Rifondazione mensile di politica e cultura
Ottobre 1998

DAL MONDO

LA DOPPIA REGOLA DEL GIOCO di Sara Fornabio*

Ue, Nafta, Asean, Mercosur le organizzazione regionali da un lato, il mercato unico mondiale dall’altro. Due spinte non omogenee e un esito incerto.
Nel corso degli anni 90 si sono andati consolidando, in maniera sempre più evidente, i processi di globalizzazione dell'economia. Le principali caratteristiche di questa nuova forma di organizzazione produttiva e finanziaria si possono riassumere brevemente in una serie di elementi: la frammentazione e la delocalizzazione delle fasi produttive, l'alto contenuto tecnologico dei processi di produzione, la "finanziarizzazione" crescente dell'economia, l'inversione della dinamica degli investimenti diretti esteri (Ide).
Dal punto di vista degli assetti politici internazionali, il processo di globalizzazione ha prodotto e sta producendo le regolamentazioni atte a favorirne lo sviluppo: la progressiva liberalizzazione degli scambi, con l'abolizione dei regimi preferenziali (Accordi Gatt-Omc) e, in contraddizione evidente, lo sviluppo di aree regionali di integrazione dei mercati (Ue, Nafta, Asean, Mercosur), caratterizzate da politiche di libero scambio all'interno e un elevato grado di protezione verso l'esterno. 
Il "libero commercio" del Gatt dell'Omc
La laboriosa conclusione dell'Uruguay Round del Gatt (iniziato nel 1986 e terminato nel 1994), si è proposta il rilancio della dimensione multilaterale dei rapporti commerciali internazionali, fortemente messa in discussione dalla tendenze alla regionalizzazione e al bilateralismo affermatesi nel corso degli anni 80. La sostanziale stagnazione del commercio internazionale - dovuta principalmente alle politiche deflazionistiche e alla contrazione della domanda in seguito al secondo choc petrolifero - hanno determinato, dalla metà degli anni 80 in poi, una nuova ondata di tendenziale protezionismo da parte dei paesi economicamente più forti (gli Usa in testa) e una tendenza all'integrazione per aree dei paesi meno ricchi. Tutto ciò era in evidente contrasto con il tentativo di mantenere una dimensione globale delle negoziazioni commerciali in seno al Gatt, negoziazioni già rese difficili dalla contrapposizione di interessi molto diversi tra loro.
 Usa, Ue e Giappone si sono venuti configurando sempre più come blocchi economici antagonisti, preoccupati solo di rafforzare le proprie posizioni relative, in un contesto economico globale caratterizzato da un forte divario tra centro e periferia e non più identificabile nella storica divisione tra Nord e Sud. 
I paesi al margine, quelli meno industrializzati, hanno posto una serie di questioni durante le negoziazioni dell'Uruguay Round, nel tentativo di non subire le decisioni assunte sulla base di compromessi tra interessi dominanti (in particolare tra gli Stati Uniti e l'Unione Europea), o per lo meno di strappare qualche concessione sul piano dell'apertura degli scambi in settori ancora protetti come l'agricoltura ed i tessili. Per contro, hanno dovuto accettare la liberalizzazione degli scambi dei servizi e la maggiore protezione dei diritti di proprietà intellettuale, che ha fatto aumentare considervolmente il prezzo delle nuove tecnologie. 
In questo contesto nascita dell'Omc doveva rappresentare, nelle parole del Direttore generale Ruggiero, un passo decisivo verso l'istituzionalizzazione del liberismo negli scambi a livello planetario. 
Gli accordi regionali
Di pari passo con le negoziazioni multilaterali, però, si andava affermando in modo sempre più evidente il processo di regionalizzazione dell'integrazione economica, attraverso il moltiplicarsi degli accordi preferenziali di libero scambio (dalla nascita del Gatt nel 1947 a oggi ne sono stati notificati circa 100). 
Il regionalismo può essere definito come "la tendenza di un certo numero di paesi a liberalizzaare parzialmente o totalmente il commercio fra loro, discriminando i paesi non membri attraverso un elevato grado di protezione".
