non potrebbe essere più stridente. Tuttavia sarebbe riduttivo limitarsi a una critica dei comportamenti. In realtà le principali correnti esistenti nel partito hanno ben precisi connotati teorici, politici, ecc. Chi, magari svolgendo un ruolo rilevante all’interno di una di esse, propaganda il “superamento delle aree” in nome dell’“unità del partito” non propone in realtà una visione più alta del partito, ma solo una visione più bassa delle aree che lo compongono e della propria posizione politica.
Questa mozione nasce da compagni e compagne che hanno sempre subordinato le proprie posizioni anche in campo organizzativo (incarichi e responsabilità, ecc.) al proprio disegno politico, sempre e dovunque manifestato apertamente, rifiutando la logica della “gestione” di posizioni ed incarichi quando questi entravano in contrasto politico irriducibile con le tesi politiche da noi avanzate, non in nome di un ottuso “basismo”, ma in nome della relazione dialettica che deve sempre esistere tra linea politica e strategie organizzative.
L’unità e l’omogeneità politica del partito sono un obbiettivo e, se autentiche e non imposte con mezzi burocratici, moltiplicano la forza e l’efficacia di qualsiasi organizzazione. Ma nessuna autentica unità potrà mai essere creata con la logica dei bilancini e del minimo comune denominatore, che al contrario ha dimostrato di paralizzare l’iniziativa e di generare un clima di irresponsabilità dei gruppi dirigenti, che legittimandosi a vicenda si autonomizzano nei confronti della base. L’unità è possibile laddove una proposta forte innanzitutto sul piano teorico e politico si dimostra capace di egemonia nel movimento e nel partito stesso; solo in questo contesto anche la posizione di chi è in disaccordo può trovare una legittimazione e un riconoscimento che permettano l’unità d’azione e un rapporto di solidarietà rispetto all’insieme del partito e alla sua battaglia.
Viceversa il prevalere delle logiche di galleggiamento e di piccolo cabotaggio, se anche può favorire un clima “unitario” nei vertici, non farà altro che aumentare le spinte disgregatrici e demotivare la militanza; l’inglorioso percorso della Federazione della sinistra, che da questo punto di vista ha costituito un esempio perfetto di “gestione unitaria”, conferma come tanto più solido è stato il patto di vertice, tanto meno i militanti di base sono stati motivati a impegnarsi nel progetto.
Ci consideriamo quindi impegnati in una aperta battaglia per l’egemonia nel partito e nel movimento, unica base possibile sulla quale si può costruire una autentica relazione unitaria nel corpo militante. Al centro della nostra azione non poniamo la ricerca di estenuati equilibri interni a un gruppo dirigente estenuato, ma la prospettiva rivoluzionaria della lotta per una società diversa.

FIRMATARI:

Claudio Bellotti, Andrea Davolo, Ali’ Ghaderi, Alessandro Giardiello, Patrizia Granchelli, Mario Iavazzi,  Lidia Luzzaro, Sonia Previato, Jacopo Renda, Dario Salvetti, Antonio Santorelli Marco Veruggio;
Luigi Minghetti, Alessio Vittori

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Documento 3 http://web.rifondazione.it/viii/?p=46 http://web.rifondazione.it/viii/?p=46#comments Wed, 05 Oct 2011 10:48:25 +0000 admin http://web.rifondazione.it/viii/?p=46 Continua a leggere ]]> COMUNISTI/E PER L’OPPOSIZIONE DI CLASSE E L’ALTERNATIVA DI SISTEMA

CONTRO LE DESTRE, ALTERNATIVI AL CENTROSINISTRA E FUORI DAI DIKTAT DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA!

1) L’VIII Congresso di Rifondazione Comunista si svolge in un contesto di profonda crisi del sistema capitalistico, una crisi economica, sociale, ambientale  e culturale che riconferma in tutta la sua gravità la necessità della costruzione dell’alternativa di sistema e del rilancio di una forza comunista.
Per tenere aperta questa prospettiva, il  PRC resta ad oggi uno strumento ed uno spazio organizzato fondamentale, nonostante i gravi problemi di linea politica e di orientamento strategico, e malgrado le pesanti difficoltà che caratterizzano la situazione attuale.
Il nostro impegno è volto a ripristinare il progetto della “rifondazione comunista”, motivazione fondante del PRC, un progetto che si proponga di identificare i contenuti della democrazia con la prospettiva comunista, il superamento del verticismo e dell’istituzionalismo, la riconquista della centralità del corpo militante nella vita e negli indirizzi del partito.
Per rendere attuale e utile alla fase questo obiettivo, abbiamo il dovere di non ripetere gli errori del passato e di rileggere criticamente la nostra storia, non per picconarla, ma per migliorarci e andare avanti. Dobbiamo collocare questa riflessione sulla rifondazione dentro un processo più ampio di riaggregazione e unità delle forze comuniste,  nella chiarezza della linea politica e rifuggendo da qualsiasi scorciatoia o atteggiamento di autosufficienza. Invitiamo quanti credono nel ruolo e nella necessità di un partito comunista a uscire dai propri recinti ed a contribuire insieme alla sua rifondazione e ricostruzione.

