Rifondazione mensile di politica e cultura
Ottobre 1998

IL FATTO

RUSSIA, UN DISASTRO DELL'OCCIDENTE di Giulietto Chiesa

Una politica miope e di corto respiro ha imposto una transizione accelerata al capitalismo, mettendo in ginocchio l'ex Unione sovietica. Ma le colpe non sono solo dei russi e dei "giovanotti di Harvard".
C'è voluto l'imperioso giudizio, espresso sul Financial Times dal banchiere filantropo George Soros, perché a Mosca si prendesse atto della situazione, si lasciasse svalutare il rublo e si riconoscesse nel contempo la bancarotta di fatto dell'economia russa. Si è cioè applicata la massima di Robert Musil, secondo cui "non si ha fiducia in un medico ammalato, ma quel che ha da dire uno che ha saputo provvedere molto bene a se stesso deve contenere una certa dose di verità".
Il fatto è che - in questa shakespiriana commedia degli equivoci che è la Russia post-comunista - anche Soros era reduce da una doppia, spaventosa cantonata: la prima, da 900 milioni di dollari, che egli collocò personalmente, l'anno scorso, nella privatizzazione del colosso telecomunicativo Svjazinvest. Della seconda parleremo tra poco. Per quanto riguarda la prima, essa non consistette nell'aver speso quei denari, poiché Soros resterà comunque azionista di peso massimo in un'impresa cruciale per il futuro della Russia, bensì nel giudizio politico che egli formulò in quell'occasione.
Disse, Soros, in sostanza, di essere finalmente convinto che il giovane allora primo-vice premier Boris Nemtsov, insieme al meno giovane Anatolij Ciubais e a un gruppetto di altri giovanotti, caldeggiati dai circoli finanziari internazionali, avevano finalmente avuto ragione del "capitalismo criminale" della fase precedente.
Soros - e con lui tutto il coro della finanza mondiale, e dei circoli dirigenti dell'Occidente, in testa ai quali stava l'Amministrazione Clinton - ritenne che incominciasse in quel momento la vera riforma russa, dopo l'"inevitabile" disordine della prima, convulsa fase di transizione.
La seconda, clamorosa cantonata - da oltre due miliardi di dollari - Soros la prese quando, verosimilmente dopo il giudizio di cui sopra, cominciò anche lui a comprare le obbligazioni a breve termine (le famose Gko) che il governo russo periodicamente emetteva per coprire il deficit del budget. Adesso, in buona compagnia, per esempio, del Credit Suisse-First Boston (che ci ha rimesso oltre 200 milioni di dollari), della Nomiura giapponese (che ci ha lasciato 400 milioni di dollari, della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Berd), che anch'essa ha lasciato una valanga di quattrini, e insieme a decine di grandi istituti di credito sparsi in tutto il mondo, Soros fa malinconicamente i conti con gli effetti dell'ideologia e della totale incomprensione in tutta questa vicenda.
Col che si dimostra anche, tuttavia, che Soros può sbagliare, ma cogliendo la differenza essenziale tra coloro, come lui, che cadono sempre in piedi e chi, invece, come la Russia ubriaca, cadendo a faccia in giù, si spacca le ossa del naso. Già, perché sei anni di "riforma", cioè di passaggio al capitalismo secondo la ricetta di quelli che adesso, a cose fatte, molti saggi del giorno dopo chiamano ironicamente i "giovanotti di Harvard", la Russia è in ginocchio, allo sbando, con una struttura industriale completamente demolita, con un'agricoltura inesistente, debitrice per tre generazioni, con una classe politica lacerata, una popolazione violentata, un assetto istituzionale che soltanto dei farisei possono considerare simili alla democrazia liberale.
Una crisi inevitabile?
