Rifondazione mensile di politica e cultura 
Maggio 1998 

DAL MONDO

LA BANCAROTTA DI CONFUCIO di Martino Mazzonis

La crisi del Sudest asiatico può aiutarci a capire le dinamiche della globalizzazione. Una rassegna delle ipotesi interpretativa.

I dragoni non fanno più fuoco e le tigri perdono i denti: questo il refrain mediatico più battuto in questi mesi da stampa e televisioni. Il continente asiatico sprofonda: ecco il messaggio di pura superficie, che attesta in realtà la scarsa capacità di lettura dei processi in corso a livello mondiale, da parte del sistema dell’informazione. Il quale oscilla tra “scoperte” politico-sociali e scoperte, più o meno, di “folklore”: da un lato, si accorge che in Corea del Sud, in Indonesia, in Thailandia la crescita era ed è tutta “drogata” dalla finanziarizzazione, o che, analogamente, quelli sono paesi poco democratici e molto corrotti; dall’altro lato, non riesce a connettere la persistenza del culto confuciano degli antenati – confinato di solito nella rubrica turistica – con lo scoppio degli scioperi in Corea.

Una crisi senza precedenti
In realtà, la crisi asiatica è stata ed è durissima: è la prima volta che la regione conosce tutta insieme una fase di recessione e disordine come quella manifestatasi col crollo delle borse. Aggiungiamo che il ciclone finanziario e le sue materialissime conseguenze hanno investito un'area che negli ultimi trent'anni ha conosciuto una crescita senza precedenti, più imponente di quella a cui ha assistito l'Occidente negli ultimi centotrenta - che pure sono un periodo di rivoluzione nella storia dell'umanità. E si deve ricordare che coinvolti nella crisi sono sia paesi appena pervenuti al rango di dragoni o tigri - la Malesia o l'Indonesia – sia centri industriali e finanziari di prima grandezza - Hong Kong, la Corea del Sud, undicesima potenza industriale del mondo.
La regione asiatica ha vissuto la maggiore crescita mondiale del Pil pro capite tra il 1965 e il 1996, con un aumento medio tra il '70 e gli anni 90 del 9,1 per cento in Cina, del 7,4 in Malesia, oltre l'8 in Corea del Sud, a Singapore e Taiwan, con il picco più basso in Indonesia dove la crescita del Pil in questo quarto di secolo è stata "solo" del 6,8 per cento (la media dei “paesi ricchi” nello stesso periodo è del 2,7).
 Oggi, qualcosa sta effettivamente mutando. Per questi paesi le stime per il '97 e le previsioni per il biennio successivo parlano di un drastico ridimensionamento che,  per alcuni di loro, è addirittura accompagnato dal segno meno - Indonesia, Corea e Thailandia rispettivamente -5,2, -2,5 e -4 per cento per l'anno in corso. Solo per il 1999 la crescita prevista torna ad essere sostenuta in alcuni paesi - Taiwan, Cina e Singapore, già adesso meno colpiti - e piuttosto bassa nei paesi più colpiti - Corea del Sud, Indonesia, Malesia, Hong Kong. Comunque, in tutta l'area si prevede un ridimensionamento del tasso di crescita.
Dal punto di vista finanziario la crisi è cominciata il 2 luglio del 1997 quando il governo tailandese, allora guidato dal premier Chavalit, decide di sganciare il bath dal dollaro. Da quel momento, le valute di tutta l'area vanno perdendo tra il 20 e il 55 per cento - con Singapore e Taiwan intorno al primo valore e poi, scendendo, Malesia, Filippine, Thailandia e Corea del Sud. La moneta più colpita è la rupia indonesiana, che nel momento peggiore è arrivata a perdere l'80 per cento rispetto al dollaro, mentre il dollaro di Hong Kong e lo yuan cinese non hanno perso nulla. Le borse, nel frattempo, sono crollate anch'esse perdendo tra il 20 per cento di Hong Kong e l'80 per cento indonesiano con tutti gli altri maggiori mercati finanziari dell'area che hanno perso tra il 40 e il 60 per cento. La somma andata perduta in questo periodo è di circa seicento miliardi di dollari, che equivalgono ai due-quinti dell'intero Prodotto interno lordo della regione.