Il PRC, grazie alla militanza di migliaia di compagni/e – nonostante la forte crisi politico.organizzativa.- mantiene una presenza ed un insediamento nazionale che non può essere disperso. Oggi questo importante patrimonio e l’esistenza stessa del PRC sono nuovamente a rischio a causa della linea fallimentare dell’attuale gruppo dirigente che ha affossato la svolta di Chianciano (“in basso a sinistra”) e non ha praticato una reale diversità dal “modello vendoliano”, nonostante la pesante scissione subita nel 2009 e la tenace resistenza di tanti circoli e militanti alla liquidazione del partito.
Di fronte alla durezza dello scontro di classe imposto dalla crisi, riteniamo  la proposta di unità a sinistra e di Fronte Democratico col PD avanzata dal segretario Ferrero, fumosa nei contenuti e inconsistente nella sostanza, con il rischio ancora una volta di condannare i comunisti alla subalternità e di ridurne la presenza  a semplice tendenza culturale.
L’esigenza non più rinviabile di una sinistra anticapitalista indipendente ed alternativa anche al PD  spiega il vizio di origine ed il fallimento della Federazione della Sinistra, una scelta che ha prodotto dissenso e disorientamento in moltissimi compagni/e.
La FdS non si è caratterizzata infatti come uno spazio politico aperto alla costruzione di un polo alternativo e contrapposto alle politiche liberiste: si è configurata invece come un’operazione di vertice calata dall’alto, in nome di un malinteso senso tutto istituzionale della “sopravvivenza” del partito, un’operazione priva di un effettivo lavoro e radicamento nella società, oltre che di una democratica legittimazione congressuale.
La FdS soprattutto ha riprodotto forti ambiguità e contraddizioni di linea politica sulle principali questioni poste dallo scontro sociale e nei rapporti con il centrosinistra (congresso CGIL, vicenda Fiat, accordo 28 giugno, accordi col PD, presenze istituzionali, governismo..), dimostrando così di non aver fatto tesoro della drammatica esperienza del Governo Prodi e della Sinistra Arcobaleno, .che hanno pesantemente ridimensionato in particolare il PRC, apparso inutile ed inaffidabile per ampi settori popolari.
La FdS non è quindi recuperabile con una “generica spinta dal basso”. Occorre rimuovere questa illusoria scorciatoia politicista, che, come previsto, si sta dimostrando sempre più  incapace di svolgere un ruolo effettivo nella società (vedi le diverse posizioni in merito all’accordo dello scorso 28 giugno).
Dobbiamo inoltre salvaguardare l’autonomia del PRC, contro ogni ipotesi di cessione di sovranità del partito nei confronti della FdS..
ll congresso nazionale rappresenta quindi un passaggio decisivo per segnare una svolta profonda che recuperi ed aggiorni i contenuti di Chianciano nell’attuale fase segnata dalla crisi, dal bipolarismo e dalla precarietà, ma anche dalla ripresa di una opposizione di classe, per riconsegnare il partito ai suoi militanti, per salvaguardare preziose energie ed esperienze, accumulate nei venti anni della nostra storia… L’attuale gruppo dirigente, a partire dalla segreteria nazionale, deve fare un passo indietro!

Occorre  dichiarare esaurita una fase politica e aprirne una nuova per:

- affrontare la necessità di una sinistra di alternativa su basi completamente diverse, nel vivo dei conflitti, nel confronto sui contenuti con tutte le realtà sociali e politiche disponibili, al di fuori di forzature organizzative, settarismi e formule precostituite,  con una pratica tenace, coerente e di lunga lena, che rompa con il governismo, le doppiezze e gli opportunismi degli attuali gruppi dirigenti, che ricostruisca la credibilità della sinistra e l’utilità di una forza comunista per milioni di proletari dopo la crisi di questi anni;

- riprendere il percorso della rifondazione di un partito comunista, questione centrale e tuttora irrisolta, a partire dai territori, radicando il partito e sviluppando il confronto, l’iniziativa e la verifica sui contenuti del programma, sulle pratiche sociali, sulle forme organizzative, su un chiaro orizzonte strategico e culturale anticapitalista con tutte le realtà disponibili ad un processo di riaggregazione di forze comuniste.

Con questi indirizzi ci rivolgiamo ai compagni/e con un documento congressuale aperto a contributi ed emendamenti che dai territori  sviluppino e tengano aperto un percorso di elaborazione e di verifica dal basso della linea politica nel confronto quotidiano e nel vivo delle lotte.

2) L’ATTUALE CONTESTO DELLA CRISI

Il sistema capitalistico che da due secoli  guida le trasformazioni storiche sta collassando, sotto il peso della propria irrazionale struttura di accumulazione. Esso è arrivato ad un punto tale che non ha più niente di positivo da offrire all’umanità. Quella che stiamo vivendo non è solo una crisi periodica, evento  che , come ci ha insegnato Marx,  è strettamente connesso al modo di produzione capitalistico, ma è una crisi di sistema dalla quale il “capitale” potrà forse uscire solo imponendo enormi sacrifici a milioni di proletari, guerre e pesanti distruzioni di ricchezza sociale..
Infatti, dopo la crisi di sovrapproduzione degli anni ‘70, dopo la crisi di sovrapproduzione finanziaria dei capitali di inizio millennio, si sta ora producendo un debito sempre più incontrollabile e dunque non pagabile. La via di uscita del capitale è il massacro dei lavoratori in tutto il mondo in termini di salario, diritti e occupazione, massacro di tutte le conquiste sociali laddove esse sono state ottenute. Non è escluso che, come nel ‘29 si uscì dalla crisi con la seconda guerra mondiale, si arrivi ad un conflitto internazionale generalizzato (in parte già iniziato a livello periferico e con diversa intensità in Kosovo, Iraq, Afghanistan, Libia…).
La crisi economica finanziaria attuale sta evidenziando con nitidezza, agli occhi di milioni di proletari,  il carattere barbarico e incivile del sistema capitalista: si producono per poi distruggerle, quantità enormi di generi alimentari e di medicine, mentre intere popolazioni muoiono di fame e di banali malattie.
Si producono quantità enormi di armi, per colpire  intere popolazioni e rapinarle delle loro materie prime, mentre altre  vengono decimate dall’inquinamento ambientale. Tutto ciò mentre nei paesi industrialmente più sviluppati, il lavoro precario impedisce a intere generazioni di pensare al proprio futuro,  la disoccupazione colpisce un giovane su tre e  gli operai occupati sono costretti a lavorare in condizioni di stress inauditi e per salari da fame. Questo è quello che il sistema capitalista riesce ad offrire all’umanità per il XXI secolo e che anche le periodiche manovre governative confermano drammaticamente.