Adesso è inevitabile un esame di coscienza collettivo. Diventa impossibile eludere la domanda: perché le cose sono andate così? Potevano andare diversamente? C'era un'alternativa a questo pasticciaccio? Non mi riferisco qui ai 22 miliardi di dollari messi in mano a Boris Eltsin e compari, all'inizio dell'estate '98, dai prestatori occidentali, Fondo Monetario e Banca Mondiale in testa a tutti, insieme a Bill Clinton ed Helmut Kohl. A questo punto la frittata era già fatta, e da parecchio tempo. Come minimo dall'ottobre del 1993, quando i cinque carri armati di Eltsin ridussero al silenzio il parlamento legittimo, tra il plauso dei cori mondiali che avevano cantato le loro geremiadi doppio pesiste per il massacro della Tienanmen.
Nell'estate 1998 si trattava ormai soltanto di salvare la faccia di Clinton e di Kohl alla vigilia delle elezioni di mezzo termine americane e di quelle parlamentari tedesche, cioè di fare politica, sulla pelle della Russia, mascherandola da economia. Cosa che, del resto, ha caratterizzato tutti i prestiti precedenti, generosamente elargiti alla Russia per ragioni squisitamente politiche, ma mascherandoli come aiuti a un paese che si stava "riformando", e vincolati - si proclamava - al rispetto dei parametri universali del neo-liberismo economico imperante in tutto il mondo. Le ragioni squisitamente politiche erano che Eltsin e la sua banda costituivano il miglior baluardo per la difesa degli interessi occidentali. Non c'è neanche bisogno di documentarlo, poiché lo si disse apertamente e pubblicamente in decine di occasioni. Le motivazioni economiche erano invece del tutto bugiarde, poiché non era difficile capire - bastava volerlo - che tutti i parametri del Fondo Monetario Internazionale non erano rispettati dai "riformatori" russi. Per essere più precisi ci sono solo due ipotesi. La prima è che gli esperti del Fondo Monetario fossero in buona fede convinti che i dati economici forniti dal governo russo fossero attendibili. La seconda è che, al contrario, essi fossero in completa malafede, per ragioni appunto politiche, cioè per ragioni che nulla avevano a che fare con l'ortodossia finanziaria.
Se valesse la prima ipotesi non resterebbe che licenziarli tutti, a cominciare dal signor Michel Camdessus. Con la motivazione più ovvia: incapacità professionale. Infatti non occorreva una schiera di Sherlock Holmes per scoprire che il deficit del budget russo veniva coperto con una piramide cartacea che diventava sempre più grande; che le entrate dello stato russo erano mostruosamente inesistenti, essendo la classe dirigente russa criminalizzata in larghissima parte ed essendo inesistente qualsiasi rapporto di fiducia tra il popolo dei contribuenti russi e la leadership del paese; che i successi della lotta all'inflazione erano dovuti non a una saggia politica monetaria ma all'inadempienza sempre più macroscopica dello stato verso i suoi dipendenti, verso i suoi pensionati, non pagati per mesi e mesi; che la contrazione della massa monetaria, suggerita dai giovanotti di Harvard, non stava producendo risanamento della moneta ma in compenso stava spingendo quel poco di economia russa all'indietro verso la fase pre-capitalista dello scambio in natura, cioè del famoso barter.
Questo è solo un elenco parziale delle cose che si potevano vedere a occhio nudo e che si finse di non vedere, concedendo ogni volta le tranches dei prestiti ai governanti russi, ben sapendo che esse sarebbero state incamerate nei conti esteri della sterminata corte di corrotti. E poiché non si vuole fare alcun torto al signor Camdessus, accusandolo di incompetenza plateale, si è costretti purtroppo a constatare che egli - e con lui tutta la finanza occidentale - hanno fatto, per così dire, strame dei loro postulati di rigore finanziario in nome di interessi politici. Resta soltanto da spiegare il fatto curioso - reso possibile forse soltanto dall'accecamento ideologico (nel senso di falsa coscienza) - che poi una grossa parte della finanza mondiale ha finto per dimenticare a che gioco si stava giocando e si è gettata anch'essa sulle fantastiche prospettive di profitto "garantite" dalle obbligazioni russe. Lasciandoci le penne, come si è già detto, in modo tecnicamente davvero inglorioso. E, a questo proposito, viene a fagiolo una ulteriore postilla, che ha a che fare non solo con la Russia ma con la globalizzazione finanziaria mondiale e con i templi che ne hanno garantito in questi anni gli stratosferici successi.