La crisi asiatica secondo le centrali del pensiero unico
Per scoprire dove le banalità dei nostri mass-media vengano pescate occorre cercare in quei giornali che più da vicino parlano con il mondo che conta: i media frequentati da un “pubblico globale” di investitori, osservatori, funzionari. Nel caso dell'Asia si possono scorrere l'Economist, BusinessWeek o la Far Eeastern Economic Review oppure, per capire come ci spiegano la crisi i massimi attori istituzionali del neoliberismo,  scrutare nei rapporti del Fondo monetario internazionale (Fmi).
Ecco l’analisi di questi autorevoli analisti: il ciclone asiatico è frutto di cattivo governo; troppi prestiti a breve termine sono stati concessi dalle banche senza verificare la solvibilità del cliente; c’è stato un eccesso di speculazione in alcuni settori (in particolar modo l'edilizia), nonché nell'importazione di beni di consumo invece che di tecnologie e saperi; e c’è stata una crescita sproporzionata del mercato finanziario. Altri elementi sottolineati sono la sopravvalutazione delle monete, la crescita del costo del lavoro e una struttura istituzionle debole. Conclusione: la crisi è tutta interna a quei paesi e alle loro cattive classi dirigenti, la cui frenesia di arricchirsi in fretta ha portato a questo drammatico scivolone, il funzionamento del mercato e le sue regole non c'entrano. Per riprendersi non c'è che da seguire le ricette del Fmi.
E' chiaro che ciascuno degli elementi contenuto in questa spiegazione è assolutamente reale: in quei paesi si è speculato, ci si è indebitati per investire ma anche per comprarsi la macchina e la classe politica è corrotta (in questi mesi sono saltati i premier di Thailandia e Corea del Sud, la Banca centrale giapponese è stata investita dagli scandali e di Suharto e dei suoi parenti ciascuno a potuto leggere persino sui giornali italiani). Ma ciò che è paradossale è che questo era tutto vero anche prima del luglio 1997 e che a non vederlo erano esattamente gli stessi che oggi ci dicono che quello asiatico non è un modello ma si tratta in realtà di paesi molto diversi tra loro. Tanto più è strano che gli osservatori attenti e le agenzie internazionali pubblicavano libri e rapporti di segno completamente opposto. Negli ultimi anni le librerie economiche hanno riempito i loro scaffali con testi dai titoli significativi come L'Asia che sorge o Imparare dalle tigri asiatiche e la Banca mondiale, nel 1993, pubblicava un rapporto dal titolo inequivocabile: Il miracolo del Sudest asiatico. Dov'erano gli attenti osservatori, coloro che dettano le regole di comportamento da seguire, che hanno i cordoni della borsa dei prestiti quando Suharto faceva crescere il valore dei terreni e delle imprese dei suoi figli, nipoti, generi, suocere e cognati?