Da sempre le forze opportuniste hanno operato per nascondere la tendenza e la condizione  strutturale di rapina, sfruttamento e guerra proprie dei sistemi capitalistici avanzati , cercando di far credere che la politica dei paesi imperialisti fosse modificabile e riformabile, che fosse sufficiente cambiare il nome di chi guida il governo per cambiare lo stato di cose presenti.
Al contrario, l’arrivo di Obama al posto di Bush non ha certamente messo fine alla guerra in Iraq o in Afghanistan, cosi come non ha impedito il bombardamento del popolo libico. Come nel passato il democratico Kennedy iniziò la guerra in Vietnam, cosi i democratici Clinton e D’Alema fecero la guerra alla Jugoslavia.
lLa guerra rappresenta un’esigenza intrinseca al sistema stesso:  è lo strumento di annessione/controllo di aree turbolente e non normalizzate;ed è una “soluzione” funzionale alla riproduzione e valorizzazione del capitale  . Non a caso gli USA hanno una spesa militare enorme, circa la metà di quella mondiale, ed è grazie a tale apparato politico-militare che  mantengono, per ora, l’egemonia mondiale.
Anche l’Italia, pur con le sue debolezze strutturali, e l’UE giocano un ruolo imperialistico e, da noi, è in particolare il Partito Democratico ad interpretare le esigenze che tale vocazione comporta  (non dimentichiamo le esaltate parole del Presidente Napolitano, schierato con i bombardamenti in Libia).
A fronte di questo scenario la posizione dei comunisti è comunque contro la guerra e contro l’idea di una sua “normalità”: fermare le operazioni militari, i bombardamenti e le occupazioni neocolonialiste è essenziale e non può avere alcuna eccezione, sostenere i movimenti di liberazione (Palestina, questione curda, saharawi…) è parte del nostro impegno antimperialista ed internazionalista.
Occorre  chiedere subito il ritiro delle truppe da tutti gli scenari di guerra (la fine cioè delle cosiddette “missioni umanitarie”); occorre criticare alla radice il militarismo, opporsi alle spese militari, all’acquisto e produzione di mezzi bellici sempre più sofisticati e letali,  rivendicare la fine dell’esercito professionale ed una profonda riconversione delle attuali “forze armate” secondo un modello di difesa popolare e protezione civile partecipato da tutti i cittadini, coerente con i dettami della Costituzione, è necessario impedire la militarizzazione del territorio, lottare contro l’estensione o l’apertura di nuove basi militari e per la chiusura di quelle esistenti, rilanciare l’obiettivo fondamentale dell’uscita dalla NATO.
La situazione sociale e politica prodotta dalla crisi ed anche i recenti provvedimenti evidenziano una crescente instabilità degli assetti di potere, una crisi evidente del blocco sociale che ha sostenuto i governi di centrodestra, una forte potenzialità di cambiamento, espressa da importanti lotte dei lavoratori dipendenti e dei precari, delle donne, dei migranti, per i diritti sociali, nei territori e sui beni comuni, ma al tempo stesso questa situazione mostra tutta la inadeguatezza della sinistra a indicare una chiara prospettiva di alternativa al capitalismo e la mancanza di una adeguata rappresentanza politica della classe.

3) LA QUESTIONE  DELL’UNIONE EUROPEA E LA PROSPETTIVA INTERNAZIONALISTA.

Al di là di ogni illusione, la natura ed il ruolo imperialista dell’Unione Europea sono sempre stati ben evidenziati dai contenuti dei trattati di Maastricht, Amsterdam e Lisbona .
I vincoli economici e finanziari imposti ai vari Paesi, la forte concentrazione monopolistica, il dominio e la ricerca del massimo profitto della grande borghesia, stanno mettendo seriamente in pericolo la stessa sovranità dei singoli Stati dell’Unione. La vicenda greca ne è solo l’esempio più palese e tende a riprodursi anche in altri paesi più deboli, ivi compresa l’Italia.
Le grandi banche e le multinazionali di matrice europea partecipano pienamente alla guida, spartizione e spoliazione dell’economia globalizzata. La borghesia del vecchio continente, pur tra le inevitabili contraddizioni tra i vari contesti nazionali, ha lungamente e grandemente beneficiato delle regole antidemocratiche e della logica monetarista che costituiscono la base materiale dell’Unione Europea. La sola introduzione dell’euro ha comportato una pesante svalutazione di salari, stipendi e pensioni per milioni di lavoratori e cittadini europei.
Anche una parte delle forze di alternativa, come la Sinistra Europea, sono state inadeguate e contraddittorie: non basta più un generico appello ad “un’altra Europa”; occorre chiamare la parte più avanzata del proletariato, della classe lavoratrice italiana ed europea, a unirsi per dire NO! al governo unico delle banche, al massacro sociale ed alla devastazione ambientale; per rompere  la gabbia imperialista e costruire un’Europa di cooperazione tra i popoli, di pace e benessere, un’Europa dove le tasse siano  messe sui profitti, le rendite ed i patrimoni per redistribuire ricchezza sui salari,  le pensioni e lo stato sociale.
Di fronte ai nuovi diktat della BCE, a cui si inchinano sia i governi di centrodestra che quelli di centrosinistra, riteniamo urgente lanciare la parola d’ordine di non pagare il debito ai poteri forti e/o rivendicarne una concreta moratoria.
Coloro che hanno creato questo disastro economico sono gli stessi che oggi ci dicono che solo pagando il debito si eviterà la bancarotta. Noi pensiamo l’esatto contrario: pagare il debito significa continuare ad erogare soldi pubblici alla speculazione finanziaria, ai gruppi monopolistici industriali, al sistema bancario assicurativo. Significa privatizzare e liberalizzare tutto, colpire ancor più duramente le pensioni ed i lavoratori, decretare la fine di ciò che resta dello stato sociale, come chiede la Confindustria.