Il regionalismo si è storicamente strutturato in accordi tra paesi appartenenti ad aree omogenee e ha dato risultati positivi in termini di aumento degli scambi solo nelle aree più forti (l'Unione Europea, ad esempio). Le varie e numerose associazioni di libero scambio tra paesi meno ricchi o molto poveri non hanno portato benefici in termini di aumento del benessere dell'area, ma hanno rappresentato il tentativo, spesso vanificato, di aumentare il potere contrattuale di paesi che singolarmente non avevano una dimensione economica o geografica in grado di competere con i blocchi più forti. Gli accordi regionali rappresentano in questo caso l'unico modo per superare i limiti di scala, sia per quanto concerne la produzione che per quel che riguarda il mercato di sbocco, il tutto basato sull'assunzione del modello di sviluppo industriale come unica possibilità di crescita. 
Per questi paesi la stagnazione economica e la crisi finanziaria provocata dal collasso di paesi fortemente indebitati (Messico, Brasile, Marocco, etc.) ha determinato l'affermarsi, nel corso degli anni 80, della politica neoliberista del Fondo monetario internazionale. I Piani di aggiustameno strutturale hanno rappresentato il prezzo da pagare per il mantenimento delle linee di credito internazionali e per il riscadenzamento del debito estero. Le conseguenze di una scellerata politica di contrazione della spesa pubblica sono state pesanti soprattutto per le popolazioni, dal momento che ciò ha determinato forti tagli alla spesa sociale per sanità e istruzione, ha dato via libera alla privatizzazione di settori decisivi delle economie nazionali, con il conseguente aumento della disoccupazione nel settore pubblico e la perdita di sovranità sulle scelte di politica economica. Il Fmi ha inoltre imposto sempre più un modello della produzione orientato all'esportazione, nella convinzione che il commercio internazionale costituisce un meccanismo quasi automatico di crescita economica.  
Il modello di sviluppo neoliberista incoraggia l'orientamento all'export e la progressiva liberalizzazione degli scambi. Certamente, il commercio internazionale può contribuire alla ricchezza di una nazione, ma il modello orientato verso l’estero ha anche implicato la perdita dell'autosufficienza alimentare, la crescente dipendenza dai mercati dei paesi industrializzati (dominati dai grandi gruppi di acquisto costituiti per lo più da multinazionali), deficit strutturali delle bilance dei pagamenti e il deterioramento delle condizioni ambientali, principalmente per lo sfruttamento eccessivo (e poco efficiente) delle risorse naturali. 
Alla spinta verso la liberalizzazione dei paesi economicamente più deboli ha corrisposto, come dicevamo, la crescente integrazione delle aree forti (in particolare di quelle che gravitano intorno a Stati Uniti, Unione europea e Giappone), caratterizzate dalla liberalizzazione interna e dal protezionismo verso l'esterno. Protezionismo che ha impedito l'esplicarsi dei risultati del modello export-oriented, dal momento che ha penalizzato fortemente l'accesso ai mercati da parte dei paesi non membri. 
Di pari passo, sono nati accordi di integrazione regionale anche tra paesi con forti divari di sviluppo, come nel caso del Nafta (siglato nel 1993), tra Usa, Canada e Messico o l'area di libero scambio tra i paesi dell'Ue e i paesi del Mediterraneo sud ed est (prevista per il 2010). E' evidente che il diverso grado di sviluppo economico rende inique le condizioni di partecipazione ed estremamente diseguali i risultati del libero scambio. La tendenza a estendere l'integrazione all'armonizzazione dei sistemi giuridici, inoltre, ha determinato, nel caso del Messico per esempio, la forzata abolizione di consuetudini che in qualche modo permettevano la sopravvivenza delle popolazioni locali. La revisione costituzionale che ha abolito gli ejidos, le terre comuni messicane, ha determinato il peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni indie: 3 milioni di famiglie si sono trovate a non poter più sopravvivere e hanno dato vita al primo movimento di resistenza alla globalizzazione, la rivolta del popolo del Chiapas. 
