Rifondazione mensile di politica e cultura
Ottobre 1998

IL PARTITO

VERSO IL PROGRAMMA FONDAMENTALE incontro con Fausto Bertinotti

Critica, strategia, identità: come coniugare questi tre elementi in un percorso originale. Conversazione con Fausto Bertinotti attorno alla costruzione di un programma generale del Prc.
Alfonso Gianni
Hai parlato - in diverse riunioni di partito – della necessità di definire un programma generale del Partito della Rifondazione Comunista. Vuoi spiegare meglio cosa intendi per programma generale del Prc? 

Fausto Bertinotti
Intanto, credo valga la pena di mettere l’accento sull'originalità, rispetto alla vicenda del movimento operaio italiano, di tale obiettivo, che appartiene più alla tradizione classica e al movimento operaio tedesco. 
Si potrebbe cominciare prendendo lo stesso Manifesto del Partito Comunista, che è, direi, il programma generale per antonomasia: esso delinea un apparato storico, un apparato critico della formazione economica e sociale capitalistica, individua i soggetti del cambiamento e insieme il programma del cambiamento. L’elemento portante di un programma fondamentale è quindi, direi, proprio la critica al capitalismo e, insieme a questa, l’idea generale che può guidare una formazione politica in un processo di trasformazione. 
Il programma è però anche un momento di formazione culturale e di definizione di un’identità, di classe e della formazione politica. E al riguardo si può ricordare la precisione filologica e definitoria usata da Marx nella sua Critica al programma di Gotha, proprio a significare l’esigenza di costruire una cultura politica attraverso il programma. 
Nel secondo dopoguerra il tema del programma è tornato ancora in Germania, seppure con un segno “revisionistico di destra” (per usare un’accezione classica). Penso a Bad Godesberg, dove venne definito il profilo della socialdemocrazia tedesca, durato poi trent’anni (l’ultimo programma della SPD è infatti del 1989). In Italia, da parte della sinistra classista, si è irriso a quella vicenda con un atteggiamento liquidatorio. D’altra parte veniva registrata la tendenza ad allontanarsi definitivamente dall’esperienza comunista. Tuttavia quel programma ha avuto un rilievo; che non ha avuto il programma del 1989. 
In Italia, invece, l’idea togliattiana del partito nuovo, assai più del programma, ha ispirato la formazione e la costruzione del Pci. Nel Partito Socialista ci sono stati momenti di ragionamento attorno a questioni teoriche e politiche, ma sono stati animati soprattutto da singoli esponenti e da istituzioni parallele. La Cgil nel Congresso del 1990 ha provato a costruire un programma, ma pur impegnando uomini di primissimo ordine e un apparato di grande consistenza, non ha sortito un grande risultato dal punto di vista dell’impatto. E qualcosa fu tentata anche da parte del Pci. Penso al Progetto a medio termine del ’77 o al tentativo programmatico dell’ultimo Pci, che potrebbe però essere assunto come esempio al negativo. Ricordo in quella fase Claudio Napoleoni, quando disse in un’occasione: «se assumete quella piattaforma allora vi conviene cambiare il nome di Partito Comunista e darvi pace». Una frase sferzante che anticipava la svolta della Bolognina e che individuava, non casualmente, un nesso tra l’ispirazione del programma e la definizione di sé. 
Insomma, diciamo che è un’operazione che punta non solo a tracciare un programma per l’azione politica ma anche a contribuire alla definizione di sé attraverso il connotato programmatico. Non sarà esaustivo della definizione di sé, come sappiamo bene, perché entrano in questa moltissimi altri elementi, che riguardano la vita organizzata del partito, le sue culture, il suo modo di essere, le sue aspettative, persino i suoi miti, ma ne è uno degli elementi fondamentali. 
Ed è un impegno che richiede la definizione di un metodo e di un tempo di lavoro che siano congrui all’impresa. Anzi, il problema del metodo e quello del tempo sono già elementi che costituiscono una parte importante dell’idea di programma fondamentale. Perché non si può pensare di realizzarlo in una sorta di autosufficienza dei gruppi dirigenti o, peggio ancora, di un ufficio studi o di un gruppo di tecnici.

Alfonso Gianni
Vorrei provare ad approfondire questo aspetto del metodo e del tempo.