Cancellare il debito significa togliere l’acqua con cui si abbevera la grande borghesia, significa liberare enormi risorse per un nuovo ruolo pubblico: risanare il nostro paese,  rilanciare e riconvertire una economia produttiva, secondo un modello basato sui bisogni sociali e compatibile con l’ambiente. La cancellazione del debito ci permetterebbe davvero di difendere i beni comuni, rilanciare la ricerca, la scuola pubblica, eliminare il precariato e la disoccupazione, migliorare la sanità e dare una casa a tutti.
Non abbiamo altra scelta, dobbiamo lottare per chiudere il fiume di denaro che quotidianamente scorre dalle casse dello stato. Siamo consapevoli che questo significa mettere in discussione gli attuali rapporti di potere, ma ci sembra che il compito dei comunisti debba essere questo e non altro.
Più in generale è necessario un salto di qualità nella lotta contro questa “Europa” e, dopo dieci anni di moneta unica europea e di macelleria sociale, non è più possibile rimandare una riflessione che faccia un bilancio di tale esperienza e definisca scelte concrete di rottura con questa “Europa”, ivi compresa la stessa opzione di uscita da questa UE.
In questo senso occorre procedere in tempi brevi alla costituzione di un coordinamento europeo (anche oltre la SE) tra tutte le forze anticapitaliste e comuniste allo scopo di organizzare iniziative comuni di lotta, a partire dal rifiuto di obbedire alle direttive della Banca Centrale Europea (BCE).
Di fronte all’attacco capitalistico, ormai  su scala globale, si tratta di riprendere un percorso di ritessitura di una “internazionale comunista”, superandone la vecchia visione monolitica, verticistica e burocratica, costruendo rapporti e legami con le concrete realtà di lotta, con le esperienze che nei vari paesi mantengono visibile il loro impegno anticapitalista e per una prospettiva comunista.
Questo percorso dovrà svilupparsi in modo democratico e con un costante confronto pluralistico, che rifugga da ogni tentazione egemonica e faccia tesoro degli errori e delle sconfitte delle esperienze storiche del movimento operaio internazionale, che hanno portato all’89 ed agli scenari successivi.

4) I CONFLITTI SOCIALI E LA QUESTIONE SINDACALE

Il 2010 verrà ricordato nella storia del movimento operaio italiano come l’anno del micidiale attacco politico ai diritti sociali e  sindacali nei luoghi di lavoro ; l’anno in cui il grande padronato, con in testa la Fiat, ha cercato di imporre la centralità dell’impresa come unico orizzonte possibile.
L’obiettivo dichiarato di Marchionne è infatti l’eliminazione di ogni difesa individuale e collettiva da parte dei lavoratori, e perché ciò sia possibile va eliminata la presenza di qualsiasi sindacato che non si riconosca pienamente nella logica dell’azienda, nei suoi obiettivi e priorità. Nonostante lo sciopero generale del 6 settembre, indetto dalla CGIL contro l’inaccettabile manovra economica del Governo, la Camusso, con la firma del 28 Giugno e del cosiddetto Patto per la crescita insieme a CISL e UIL, riprende la strada fallimentare della concertazione a sostegno della libertà di competere dell’impresa ed a scapito dei diritti e degli interessi dei lavoratori.
Gli operai combattivi e tutti coloro che non vogliono piegare la testa, come le esperienze di lotta più avanzate, come la Fiom, il sindacalismo di base.. sono avvisati; la rappresaglia sarà usata come una corda, pronta a stringersi attorno al collo per eliminare qualsiasi elemento di disturbo al nuovo ordine aziendale, alla libertà d’impresa ed all’uso del dumping sociale come elemento fondante della concorrenza sui mercati.
Insomma Marchionne, Bonanni, Angeletti e ora anche la Camusso, stanno dentro, sia pur con le loro differenze, ad una strategia di uscita dalla crisi, quella dell’azienda globale senza vincoli nazionali o territoriali e senza alcuna “responsabilità sociale”, che punta a trovare i luoghi di insediamento di maggior vantaggio, giocando su processi produttivi standardizzati al massimo e condizioni locali differenziate (livelli salariali, flessibilità, aiuti di stato come negli Usa o in Serbia, libertà sindacali, ecc).
Sul piano sindacale, il “piano Marchionne” ha affondato il suo bisturi in strutture spappolate da almeno due decenni di “consociativismo”, nel corso dei quali è stata selezionata una casta burocratica adatta alla trattativa purchessia e ormai avversa a qualsiasi pratica conflittuale.   Sul piano politico, oltre che sull’appoggio scontato del centrodestra, Marchionne può contare nei fatti sul sostegno del PD che vuole far credere che il capitalismo si possa umanizzare e democratizzare e che aveva ritenuto addirittura inopportuno lo sciopero generale indetto dalla CGIL in nome della “responsabilità” nazionale invocata da Napolitano..

