Rifondazione mensile di politica e cultura
Ottobre 1998

IL PARTITO

UNA SCELTA DI VITA di Rina Gagliardi

Che ne sarà di Rifondazione comunista? E soprattutto: che ne sarà del progetto della rifondazione comunista, che è poi la sua ragion d’essere essenziale? Sono domande che - interne o esterne, esplicite o implicite, partecipi o malevole - dominano da mesi il dibattito politico nazionale e l’informazione quotidiana. Del resto, l’esistenza di una forza come il Prc non è mai stata una anomalia «fisiologica» Un ostacolo reale, al di là dei suoi limiti quantitativi e qualitativi, sulla strada della compiuta «normalizzazione» del paese, a tutt’ora imperniata sull’idea di alternanza (l’illusione di un bipolarismo «perfetto») e su una stabile egemonia liberista, sia pure nella sua versione temperata  - italica e democristiana, ma non solo. Un ingombro, prima o poi, da rimuovere, riducendone le ambizioni, costringendolo alla dialettica - mortale - tra omologazione e testimonianza, colpendone al cuore, se così si può dire, la complessità e l’originalità.
  Nascono qui le preoccupazioni diffuse sia per la difficoltà delle scelte d’aututnno sia per la divisione interna che ha vanificato la maggioranza del III Congresso nazionale e riproposto, spesso in termini non precisamente eleganti, le grandi questioni di identità e strategia. Come è spesso accaduto, il conflitto precipita - anche aspramente - sulla stretta tattica (il rapporto col governo Prodi, cioé la collocazione del Prc nel quadro politico nazionale), ma rinvia a interpretazioni diverse della situazione sociale e politica, nonché, forse, a opzioni differenti sul ruolo, oggi, di una forza comunista, anticapitalista e antagonista. 
 Quello che segue è un contributo alla discussione e alla ricerca collettiva che anche questa rivista cercherà di portare avanti. Con orientamenti e punti di vista precisi - ed espliciti - ma fuori da ogni faziosità polemica.
Una grande instabilità
 Quella che è stata chiamata, con un’espressione non del tutto felice, la «lunga transizione italiana», si va svolgendo all’insegna di una accentuata instabilità, che ha natura tanto «autoctona» quanto internazionale. In estate, ne sono comparsi, come segnali eclatanti, le grandi tempeste finanziarie, la drammaticità della crisi russa, la cruenta aggressività americana verso il Sud del mondo: ma l’Europa, a dispetto di quanto afferma l’avvocato Agnelli, non è per nulla al riparo dal disordine, sotto il «tranquillo» ombrello dell’Euro. Nel vecchio continente, all’opposto, si gioca una partita strategica, che è al tempo stesso di potere e di civiltà: tra l’imposizione di un modello economico e sociale di tipo nordamericano, imperniato sulla fine della contrattazione collettiva, sulla «flessibilità assoluta» del lavoro , sulla riduzione sostanziale del Welfare e della leva fiscale, sulla (apparente) riduzione dei tassi di disoccupazione a prezzo di un’ulteriore precarizzazione del rapporto di lavoro, e il rilancio di un modello riformatore, capace di innovare, radicalmente, le politiche di intervento pubblico e di riproporre il lavoro - la strategia della piena occupazione - al centro della propria iniziativa. Dentro questo scontro, si decide il destino stesso della politica: nell’Europa americanizzata, non c’è spazio per la partecipazione e per la democrazia organizzata dei soggetti collettivi, e la passivizzazione di massa ne diviene una delle condizioni - e concause - costitutive. E si misura il futuro delle forze socialiste, socialdemocratiche, postcomuniste, tutte poste oggi, di fronte a un bivio sostanziale del loro percorso storico.
 Questo bivio si definisce, principalmente, attorno ad un interrogativo: se il «liberismo temperato», di cui sono portatori alcuni esponenti della borghesia e al quale tendenzialmente aderiscono i maggiori partiti della sinistra , è in grado di salvaguardare la tenuta del «modello europeo», garantendo per questa via un’era sufficientemente lunga di stabilità politica e sociale e un vero protagonismo europeo sulla scena mondiale. In altri termini, si tratterebbe di ridar vita a un nuovo «compromesso storico» tra il blocco della sinistra e quella parte della borghesia - le grandi famiglie in declino - più restia ad aderire in toto alle ricette del Fmi e, soprattutto, più dipendente dalle erogazioni dello Stato.
  Da noi, va in questa direzione il «patto sociale» proposto da Carlo Azeglio Ciampi, che è l’ipotesi più ambiziosa - finita l’ebbrezza euromonetaria - finora prospettata dal governo di centro-sinistra: ma non siamo, nient’affatto, a qualcosa che assomiglia al vecchio compromesso socialdemocratico o alla gloriosa programmazione economica degli anni del boom economico. In realtà, al posto di una pur modesta opzione redistributiva a favore del lavoro dipendente, delle classi subalterne, delle larghe masse emarginate, ci sono la generalizzazione della flessibilità e il sostegno agli interessi d’impresa; al posto di una scelta di sviluppo e di occupazione, c’è la compressione del lavoro salariato. C’è, invece e per compenso, l’idea di una piena «associazione» delle forze storiche della sinistra - sinistra moderata e sindacato - alla gestione del nuovo modello: qualcosa che va al di là della stessa prassi concertativa, e che promette la conservazione, più o meno piena, della forza istituzionale della sinistra moderata e del suo potere centrale. Qualcosa che si configura come la variante italiana del blairismo: là, il potere contrattuale del sindacato era già stato drasticamente ridotto dall’era thatcheriana, e si trattava di recidere il legame storico con il partito operaio per rendere praticabile, a quest’ultimo, la propria trasmutazione liberale e liberista; qua, si tratta di produrne il definitivo assorbimento in un nuovo patto corporativo, al quale il partito è libero di aderire, a condizione che rompa, per proprio autonomo percorso, con il suo «residuo» socialdemocratico e con il suo insediamento classista. Le contraddizioni - visibili e ancora non esplose - tra Ulivo e Democratici di sinistra, tra «Ulivo mondiale» e Internazionale socialista, nascono, prima che da un dissenso di strategia o da un conflitto di leadership, da questa sorta di «lotta per la vita»: uno solo di questi soggetti, alla fine, resterà in campo, nel tentativo di gestire un compromesso sociale senza contropartite e di occupare l’intero spazio politico neo-centrista. 