Uno sguardo diverso sull'"asiatica"
Forse è possibile invece dare delle spiegazioni diverse, che guardino più in profondità, leggano invece di registrare delle disfunzioni e si interroghino sulle connessioni che esistono tra la crisi asiatica e il funzionamento del mercato globale, della globalizzazione triadica.
La prima osservazione che si può fare è relativa all'eccesso di finanziarizzazione dei mercati, con scambi giornalieri che sono passati dai 18 miliardi di dollari nel 1970 i circa 1500 attuali - solo il 3 per cento di questi corrisponde a beni e servizi reali. L'eccesso di finanziarizzazione è in sè elemento che può portare a bolle speculative, dovute a un eccesso di aspettative e alla tendenza alla sovraccumulazione che generano l'illusione di una crescita rapida della ricchezza, che a sua volta produce un aumento dei consumi e della domanda interna largamente falsato . Un esempio di questo può essere l'accumularsi di automobili nei depositi tailandesi adesso che le banche tendono a essere più attente nel far circolare denaro tra soggetti poco affidabili. Meno denaro facile, meno auto comprate. In questo contesto si inserisce l'Fmi, preoccupato di favorire gli investimenti e, quindi, di non far perdere soldi agli investitori. Le ricette del Fondo creano quindi l'idea che la speculazione a breve è qulcosa che paga, inducono a riprovarci (Andriani).
Altra lettura è quella di Giovanni Arrighi (cfr. l'articolo pubblicato su Rifondazione n.2, 1998). In questo caso il tentativo è quello di leggere i fenomeni attraverso la lente della lunga durata, che è l'approccio (molto banalizzato) del Fernand Braudel center di Binghampton nello stato di New York. Secondo questa analisi la finanziarizzazione dell'economia non è un fenomeno nuovo: essa “viene da lontano” e la crisi asiatica è il segnale di uno spostamento dell'egemonia economica mondiale verso l'Asia e segnatamente verso la Cina e la diaspora cinese che controlla molte delle risorse di altri paesi asiatici. Le crisi, secondo Arrighi, si manifestano sempre nei mercati finanziari emergenti -  così è stato nell'ultima grande crisi, quella del 1929, che pur cominciando a Wall street, ha segnato il passaggio dell'egemonia dall'Inghilterra agli Stati uniti. Non c'è quindi contraddizione tra crisi e nuova centralità asiatica.
Due appunti si possono fare a questa lettura (semplificata in questo articolo e più problematica nella riflessione di Arrighi), appunti che non ne contraddicono necessariamente l'esito ma lo complicano. Il primo è relativo al peso della finanziarizzazione, difficilmente paragonabile con quello avuto in altri periodi della storia; altro elemento riguarda invece il controllo occidentale su una serie di strumenti di potere quali quello politico militare e su tecnologie e processi di innovazione e ricerca, che rende più difficile l'autonomizzarsi dell'Asia.
Altra lettura ancora è quella che vede nella crisi uno strumento per ridimensionare il modello asiatico e ricondurre quei paesi all'interno della dinamiche dela globalizzazione triadica, segnata fortemente da valori occidentali. Sarà utile fare alcuni esempi relativi al funzionamento delle economie asiatiche e a quello che sta succedendo oggi.
Le forme di regolazione sociale dei paesi dell'Asia, come è noto, divergono di molto sia dal modello europeo (il welfare pubblico) che da quello statunitense, banalizzando molto possiamo dire che si tratta di un modello sociale confuciano, centrato fortemente sul gruppo - la famiglia, il gruppo industriale per cui si lavora. La coesione familiare come strumento di welfare integrato al modello industriale e il rapporto privilegiato del lavoratore col gruppo industriale sono, nei paesi più ricchi dell'area (Giappone, Corea del Sud, Singapore, Hong Kong), strumenti essenziali. Il lavoratore offre un livello di flessibilità e di partecipazione elevato e il datore di lavoro offre in cambio lavoro garantito, pensione, magari le case con affitti bassi.
Le economie dell'area non sono, non erano completamente aperte, partecipavano al mercato mondiale ma, come è avvenuto in tutti i paesi industrializzati tranne in Inghilterra, lo stato regola, interviene, sovvenziona, controlla i flussi di investimenti esteri. In Corea del Sud lo stato negoziava i termini di ciascun investimento multinazionale, lo stesso cercano di fare tutti gli altri paesi - seppur con meno forza.