La Russia attuale è poca cosa rispetto alle gigantesche dimensioni del mercato finanziario mondiale. Neanche il suo Pil suscita emozioni, essendo di poco inferiore a quello dell'Olanda. Ma colpisce constatare che grandi banche d'investimento - di certo quasi tutte quelle americane - come Jp Morgan, Merrill Lynch, Morgan Stanley Dean Witter, Lehman Bros, Bankers Trust, ecc., sono cadute nella trappola russa e in quelle analoghe dei cosiddetti mercati emergenti, lasciandoci mediamente l'uno o il due per cento della loro capitalizzazione. E adesso i valori dei loro pacchetti azionari, colpiti dalla crisi finanziaria mondiale, sono precipitati mediamente dal 30 al 50 per cento dalla fine di luglio ad oggi.
Ma non era da questi templi che provenivano gli assessments, i ratings sulle cui basi si orientavano milioni di azionisti, perfino i governi più potenti del mondo? E quale fiducia si deve ora depositare nei tabernacoli blindati di quegli altari?
Un collasso previsto
Comunque per tornare alla Russia, sarebbe stato sufficiente dare un'occhiata alle valutazioni che, fin dal 1993-1994, erano state offerte da un gruppo di premi Nobel per l'economica e autorevolissimi economisti come Kenneth Arrow, John Kenneth Galbraith, Vassilij Leonyiev, James Tobin, tutti occidentali, e da un altrettanto nutrito gruppo di economisti russi, tra cuiLeonid Abalkin, Nikolai Petrakov, Nikolai Smeliov, che avevano messo in guardia contro una transizione al capitalismo pressoché demenziale, qual era quella avviata da Gaidar e Ciubais, gestita da Viktor Cernomyrdin, sotto la supervisione di noti geni dell'economia neo-liberista come Jeffrey Sachs e Anders Aslund.
Dunque gli stupori odierni, a crack avvenuto, non hanno giustificazione. Si sapeva. Adesso c'è chi si affanna a spiegare che "non c'erano alternative", e che Eltsin, Ciubais, Cernomyrdin erano gli unici in grado di garantire gl'interessi occidentali e impedire il ritorno al comunismo. Sciocchezze l'una e l'altra, naturalmente. La seconda perché il pericolo di un ritorno al comunismo era ormai inesistente. E lo era fin dal 1991, prima ancora della liberalizzazione dei prezzi. Non fosse stato per il terrore occidentale, del tutto irrazionale, e per quello dei rapaci "riformatori" russi - che dello spauracchio comunista fecero, occorre dire, un uso magistrale menando per il naso i detentori dei cordoni della borsa - i comunisti russi del post-comunismo sarebbero rimasti parte integrante del tutto normale, legittima, inevitabile, del processo di transizione.
Per quanto concerne la prima giustificazione non occorre dimostrare oggi che era una sciocchezza. Adesso sappiamo che la leadership scelta dall'Occidente era la quintessenza dell'incompetenza, della corruzione, e infine del compromesso con le peggiori inclinazioni della storia russa e sovietica. Cioè il peggio che si potesse scegliere. Se questa è la realpolitik di cui l'Occidente è capace, e che l'America ha impersonato in questi anni clintoniani, dio ci salvi tutti. Il suo orizzonte storico non supera quello di un mandato presidenziale, quando la sua obiettiva funzione di potenza mondiale numero uno imporrebbe una visione strategica capace di abbracciare i destini di più generazioni.
L'appoggio incondizionato a Eltsin
Quanto alla mancanza di alternative si può solo dire che esse non furono nemmeno cercate. A Eltsin fu data carta bianca, proprio da Bill Clinton, nel gennaio 1993, consentendogli di programmare lo scioglimento di un soviet supremo in cui esisteva già un non trascurabile schieramento riformatore. Se andò a finire a cannonate lo si deve anche al presidente Clinton. Ciubais fu finanziato e incoraggiato a privatizzare nella forma più brutale e violenta tra le cento possibili. I decreti di quella riforma furono materialmente scritti a Harvard. Chi, per caso, in quegli anni, avesse provato ad eccepire, a chiedere un esame più ponderato di ciò che si andava facendo, sarebbe stato immediatamente bollato come comunista.