Di fronte a questo disastro, è necessario che in tutti i luoghi di lavoro si apra un ampio dibattito andando oltre le appartenenze a questo o quel sindacato, a questa o quell’area sindacale. E’ necessario che i lavoratori più combattivi si coordinino, riprendano la parola e ripartano da se stessi, dai luoghi di lavoro per rilanciare un movimento unitario di delegati e attivisti per la ricostruzione di un sindacalismo di classe. Continuare a non comunicare e agire solo nel recinto del proprio orticello favorisce solo gli avversari e le controparti.
In questa direzione, le iniziative autoconvocate come quella delle opposizioni sociali, sindacali e politiche del primo ottobre 2011 e le manifestazioni europee del 15 ottobre promosse dagli “indignati” rappresentano, insieme a tutti i movimenti che si battono peri beni comuni e i diritti sociali, momenti importanti e qualificanti da sviluppare nei territori per ricomporre un ampio fronte di resistenza alla crisi.
Affinché questo progetto abbia gambe per camminare, è necessario che i tanti compagni comunisti si decidano a fare un bilancio critico e autocritico del lavoro politico e sindacale svolto nella CGIL e nel sindacalismo di base negli ultimi 20 anni.
Nel rispetto dell’autonomia dei movimenti sindacali, diventa prioritario ricostruire, in un rapporto dialettico con le variegate realtà dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati e con le particolari condizioni di lavoro dei migranti, una linea sindacale di classe, basata su precisi contenuti ed obiettivi, che caratterizzi l’iniziativa dei comunisti, al di là della loro esperienza e collocazione sindacale. Prioritario oggi  è contrastare, in particolare nella CGIL, qualsiasi ipotesi concertativa, superare i limiti presenti nel sindacalismo di base (frammentazione, settarismo…), favorire l’unità dei lavoratori e il collegamento delle lotte.
Non la presenza negli apparati sindacali, ma i contenuti ed il ruolo nelle lotte devono tornare ad essere il riferimento vincolante per dare continuità e credibilità alla nostra iniziativa nel movimento operaio e sindacale.
Più in generale, la reale presenza nei conflitti sociali, la capacità di promuoverli e orientarli, rappresentano elementi costituenti di un nuovo processo di ricostruzione della rappresentanza di classe e di riaggregazione di realtà comuniste e anticapitaliste. Un elemento essenziale per capire gli errori compiuti, superare le reali divergenze, criticare il carattere separato e di ceto politico, dunque moderato, che ha caratterizzato l’esperienza della Sinistra Arcobaleno e più recentemente la stessa operazione della Federazione della Sinistra.