Fausto Bertinotti
Per parlare non in astratto ma del partito, direi che questo lavoro deve scavalcare un congresso, quindi deve investire anni di lavoro. Il prossimo congresso può essere l’occasione per discutere un primo semilavorato. Anche perché l’assise congressuale coinvolge largamente il partito, costituisce un fatto politico nazionale e quindi crea le condizioni per interloquire con aree di intellettualità e con soggetti sociali importanti. E poi penso a un’assise successiva, molto solenne, in cui la solennità sia anche espressione di una democrazia forte e di un impegno straordinario. È difficile dire se ci vorranno due o tre anni, ma l’arco temporale mi sembra grosso modo questo.
Questo lavoro dovrà essere costruito attorno a strumenti di partito ed essere presieduto, credo, proprio dalla Direzione, che potrebbe affrontare anche in maniera seminariale alcuni passaggi della sua costruzione. Alla stessa Direzione devono far capo sia il Comitato scientifico che l’Ufficio di programma, le due sedi vocate alla ricerca programmatica, valorizzando la diversità dei due organismi e le differenti propensioni; e su questa base va costruito progressivamente un vero e proprio sistema. Penso a una rete di relazioni con esperienze, soggetti, testimoni attivi di esperienze di movimento e anche organizzazioni esterne con cui interloquire mantenendo relazioni diversamente coinvolgenti e diversamente critiche. Insomma un programma fondamentale non lo si fa da soli, in una condizione di autosufficienza di partito e neppure di autosufficienza di un'area culturale relativamente omogenea come quella che può esserci, diciamo così, attorno al partito nella sinistra alternativa. Si deve interloquire e confrontarsi anche con le altre culture e in particolare con le altre culture critiche, quelle cioè di cui abbiamo parlato nel nostro Congresso: le culture cristiane e quelle provenienti dall’esperienza delle donne, quelle provenienti dalla pratica ecologista e ambientalista, quelle espressione di parti rilevanti delle nuove generazioni.
Il punto centrale da attivare nella discussione credo sia quello del lavoro. Non come banalmente si pensa, in un’accezione pur necessaria, sulla base di un approccio sociologico o di diagnosi delle condizioni di disagio, ma il lavoro inteso come fattore costitutivo della realtà sociale, della fisionomia di una società e della sua natura. E insieme la critica al lavoro salariato, la sua riattualizzazione di fronte alla mutazione radicale che il lavoro salariato, che pure resta tale, sta tuttavia subendo nella composizione sociale di classe, nel suo rapporto con i vissuti, nel suo rapporto con la società, nella sua proposizione per una prospettiva rivoluzionaria. 
Quest’ultima è una proposizione molto ambiziosa e molto impegnativa, e sento tutto lo scarto tra la nostra capacità di elaborazione e la questione che essa propone, che è quella della rivoluzione in Occidente. Il tema si è affacciato per l’ultima volta sulla scena della politica italiana, europea e del mondo nel biennio ‘68-’69, e richiede ormai una ridefinizione, non solo sulla base di quell’ultima grande esperienza di cambiamento, ma anche alla luce del nuovo ciclo capitalistico e di questa modernizzazione, di cui la "globalizzazione" dell’economia capitalistica (una definizione sempre più sottoposta a critica, ma che ha anche una capacità definitoria, almeno approssimativa) costituisce un tratto essenziale.
Non si può dire heri dicebamus; non si può dire soltanto: «noi siamo anticapitalisti perché dall’origine siamo contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo». Il problema fondamentale non è di ribadire questa premessa, indispensabile, ma è di tradurre questa premessa in una critica dell’economia capitalista del nostro tempo: riaggiornare, cioè, le categorie dello sfruttamento e dell’alienazione come strumenti critici di questa specifica fase storica; e la critica alla formazione economica e sociale capitalistica rispetto a questo specifico processo di modernizzazione, che viene prendendo corpo dal superamento del ciclo precedente, spesso definito “taylorista-fordista-keynesiano”. 
E’ anche per questo che penso che la dimensione nazionale sia necessaria ma non sufficiente, perché è proprio questo mutamento della scena su cui si riorganizza il capitale che impone l’assunzione, come dimensione dell’agire politico diretto, della dimensione europea. Laddove naturalmente quella indiretta coinvolge il mondo, coinvolge tutte le esperienze che possono prendere corpo contro le politiche neoliberiste, che sono quelle più invocate da questo processo di modernizzazione capitalistica. Quindi il programma fondamentale sarebbe bene fosse inteso, anche sotto questo aspetto, come un lavoro in progress fino a investire il rapporto con le altre forze della sinistra comunista e antagonista d’Europa per poter fare insieme a loro un pezzo di strada assieme, nonostante le diversità rilevanti.
 