Terzo ed ultimo elemento da ricordare è la creazione dell'area di libero scambio (Afta) all'interno dell'Asean (Association of Southeast Asian Nations che comprende tutti i paesi del Sudest asiatico meno la Cambogia), fortemente voluta e propagandata nei media asiatici con più forza e capacità di creare motivazione che non la nostra Unione monetaria.
Veniamo adesso al post crisi e cerchiamo di capire come il comportamento degli investitori e i pacchetti imposti ai paesi dal Fmi in cambio dei prestiti necessari (più di 100 milioni di dollari, il più grande prestito elargito da queste istituzioni).
L'Fmi chiede a ciascun paese di liberalizzare gli investimenti, di ridurre drasticamente l'intervento statale in economia, di lasciar affondare le banche in crisi, di deregolamentare il mercato del lavoro. L'applicazione di queste regole annulla il controllo statale sugli investimenti esteri, apre spazi agli investitori stranieri nei mercati locali senza bisogno di formare joint-ventures, trasforma la flessibilità del lavoro in precariato - i famosi scioperi coreani dello scorso anno erano contro un legge che facilitava il licenziamento, oggi sarà più difficile opporvisi. Il modello di regolazione delle economie forti asiatiche rischia di saltare. A questo si aggiunga che la forte svalutazione, il crollo delle borse e il pressante bisogno di liquidità hanno abbassato i prezzi e gli investitori più forti, stranieri o dell'area, stanno comprando moltissimo e a basso prezzo. La Yamaichi securities giapponese ha venduto 30 sportelli locali alla banca d'affari Merrill Lynch, la Cepa di Hong Kong, che costruisce centrali elettriche, è stata comprata dall'americana Southern Co., il chaebol coreano Doosan ha venduto i suoi impianti di imbottigliamento alla Coca-Cola. Ancora la General Motors spera di concludere un accordo con la Daewoo o di comprare fabbriche (e operai, ma con nuovo rapporto di lavoro) invece di doverle costruire, la Hong Kong Telecom ha comprato un settore della First pacific.
Altra conseguenza della crisi è la battuta d'arresto del processo di integrazione dell'Asean .
L'economia dell'Asia insomma si sta internazionalizzando - saltano le barriere - e "razionalizzando" - i gruppi locali più forti e legati all'economia internazionale concentrano risorse nelle loro mani. Effetto della crisi potrà quindi essere quello di un rafforzamento dell'economia di alcuni dei paesi, di una loro maggiore integrazione nel mercato regolato secondo le regole occidentali imposte dal Fmi. La svalutazione produce infatti maggiore competitività sul piano dei costi, mettendo i paesi dell’Estremo oriente in competizione non più con le centrali della Triade (Usa e Canada, Giappone, Unione europea), ma con, ad esempio, l’Est e l’America Latina, che potrebbero venire investite dalla crisi nel senso di una perdita di competitività. Le conseguenze sociali cominciamo a vederle: il drastico ridimensionamento dei livelli di vita, l'espulsione dei lavoratori immigrati (molti filippini e indonesiani vivono in paesi più ricchi), l'espulsione di lavoratori dalle fabbriche - la Toyota, ad esempio, a chiuso due fabbriche nei pressi di Bangkok per tutto l'anno. Sulla crisi, sulla possibilità di recupero di quei paesi pesano le incognite relative a una possibile crisi sociale. Ma due più grandi incognite sono quelle relative agli altri due giganti asiatici, la Cina e il Giappone (cfr box). Degli effetti forti della crisi su quei paesi avrebbero effetti sull'economia mondiale ben più forti della zampata di una tigre.
 
Bibliografia
Silvano Andriani, Il declino delle tigri asiatiche, Finesecolo, n. 2/3, 1997.
Giovanni Arrighi, Globalization, State sovereignity and the endless accumulation of capital, dattiloscritto, presentato alla conferenza State and sovereignity in the world economy, University of California, 21 febbraio 1997.
Cinquecento anni di globalizzazione, Rifondazione, 2, 1998
Frozen Miracle, A survey of East Asian economies, The Economist, 7 marzo 1998.
Sulle stesse tematiche (analisi dei processi e casi specifici) cfr. anche gli articoli di P.S.Golub, L.M.Wallach, F. Chesnais, I. Warde, F. Cayrac-Blanchard, J.F. Arnaud su Le Monde diplomatique di gennaio e febbraio 1998.

 
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