Nonostante gli obiettivi annunciati, dunque, gli accordi regionali di libero scambio tra paesi o aree non omogenee determinano un aumento del divario di sviluppo, soprattutto per l'iniquità e la non reciprocità delle concessioni e delle liberalizzazioni. 
La contraddizione tra regionalismo e multilateralismo negli scambi internazionali non sembra destinata a essere risolta nel breve periodo, né si può affermare che un approccio sia di per sé migliore dell'altro, soprattutto se permangono condizioni inique nei rapporti economici. 
Come se non bastasse, è stato rimesso fortemente in discussione il ruolo della cooperazione internazionale allo sviluppo e l'aiuto pubblico allo sviluppo ha conosciuto una drastica e costante riduzione delle risorse, in particolare a partire dal crollo del muro di Berlino nel 1989. Fino ad allora, infatti, la cooperazione aveva avuto una precisa funzione di attrazione in relazione alla contrapposizione tra i blocchi occidentale e sovietico. Con la scomparsa della "minaccia comunista" e della necessità di limitarne l'influenza nei paesi economicamente più deboli, la maggior parte dei paesi destinatari degli aiuti ha visto diminuire l'intervento della cooperazione internazionale che, sebbene non avesse rappresentato la soluzione ai problemi creati da uno sviluppo economico mondiale distorto (e caratterizzato dall'ormai famoso rapporto 20/80, vale a dire che il 20 per cento della popolazione detiene l'80 per cento della ricchiezza mondiale), aveva comunque contribuito a mitigarne le conseguenze e ad introdurre dei correttivi sul piano locale. Ben lontano dall'obiettivo dello 0,7 per cento del Pil, l'Aps italiano corrisponde ora allo 0,16 per cento del Pil. 
La riduzione dell’aiuto ufficiale si è associata all’aumento dei flussi di investimenti privati, sotto forma principalmente di investimenti diretti esteri (Ide).
Guardando solo gli aggregati, si potrebbe dire che i paesi economicamente meno avanzati non hanno mai goduto migliore salute, poiché i flussi finanziari totali provenienti dai paesi industrializzati tra il 1990 e il 1995 sono aumentati da 102 miliardi a 231 miliardi di dollari, cioè un miglioramento apparente del 126 per cento.
Tuttavia, queste cifre complessive nascondono diversi fattori essenziali. La distribuzione geografica di questi investimenti è molto diseguale: gli Ide
si concentrano solamente su una dozzina di paesi, soprattutto nel Sud-Est
Asiatico e, in misura minore, in America Latina.
Il fatto, molto più grave, è che il mondo si divide ormai in due: i paesi considerati come “credit-worthy” e quelli “non-credit-worthy” (che meritano o non di ricevere il credito). I paesi che meritano di ricevere il credito sono quelli che lottano contro l’inflazione, mettono in pratica l’aggiustamento strutturale secondo il modello o sotto la tutela diretta del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, e perseguono una forte politica di privatizzazioni. 
La sostanziale scomparsa di flussi finanziari pubblici a titolo gratuito ha ingenerato una concorrenza tra paesi rispetto ai flussi privati di investimento, basata essenzialmente sulla compressione del costo del lavoro e sulle agevolazioni fiscali e giuridiche concesse agli investitori stranieri. Si è dunque aperta la strada a una nuova colonizzazione, non dichiarata ma non per questo meno evidente. Il sistema perverso del debito estero, che ha determinato aumenti di quasi 10 volte rispetto agli oneri iniziali, costituisce una delle principali forme di controllo delle economie nazionali dei paesi più indebitati, sottoposti al ricatto della chiusura delle linee di finanziamento internazionali e della concessione di condizioni più o meno favorevoli per il ripagamento (vedi il caso degli annullamenti del debito Usa nei confronti dell'Egitto in occasione della Guerra del Golfo).
* ricercatrice del CNEL
Rifondazione mensile di politica e cultura
Liberazione giornale comunista
Partito della Rifondazione Comunista