 In sostanza, il liberismo temperato si va configurando come la versione continentale e «iperpolitica» del liberismo -  una variante necessaria nel contesto europeo. Ma non garantisce neppure un esito di duratura stabilità democratica.
Svolta o rottura
In un quadro come quello che abbiamo cercato sommariamente di descrivere, la fase della resistenza attiva, del condizionamento, dell’interlocuzione incalzante si è - quasi oggettivamente - esaurita. Svolta o rottura, in questo senso, non è stata proposta soltanto come una formula contingente, buona per la tattica e per la  gestione mediatica, ma come un’ipotesi che, dall’ottica di una forza alternativa, delinea le due possibili alternative del nuovo ciclo: ma il contenuto è unico, la lotta al disegno di stabilizzazione del neoliberismo temperato, così come unica è la sua finalità, il potenziamento delle sue contraddizioni interne. In questo senso, la collocazione politico-parlamentare del Prc - all’interno della maggioranza, organicamente nel governo, all’opposizione - è una subordinata, non un prius strategico, come curiosamente qualcuno va dicendo. Si tratta di valutare, ad un tempo, l’efficacia tattica e la fruttuosità di una scelta, e di adattare ad essa, oggi e nei prossimi mesi, l’iniziativa politica e sociale, non certo di mutare indirizzo strategico. E si tratta - non sembri un’affermazione paradossale - di ragionare davvero oltre gli interessi immediati - o «di bottega» - del partito della Rifondazione comunista, in un’ottica europea, in un contesto nel quale la centralità delle  alleanze internazionali - per esempio, con la Francia di Jospin e con il movimento antiliberista del vecchio continente - ha senso, valore e orientamento pienamente politici. Si colloca qui, al di là dei conflitti personali e delle polemiche quotidiane, la discussione strategica interna a Rifondazione.
 Sgombriamo il campo dalle rappresentazioni, o autorappresentazioni, pretestuose, tipo quelle tra «realisti» e «utopisti» - in un partito comunista, che ha rifiutato il comodo destino di setta o di gruppo minoritario, tutti sono, per definizione, un po’ utopisti e un po’ realisti. Il conflitto vero verte  sul ruolo di una forza alternativa, anticapitalistica, antagonista: se esso non possa comunque oltrepassare i limiti di una politica sostanzialmente emendativa, correttiva, condizionante, o se esso, invece, possa e debba perseguire una finalità più ambiziosa, un progetto autonomo più forte. Il conflitto vero, sul governo Prodi, non concerne in effetti il giudizio sulla qualità riformista del medesimo - che viene negata all’unanimità - ma l’adesione o meno alla celebre dichiarazione di Kypling (wrong or right, my country) adattato al quadro politico, e motivato - in questo caso legittimamente - con la paura del peggio (le destre, e queste destre pericolose ed eversive). 
 In realtà, la posizione di chi cancella dalle opzioni possibili del Prc quella della rottura e dell’opposizione nasce, prima di tutto, dall’illusione prospettica della stabilità politica: non vede - o se la vede, la trascura - la complessità dinamica dello scontro che si è aperto, rinuncia ad incidere, in prospettiva, sulle contraddizioni interne al blocco sociale della sinistra moderata, e finisce con l’approdare al  rifugio di una  «provincia italiana» che nella realtà non esiste più. Il tema della necessità politica della svolta - in questo senso - è negato, e sostituito da quello, tradizionale, dell’accordo o da quello, più moderno, della «riduzione del danno». Ma proprio qui riemerge un’antica illusione della sinistra e del movimento operaio sulle chances reali di una opzione di contenimento: un’idea veteroilluministica della politica e del ruolo delle istituzioni, contro il disordine e le intemperanze della società. Ma le società italiana ed europea - ciascuno a suo modo - sono il contrario, oggi, di quel  «regno dell’autonomia», o di quel protagonismo, che ogni tanto qualcuno ci dipinge: essa è in preda a processi drammatici di disgregazione e di impoverimento, essa galoppa verso l’afasia, la passività, la segmentazione - verso l’antipolitica come propria condizione naturale. Essa sta diventando il terreno privilegiato per una egemonia della destra - quel cocktail micidiale di liberismo, populismo e neoqualunquismo già ampiamente sperimentato - che prima o poi si tradurrà in risultati politici ed elettorali. E il neoliberismo, in tutte le sue versioni, così come il neopaternalismo buonista del centrosinistra, stanno preparando questo esito drammatico: infatti, tutti paventano la prossima competizione elettorale, in qualunque momento essa si collochi. Come se essa fosse evitabile.
 Anche per questo obiettivo, svolta o rottura serve a una battaglia attiva, non di mero contenimento, per battere davvero le destre. Compresa, se si renderà necessaria, la scelta di opposizione per il Prc.
Rifondazione mensile di politica e cultura
Liberazione giornale comunista
Partito della Rifondazione Comunista