Intanto miliardi di dollari volavano verso le banche occidentali, mentre i consiglieri occidentali aiutavano attivamente a costruire la piramide finanziaria che adesso è crollata, e mentre i "riformatori" russi lasciavano liquefare quei "fondamentali" dell'economia che, soli, avrebbero garantito una vera riforma e un vero passaggio all'economia di mercato.
E di fronte a questo evidente sfracello si continuava ad annunciare imminenti riprese economiche, inversioni di tendenza, indicatori finalmente col segno più. E, cosa non meno eccitante per i mercati occidentali, autorevoli commenti della stampa specializzata, inclusi quelli dell'Economist, accreditavano il delirio. 
In quegli anni i media occidentali magnificarono la privatizzazione, che adesso si scopre fasulla; stralunarono gli occhi di fronte al proliferare di banche che adesso falliscono una dietro l'altra; fecero i calcoli sui dati statistici ufficiali, anche dopo che perfino la polizia russa, corrotta anch'essa fino agli occhi, era stata costretta ad arrestare l'intero gruppo dirigente dell'Istituto centrale di statistica. Certo, in questo modo si è messo il paese in ginocchio. E forse è proprio questo che alcuni circoli occidentali (non tutti) volevano.
Certo lo si è trasformato in un paese insolvente che non potrà più pagare i debiti contratti. Certo lo si è trasformato in un gigantesco erogatore di materie prime a basso prezzo. E lo si è integrato sì nel mercato mondiale, ma in forma subalterna e neo-coloniale. Era questo l'obiettivo? Difficile dirlo. Purtroppo l'impressione prevalente è che tutto ciò sia stato fatto più per insipienza che per disegno. Purtroppo, perché tutto compreso sarebbe meglio avere a che fare con una leadership occidentale meno imbelle e miope.
Ma adesso, per carità, no si ripeta che non c'erano alternative. E soprattutto si cambi rotta. L'Occidente ha molte leve in mano per contribuire a un cambio di leadership in Russia. E, per favore, non si faccia altra confusione, difendendo l'Occidente (ma quante vestali, sempre pronte alla difesa dei nostri peggiori istinti!) dalla necessità di un'autocritica adducendo l'esempio cinese.
Adesso, come riconosce perfino un ultra-conservatore come Charles Krauthammer sul Washington Post, si deve prendere atto che "la Russia non vuole più andare avanti sulla strada che il signor Clinton ha patrocinato". E non perché essa ha prodotto il mercato, bensì perché essa ha prodotto "una sorta di capitalismo criminale e corporativo, un'oligarchia di baroni che hanno in realtà rubato una colossale quota del patrimonio sovietico, che dirigono e derubano il paese, qualche volta senza l'acquiscenza della gente di Boris Eltsin, mentre l'economia affonda nell'oblio". E' ben vero che non tutto ciò può essere addebitato alle responsabilità dell'Occidente. I russi hanno avuto in questo la loro parte, che è grande, determinante. Ma noi non possiamo chiamarcene fuori, adesso, alla luce di quello che abbiamo fatto e che non abbiamo fatto. Non possiamo soprattutto guardare dall'alto questi russi "incapaci", che ci hanno deluso. Non saremmo delusi oggi se avessimo tenuto conto della loro storia e delle loro esperienze, di quelle buone e di quelle cattive.
L'Occidente è potuto penetrare, con le sue idee e ricette, come un coltello caldo nel burro. Ha tagliato la scorza molle e imposto la sua volontà a una leadership imbelle e corrotta, che è ora nelle sue mani, ricattabile e subalterna. Per poi accorgersi che sotto la scorza c'era un corpo vischioso e impermeabile, stratificato dalla storia. Siamo a questo punto della vicenda. L'Occidente ha molte chiavi per aiutare ancora la Russia, ma queste non servono per entrare nel nocciolo duro. Le usi - con maggiore saggezza, si spera, di quanto ha fatto in questi anni clintoniani - prima che questa piaga diventi troppo grande per poter essere sanata.
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