Nerio Nesi
Sono d’accordo: dobbiamo darci un programma generale, perché programma generale vuol dire identità. E perché la nostra identità di partito si è espressa finora più in termini di negazione che di proposizione. Concordo anche sul fatto che il problema fondamentale che noi dobbiamo affrontare è l’identificazione di una concezione del lavoro che, per noi, si accompagna alla definizione di una società nella quale il mercato non sia il padrone assoluto; e da questa concezione deve derivare, secondo me, anche un’identificazione di valori, diversi e opposti rispetto al profitto che è, invece, la base morale di tutta l’attività nel mondo capitalistico. E’ un’utopia, ma penso che l’utopia sia necessaria nella conduzione generale di un partito politico. 
Dobbiamo anche formulare una nostra concezione dello sviluppo, dire cosa intendiamo per sviluppo, non soltanto economico, ma sociale, culturale, familiare. Infine, dobbiamo chiarire come, a nostro parere, si può reggere e regolare la società contemporanea, identificando valori e presupposti diversi. Finora il capitalismo italiano – forse anche quello di altri paesi, seppure in misura minore – è stato retto da due forme di capitalismo: quello dello Stato e quello familiare. Adesso sono entrati entrambi in crisi. Questo vuol dire che verranno meno nei prossimi anni le formule sulle quali si è retta questa società. Identificare formule diverse è un compito difficile, ma anche affascinante. In questo senso anche la concezione del rapporto del mondo del lavoro col mondo della produzione e delle imprese diventa un fatto non soltanto sindacale ma anche culturale. 

Fausto Bertinotti
Credo ci sia sempre un riferimento non solo nella realtà che indaghi ma anche nell’organizzazione del pensiero e/o della politica che funziona al negativo e che serve a ridefinirti. Oggi noi questo lo abbiamo. Non è un ritorno all’antico, ma il fatto è che le socialdemocrazie europee sono impegnate esse stesse in una sorta di ridefinizione. Sostanzialmente si muovono nella società due tendenze: una neosocialdemocratica, che lavora sull’apparato culturale, ideologico, critico della socialdemocrazia di questo mezzo secolo; l’altra, invece che muove verso un orizzonte liberale. In Europa la soggettività politica che oggi viene chiamata socialdemocrazia, finirà per essere influenzata a seconda di quale di queste due prevarrà. E quella neoliberale ha purtroppo molte chances, perché ha dalla sua il fatto di essere la più lucidamente apologetica delle tendenze della modernizzazione capitalistica. Non voglio dire che sia in grado di immaginare gli esiti di queste tendenze, ma che sceglie decisamente il versante del loro appoggio. Noi abbiamo, rispetto a questa tendenza liberale, un atteggiamento programmaticamente alternativo. Mentre siamo interessati a delle convergenze con l’ala neosocialdemocratica sul terreno del fare politica. 
Sul terreno del programma fondamentale, però, siamo altrove anche rispetto alla componente neosocialdemocratica: per rispondere a una domanda generata da altri bisogni, diciamo così, da un’altra necessità. Questo elemento su cosa poggia? Secondo me sul punto essenziale e dirimente del programma, che è la critica. Su questo la lezione di Marx è vitalissima. Il punto è la critica all’economia capitalistica, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Senza questo elemento ci si muove lungo sentieri che non configurano nessuna possibilità concreta di sottrarsi a quel destino, se non per testimonianza individuale o per spostamento del dissenso sul terreno etico-morale o religioso. Il secondo elemento di differenza è che noi dobbiamo assumere un punto di vista drammatico nei confronti di questa modernizzazione, nella quale si contrappongono, sotto delle apparenze che ne nascondono la drammaticità alternativa, da un lato il bisogno di socialismo e dall’altra il rischio di una regressione della civiltà del lavoro. L’alternatività è determinata dal trend lungo di processi economici e sociali e non da catastrofi anche generali della politica, come è stato con il nazifascismo. Ma il vecchio socialismo o barbarie mi pare si riproponga con una drammatica attualità. 
Vorrei anche dire che abbiamo già tanti elementi analitici, ma ricostruire un apparato critico vuol dire anche raggiungere un punto di sintesi. A partire dalla domanda, difficilissima, ma senza la quale non si fa il programma fondamentale: «chi è il soggetto della trasformazione?». Cioè qual è il blocco storico (che pure è una categoria che non mi convince più), l’aggregazione che, muovendo da una discriminante di classe, è in grado di aprire un processo di trasformazione e di ripensamento delle politiche, e della politica. Domanda alla quale non si risponde semplicemente con l’enunciazione di obiettivi, ma costruendo un telaio di obiettivi e insieme di soggetti e di modalità di lotta. 
Nel far ciò penso che dovremo rivisitare alcuni obiettivi dei punti alti della politica riformatrice di questo secolo. Facciamo l'esempio della piena occupazione. Non può esistere un programma fondamentale del Prc che non parta dalla piena occupazione. Bene, ma ciò vuol dire una nuova idea di pieno impiego: perché pieno impiego e nuova idea dello stesso sono oggi due termini imprescindibili. Oltre all’elemento quantitativo del tutte e tutti occupati; occupati come? E per che cosa? Dove? Per produrre cosa e per chi? Questi tornano a essere i grandi quesiti; ed è anche l’unico modo per rispondere alla svalorizzazione del lavoro, oggi in corso. Questioni che a loro volta ripropongono il tema di un nuovo stato sociale e di “un altro modello di sviluppo” entro cui il mercato smetta di essere l’elemento dominante nei rapporti tra le persone, tra le merci, tra le persone e le merci. 
E ciò vorrei aggiungere chiama in causa anche un problema irrisolto, anzi “omesso”, nella nostra elaborazione, cioè quello della proprietà. Nonostante il fallimento delle esperienze dei paesi post-rivoluzionari dell’Est europeo, che avevano incorporato l’idea di una statalizzazione di tutte le forme di proprietà, non possiamo pensare di lavorare semplicemente di lima sulla proprietà privata, operando qualche correttivo. Il tema della proprietà ci si propone strategicamente, e anche nei tempi medi.