5) MAGGIORITARIO, SBARRAMENTI, BIPOLARISMO E PRIMARIE: LA “DEMOCRAZIA” CHE SERVE  AI CAPITALISTI ED AL CETO POLITICO

Il sistema capitalistico, nella fase della massima diffusione coincidente con la sua crisi di sovrapproduzione, ha bisogno di una “democrazia” che sia semplice gestione delle masse e garantisca  il massimo controllo politico della società, il perpetuarsi del  dominio di classe e, soprattutto, che mantenga lubrificata la sua macchina economica attraverso il consumo continuo e totalizzante di ogni aspetto della vita.
Uno degli strumenti per ottenere questo simulacro di democrazia è stata la sostituzione del sistema elettorale proporzionale, previsto dalla nostra Costituzione, con quello  maggioritario. Con il maggioritario ed il conseguente bipolarismo (bipartitismo) le classi subalterne non hanno la possibilità di esprimere, partendo dai propri bisogni, programmi e candidati adeguati, che sono, invece, scelti dall’alto da segreterie di partiti che hanno accettato il primato dell’impresa. Il maggioritario ed anche lo stesso meccanismo delle primarie personalizzano la politica, la rendono individualista e accentuano il processo di delega, facendo credere alle classi subalterne che esiste l’uomo della provvidenza, in grado di risolvere tutto.
In questo modo, si mistifica la realtà e  si destruttura l’idea  che la politica e la storia la fanno le classi organizzate e che i singoli individui che emergono sono il prodotto di quelle forze.
Occorre quindi lanciare una lotta contro questo sistema elettorale truffaldino, introdotto in Italia negli anni Novanta grazie ai liberali di Segni e al PDS di Occhetto, ampliato poi con la riforma del Titolo V della Costituzione – che dà a sindaci e presidenti di Province e Regioni poteri decisionali abnormi svilendo il ruolo delle assemblee elettive – e peggiorato con la riforma Calderoli, detta “Porcellum” che concede l’assurdo premio di maggioranza e vanifica il principio costituzionale di eguaglianza tra i cittadini nell’espressione del voto.
Questo sistema elettorale, maggioritario e bipolare, si fonda sulla logica dell’alternanza (che tende a convergere al centro) e toglie rappresentanza alle espressioni  alternative ed antagoniste al capitalismo, ””costrette”  ad accordi elettorali subalterni, mortificando così lo stesso principio di rappresentanza democratica.
Serve, in una parola, ad escludere la classe da qualsiasi possibilità di utilizzare il terreno istituzionale per difendere i propri interessi e quindi ampliare gli spazi di agibilità democratica nella società.
Dobbiamo batterci per tornare al proporzionale, senza correttivi o sbarramenti, riprendendo l’impianto della Costituzione del 1948 per evitare il gravissimo rischio di  “riforme” (ivi comprese le primarie nelle diverse articolazioni proposte) che le varie forze di governo e di opposizione presentano come moderne e di ”aggiornamento” della Costituzione, e per togliere qualsiasi alibi per alleanze subalterne da parte della sinistra, come avvenuto negli ultimi anni.
La difesa del ruolo delle assemblee elettive e la promozione di esperienze di partecipazione popolare dal basso nella gestione della cosa pubblica, contro le privatizzazioni e per la difesa dei servizi sociali, va collegata alla denuncia, forte e puntuale, di tutti gli aspetti degenerativi del ceto politico istituzionale (stipendi, privilegi, burocrazia..). Questi sono il frutto di una concezione della politica separata dalla vita quotidiana delle persone e considerata come “mestiere-carriera” , concezione che ha fatto breccia anche a sinistra e nel nostro partito, con fenomeni di deteriore istituzionalismo, di trasformismo e clientelismo legati a logiche di potere personale o di corrente.
Solo praticando nel vivo dello scontro sociale una reale diversità ed estraneità da questo sistema, e dunque facendo pulizia anche nel nostro partito di certi comportamenti, sarà possibile rilanciare il valore alto della politica e impedire qualsiasi deriva autoritaria e qualunquista che strumentalizzi il diffuso e legittimo malcontento popolare contro la “casta”.
La ferma opposizione alle scelte liberticide del Governo Berlusconi (su Costituzione, magistratura, informazione, leggi ad personam..), la denuncia della crescente repressione poliziesca (in ValSusa, contro lavoratori e studenti..), la lotta per un sistema elettorale proporzionale   sono strettamente connesse a quelle contro la concertazione e per una rappresentanza sindacale democratica, a quelle per i diritti sociali e per il rifiuto di pagare i costi della crisi.
Per questi motivi consideriamo la proposta di un Fronte Democratico col PD e la richiesta delle primarie di programma, finalizzate a costruire un’alternativa a Berlusconi, fuori dalla realtà, sbagliate e subalterne proprio perché la questione democratica è in questa situazione sempre più  intrecciata a quella sociale e non può essere risolta da una coalizione di centrosinistra e da un partito, il PD, che dimostrano ogni giorno di essere subalterni alle “direttive” dei poteri forti economico finanziari  e interni alle compatibilità del capitalismo (crisi, guerre “umanitarie”, lotte operaie, fiat, grandi opere, privatizzazioni, questione morale..) .
Il PRC, insieme a tutta la sinistra anticapitalista, ha ovviamente il compito di essere in prima fila per cacciare-sconfiggere Berlusconi ma per svolgere un ruolo effettivo è altrettanto essenziale ricostruire da subito un profilo indipendente ed alternativo al PD per non ritrovarsi nuovamente stritolati in un quadro politico tutto interno alle compatibilità e in una situazione sociale ancor più drammatica rispetto ai tempi dell’ultimo Governo Prodi.
Più in generale, non è pensabile rifondare un partito comunista senza cogliere l’importanza della  lotta per la democrazia e per l’attuazione della Costituzione, facendo propri gli obiettivi della Resistenza e dei Costituenti, ovvero l’egualitarismo, l’antifascismo e la possibilità per le classi subalterne di prendere in mano e cambiare la direzione della cosa pubblica e dell’economia.
L’impegno e la vigilanza antifascista mantengono tutta la loro attualità per impedire che nella crisi economica dilaghino razzismi e guerre tra poveri.

6) BASTA POLITICHE GOVERNISTE!

Opposizione sociale e anticapitalismo

Unire e far crescere le diverse lotte di resistenza alla crisi rappresenta il compito immediato per sviluppare un forte movimento di opposizione sociale e politico contro le direttive della Banca Centrale Europea, contro le manovre antipopolari del Governo ed i vari patti tra le parti sociali, ivi compreso quello dello scorso 28 giugno.
Nell’ambito di questo movimento che sta crescendo in questi mesi,  dall’appello “dobbiamo fermarli!”  alle varie esperienze nei luoghi di lavoro e nei territori,  può e deve riaggregarsi una sinistra anticapitalista,  plurale nelle soggettività, ma necessariamente caratterizzata da un programma e da una pratica indipendente ed alternativa al centrodestra e al centrosinistra, quale condizione per essere credibile riferimento dei movimenti e per incidere sulle stesse contraddizioni esistenti nel PD e nella sua base sociale.

Non pagare il debito: un programma per resistere alla crisi

Non pagare il debito, nazionalizzare le principali banche, colpire la speculazione finanziaria e l’evasione fiscale, tassare i grandi patrimoni ed i redditi alti, tagliare le spese militari e ritirarsi subito dagli scenari di guerra, fermare le grandi opere inutili e dannose, come la TAV, il Ponte sullo Stretto, gli inceneritori, chiudere i CIE sono i provvedimenti irrinunciabili per reperire le risorse necessarie a creare lavoro stabile, reddito, diritti, servizi sociali per tutti, contro ogni razzismo e discriminazione. Occorre ripartire dall’esito referendario per sottrarre i beni comuni alle leggi di mercato e rimettere in discussione il pensiero unico, estendere la democrazia, in particolare nei luoghi di lavoro, e i diritti civili, affermare il diritto di voto ai migranti, cancellare il segreto di stato, lottare a fondo contro la corruzione e tutti i privilegi.