Marco Berlinguer
Direi che il problema si pone anche dal punto di vista analitico. Come osservava anche Nesi, sta saltando ciò che ha regolato il funzionamento di un ciclo lungo dello sviluppo capitalistico: e anche nelle forme capitalistiche di proprietà ci sono delle trasformazioni da indagare. Basti dire che negli Stati Uniti i principali proprietari di mezzi di produzione sono diventati i fondi pensione. Vorrei però affrontare il problema dell’organizzazione del nostro lavoro. Quale può essere il percorso?

Fausto Bertinotti
Secondo me servono in partenza più discussioni di impianto. Bisogna tener conto che siamo in una situazione molto immatura e di fronte a un’esperienza del tutto inedita. Cominciamo ad accumulare pareri, opinioni informali attorno alla questione del programma fondamentale di un partito della rifondazione comunista. La domanda per cominciare è: «secondo te, oggi, un programma fondamentale per il Partito della Rifondazione Comunista di che cosa deve parlare; se tu dovessi proporre un ordine argomentativo, qual è questo ordine?» E poi procediamo per approssimazioni. Io stesso ho enunciato dei temi che ometterei nell’ambito della discussione, perché rappresentano un’accelerazione. 

Angelo Tria
Come può la stessa costruzione del programma diventare attività viva, vera di tutto il partito?

Fausto Bertinotti
Un tempo queste erano grandi operazioni pedagogiche. Il partito aveva un programma e lo illustrava, lo insegnava sia attraverso processi formativi veri e propri, sia attraverso processi formativi informali: dalla riunione al comizio, alla scuola di partito. Questa modalità funzionava in un’altra società, con altra compattezza, con altri moduli di formazione, di scolarizzazione, oggi è impraticabile Perché diventi attività del partito bisogna che si stabilisca un rapporto bi-univoco tra il programma fondamentale e il partito, e anche l’azione pratica dei movimenti. Programma, partito e movimenti devono incrociarsi ed è fondamentale che questo avvenga già nel processo costruttivo del programma, che in questo senso non deve nascere soltanto qui, ma anche, per esempio, da quell’inizio di movimento che lotta per le 35 ore.

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