La rifondazione comunista…

Un movimento di opposizione al capitalismo ha bisogno dell’azione e del ruolo qualificante di un partito comunista, un partito che non solo intenda rappresentare gli interessi degli operai, ma che sia “di classe” perché fatto da tanti lavoratori, lavoratrici e soggetti sociali in carne ed ossa; un partito in cui tanti proletari sappiano riconoscersi per costruire un’alternativa di sistema e vedere una prospettiva al di là della mera sopravvivenza quotidiana.
Rinnoviamo questa profonda convinzione non per principio astratto ma sulla base della concreta esperienza, coscienti che l’affermazione non è sufficiente di per sé a superare i problemi che abbiamo di fronte e che un partito comunista non esaurisce l’ampiezza e la pluralità di un movimento anticapitalista, né risolve in modo esclusivo la questione della rappresentanza  di classe.
. In questo contesto sta crescendo una giusta e diffusa iniziativa da parte di tanti/e comunisti/e per fermare la crisi e la frammentazione, riaggregare le forze, colmare il vuoto di rappresentanza politica della classe e riprendere il percorso della rifondazione-ricostruzione di un partito comunista.
Abbiamo il dovere di rispondere a questa domanda, ma diciamo con altrettanta chiarezza che non può bastare un nuovo generico appello alla “unità dei comunisti”, senza affrontare i nodi politici che il conflitto di classe e le esperienze passate ci pongono.  In nome di questa parola d’ordine, troppe volte sono state riproposte vecchie logiche di apparato, di unificazione burocratica tra gruppi dirigenti, scorciatoie politiciste e/o puramente identitarie-simboliche.
Non vi è unità dei comunisti senza autonomia politica e culturale. E’ possibile costruire una solida unità solo nella chiarezza della linea politica, di una linea indipendente e alternativa al centrosinistra, di una coerente pratica sociale e gestione democratica dell’organizzazione.
. Non siamo d’accordo, per questo, con la scelta fatta dai compagni de l’Ernesto di confluire all’interno del PdCI senza affrontare le grosse contraddizioni teoriche e politiche di questa formazione,  e senza rimettere in discussione il contenitore politicista della Federazione della Sinistra.  Nel PdCI non si parla più di partito di lotta e di governo, ma, salvo rare eccezioni, si pratica solo l’attività di governo in tutte le giunte dove il PD non mette il veto, giustificandosi con la debolezza dei rapporti di forza!  Senza risolvere questi problemi di fondo, riteniamo sbagliata una eventuale unificazione col PdCI perché rappresenterebbe solo un’operazione burocratica ed inconcludente.

Una discontinuità necessaria: alcune proposte

Per non diventare una parola d’ordine vuota, la rifondazione comunista ha bisogno di un supplemento di discontinuità e di riflessione rispetto al passato, considerate le pesanti sconfitte del ‘900 e le esperienze negative che abbiamo alle spalle (derive opportuniste, settarismi, scissioni, diaspora di militanti..). Occorre  costruire antidoti più solidi ed efficaci contro tutti i meccanismi e le forme di potere che contestiamo all’organizzazione capitalistica della società e che tendono a riprodursi anche al nostro interno, con il risultato di compromettere la nostra identità  A tal fine proponiamo:

- la centralità di una linea politica anticapitalista e di una pratica di opposizione,   elaborate e verificate nel vivo della lotta di classe e del radicamento sociale;

- la critica alla “doppiezza”  tra enunciazioni “rivoluzionarie” e pratica politica opportunista,  come base necessaria per recuperare una  coerenza tra fini e mezzi dell’azione politica, tra programma e scelte istituzionali. Non si tratta di negare per principio possibili mediazioni ma queste devono conquistare risultati concreti, aprire nuovi spazi all’iniziativa di classe e migliorare i rapporti di forza, non logorarli o distruggerli come avvenuto con i governi Prodi!  Non è più possibile stare con gli operai di Pomigliano, della Fiat, della Piaggio, con chi lotta contro la guerra, contro la precarietà e le privatizzazioni, contro la TAV e gli inceneritori, e poi fare alleanze di governo ai vari livelli con quelle forze politiche che sostengono Marchionne e il primato delle imprese, approvano le guerre “umanitarie” e le grandi opere;

- l’impegno a rimettere in discussione il carattere maschile e patriarcale, prevalente non solo nella società, ma anche nella organizzazione del partito, per creare non solo le condizioni di una effettiva partecipazione delle donne, ma soprattutto di una reale assunzione del loro punto di vista e della contraddizione di genere;

- un profondo ripensamento sulla nostra presenza nelle istituzioni che non può essere il fine dell’azione politica  ma semmai uno degli strumenti, sicuramente importante, per sostenere l’iniziativa sociale, per dare voce alla nostra proposta alternativa, conquistare risultati concreti, aprire contraddizioni negli assetti di potere; una presenza che deve essere profondamente diversa dai meccanismi di potere per non diventare deteriore “istituzionalismo” (separatezza, carrierismo, doppiezza, privilegi..). Poiché il carattere prevalente del nostro ruolo in questa fase storica deve essere quello dell’opposizione, occorre una rigorosa verifica in questo senso delle nostre presenze istituzionali e degli accordi nei governi locali, partendo dai contenuti e dai rapporti sociali, verifica non a caso rimasta sulla carta dopo il congresso di Chianciano.
Sul piano elettorale, a livello nazionale, non sussiste oggi alcuna minima condizione per definire alleanze organiche con il centrosinistra, nè tanto meno per governare insieme…

- la coerenza tra organizzazione del partito e stile di lavoro  con le finalità del nostro programma politico. La democrazia interna, la partecipazione di base nella definizione delle scelte, la formazione dei programmi di lavoro e dei gruppi dirigenti, l’attribuzione delle responsabilità, i livelli organizzativi devono ispirarsi sempre più alle esperienze più avanzate della democrazia consiliare, alla presenza nei conflitti sociali, alla centralità dei circoli, al primato del lavoro collettivo, ai criteri dell’inchiesta, alla verifica dei piani di lavoro, alla rotazione negli incarichi, limitando al massimo il funzionariato politico e la presenza nelle istituzioni per non più di due mandati. In particolare, gli incarichi istituzionali e le responsabilità di partito non possono rappresentare la risposta ai problemi individuali di lavoro e precarietà che vivono tanti quadri del partito, allo scopo di salvaguardarne l’indipendenza materiale e politica. La formazione politica e la socializzazione delle esperienze, rivolta in particolare ai giovani ed ai militanti impegnati nel lavoro di massa, sono indispensabili per la crescita di un gruppo dirigente diffuso, esperto ed affidabile. Analogo ragionamento occorre fare per gli strumenti informativi e per il giornale. Il degrado della vita interna del PRC in termini di democrazia e partecipazione, in atto ormai da anni, è in primo luogo il frutto della deriva politicista e della mancata svolta a sinistra;

- un impegno straordinario affinchè tornino a diffondersi pratiche di  autofinanziamento del partito  legate al lavoro di massa (tesseramento, feste di liberazione, cene, sottoscrizioni finalizzate a progetti politici..) mentre i GAP possono rappresentare un’esperienza utile e funzionale al progetto politico solo in un quadro di crescita dell’autorganizzazione popolare e di coerente pratica politica del partito stesso.
Va ribadito che nell’attuale contesto politico istituzionale non solo è sbagliato, ma è del tutto illusorio, pensare di risolvere i gravi problemi finanziari del Partito, a livello nazionale e locale, attraverso la soluzione “istituzionale”.

- la tutela del pluralismo interno ad ogni livello, che rappresenta un basilare diritto democratico ed un elemento di contrasto al ruolo devastante esercitato dal maggioritario anche all’interno della sinistra. Il pluralismo non ha niente da spartire con l’attuale situazione di aree politiche chiuse e cristallizzate in competizione tra loro per il controllo del partito che ha prodotto logiche spartitorie nella  nomina dei dirigenti, basate sulla fedeltà alla “corrente”, a discapito delle capacità politiche, di critica e di iniziativa espresse da  tanti compagni/e impegnati nel lavoro di massa. Adesso la giusta e diffusa insofferenza nei confronti di queste degenerazioni viene usata per richiamare il partito all’unità e sminuire i dissensi sugli evidenti problemi di linea politica.  A Chianciano il partito fu salvato dalla liquidazione da una esplicita lotta politica e dal protagonismo di tanti compagni/e che, sulla base di chiare opzioni, allora contribuirono a quel risultato. Oggi riteniamo necessaria una chiara proposta alternativa a quella della segreteria uscente. Ribadiamo la convinzione che non è stato il confronto tra posizioni diverse a causare l’attuale crisi del PRC ma la svolta moderata e la mancanza di una reale dialettica, che ha bisogno di democrazia, iniziativa, verifica e sintesi collettiva. L’assenza di dialettica è sicuramente uno dei fattori che condiziona le attuali scelte di opportunismo politico in nome della “sopravvivenza”, vista solo come ritorno in Parlamento.

CONCLUSIONI

Con questo documento ci rivolgiamo in primo luogo ai militanti di base, dei circoli, ai quadri intermedi e di movimento del PRC, al di là della loro collocazione nello scorso congresso di Chianciano; ci rivolgiamo anche a tutte le esperienze ed ai compagni esterni al partito, interessati a questa proposta politica.
Esprimiamo la ferma convinzione che oggi, a maggior ragione nella situazione sociale e politica imposta dalla crisi, non ci sono le condizioni per partecipare a maggioranze e coalizioni di governo (in nome dei cosiddetti “contenuti programmatici”), in grado di prendere provvedimenti tangibili e verificabili in favore della nostra base sociale.
Prima che sia troppo tardi, noi pensiamo che sia prioritario lavorare alla costruzione dell’opposizione sociale e politica per l’alternativa di sistema, togliendo qualsiasi illusione che un governo di centro sinistra farebbe cose molto diverse dal governo di centrodestra.
Gli operai che resistono, le vertenze dei precari, degli studenti e degli insegnanti, le lotte delle popolazioni contro la TAV, gli inceneritori e gli scempi ambientali, l’eccezionale risultato dei referendum, i tanti che  si oppongono alle guerre ed alle privatizzazioni ci dicono che ci sono ancora milioni di persone non disponibili a piegarsi ai valori barbari e incivili del capitalismo e del suo mercato.
I comunisti, se ancora esistono, sono chiamati a battere un colpo!

SE NON ORA, QUANDO?

FIRMATARI:

Pasquale D’Angelo, Matteo Malerba,  Antonello Manocchio, Laura Petrone, Sandro Targetti, Vincenzo Simoni.

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