La crisi del Sudest asiatico può aiutarci a capire
le dinamiche della globalizzazione. Una rassegna delle ipotesi interpretativa.
I dragoni non fanno più fuoco e le tigri perdono
i denti: questo il refrain mediatico più battuto in questi mesi
da stampa e televisioni. Il continente asiatico sprofonda: ecco il messaggio
di pura superficie, che attesta in realtà la scarsa capacità
di lettura dei processi in corso a livello mondiale, da parte del sistema
dellinformazione. Il quale oscilla tra scoperte politico-sociali e scoperte,
più o meno, di folklore: da un lato, si accorge che in Corea del
Sud, in Indonesia, in Thailandia la crescita era ed è tutta drogata
dalla finanziarizzazione, o che, analogamente, quelli sono paesi poco democratici
e molto corrotti; dallaltro lato, non riesce a connettere la persistenza
del culto confuciano degli antenati confinato di solito nella rubrica
turistica con lo scoppio degli scioperi in Corea.
Una crisi senza precedenti
In realtà, la crisi asiatica è stata ed
è durissima: è la prima volta che la regione conosce tutta
insieme una fase di recessione e disordine come quella manifestatasi col
crollo delle borse. Aggiungiamo che il ciclone finanziario e le sue materialissime
conseguenze hanno investito un'area che negli ultimi trent'anni ha conosciuto
una crescita senza precedenti, più imponente di quella a cui ha
assistito l'Occidente negli ultimi centotrenta - che pure sono un periodo
di rivoluzione nella storia dell'umanità. E si deve ricordare che
coinvolti nella crisi sono sia paesi appena pervenuti al rango di dragoni
o tigri - la Malesia o l'Indonesia sia centri industriali e finanziari
di prima grandezza - Hong Kong, la Corea del Sud, undicesima potenza industriale
del mondo.
La regione asiatica ha vissuto la maggiore crescita mondiale
del Pil pro capite tra il 1965 e il 1996, con un aumento medio tra il '70
e gli anni 90 del 9,1 per cento in Cina, del 7,4 in Malesia, oltre l'8
in Corea del Sud, a Singapore e Taiwan, con il picco più basso in
Indonesia dove la crescita del Pil in questo quarto di secolo è
stata "solo" del 6,8 per cento (la media dei paesi ricchi nello stesso
periodo è del 2,7).
Oggi, qualcosa sta effettivamente mutando. Per
questi paesi le stime per il '97 e le previsioni per il biennio successivo
parlano di un drastico ridimensionamento che, per alcuni di loro,
è addirittura accompagnato dal segno meno - Indonesia, Corea e Thailandia
rispettivamente -5,2, -2,5 e -4 per cento per l'anno in corso. Solo per
il 1999 la crescita prevista torna ad essere sostenuta in alcuni paesi
- Taiwan, Cina e Singapore, già adesso meno colpiti - e piuttosto
bassa nei paesi più colpiti - Corea del Sud, Indonesia, Malesia,
Hong Kong. Comunque, in tutta l'area si prevede un ridimensionamento del
tasso di crescita.
Dal punto di vista finanziario la crisi è cominciata
il 2 luglio del 1997 quando il governo tailandese, allora guidato dal premier
Chavalit, decide di sganciare il bath dal dollaro. Da quel momento, le
valute di tutta l'area vanno perdendo tra il 20 e il 55 per cento - con
Singapore e Taiwan intorno al primo valore e poi, scendendo, Malesia, Filippine,
Thailandia e Corea del Sud. La moneta più colpita è la rupia
indonesiana, che nel momento peggiore è arrivata a perdere l'80
per cento rispetto al dollaro, mentre il dollaro di Hong Kong e lo yuan
cinese non hanno perso nulla. Le borse, nel frattempo, sono crollate anch'esse
perdendo tra il 20 per cento di Hong Kong e l'80 per cento indonesiano
con tutti gli altri maggiori mercati finanziari dell'area che hanno perso
tra il 40 e il 60 per cento. La somma andata perduta in questo periodo
è di circa seicento miliardi di dollari, che equivalgono ai due-quinti
dell'intero Prodotto interno lordo della regione.
La crisi asiatica secondo le centrali del pensiero unico
Per scoprire dove le banalità dei nostri mass-media
vengano pescate occorre cercare in quei giornali che più da vicino
parlano con il mondo che conta: i media frequentati da un pubblico globale
di investitori, osservatori, funzionari. Nel caso dell'Asia si possono
scorrere l'Economist, BusinessWeek o la Far Eeastern Economic Review oppure,
per capire come ci spiegano la crisi i massimi attori istituzionali del
neoliberismo, scrutare nei rapporti del Fondo monetario internazionale
(Fmi).
Ecco lanalisi di questi autorevoli analisti: il ciclone
asiatico è frutto di cattivo governo; troppi prestiti a breve termine
sono stati concessi dalle banche senza verificare la solvibilità
del cliente; cè stato un eccesso di speculazione in alcuni settori
(in particolar modo l'edilizia), nonché nell'importazione di beni
di consumo invece che di tecnologie e saperi; e cè stata una crescita
sproporzionata del mercato finanziario. Altri elementi sottolineati sono
la sopravvalutazione delle monete, la crescita del costo del lavoro e una
struttura istituzionle debole. Conclusione: la crisi è tutta interna
a quei paesi e alle loro cattive classi dirigenti, la cui frenesia di arricchirsi
in fretta ha portato a questo drammatico scivolone, il funzionamento del
mercato e le sue regole non c'entrano. Per riprendersi non c'è che
da seguire le ricette del Fmi.
E' chiaro che ciascuno degli elementi contenuto in questa
spiegazione è assolutamente reale: in quei paesi si è speculato,
ci si è indebitati per investire ma anche per comprarsi la macchina
e la classe politica è corrotta (in questi mesi sono saltati i premier
di Thailandia e Corea del Sud, la Banca centrale giapponese è stata
investita dagli scandali e di Suharto e dei suoi parenti ciascuno a potuto
leggere persino sui giornali italiani). Ma ciò che è paradossale
è che questo era tutto vero anche prima del luglio 1997 e che a
non vederlo erano esattamente gli stessi che oggi ci dicono che quello
asiatico non è un modello ma si tratta in realtà di paesi
molto diversi tra loro. Tanto più è strano che gli osservatori
attenti e le agenzie internazionali pubblicavano libri e rapporti di segno
completamente opposto. Negli ultimi anni le librerie economiche hanno riempito
i loro scaffali con testi dai titoli significativi come L'Asia che sorge
o Imparare dalle tigri asiatiche e la Banca mondiale, nel 1993, pubblicava
un rapporto dal titolo inequivocabile: Il miracolo del Sudest asiatico.
Dov'erano gli attenti osservatori, coloro che dettano le regole di comportamento
da seguire, che hanno i cordoni della borsa dei prestiti quando Suharto
faceva crescere il valore dei terreni e delle imprese dei suoi figli, nipoti,
generi, suocere e cognati?
Uno sguardo diverso sull'"asiatica"
Forse è possibile invece dare delle spiegazioni
diverse, che guardino più in profondità, leggano invece di
registrare delle disfunzioni e si interroghino sulle connessioni che esistono
tra la crisi asiatica e il funzionamento del mercato globale, della globalizzazione
triadica.
La prima osservazione che si può fare è
relativa all'eccesso di finanziarizzazione dei mercati, con scambi giornalieri
che sono passati dai 18 miliardi di dollari nel 1970 i circa 1500 attuali
- solo il 3 per cento di questi corrisponde a beni e servizi reali. L'eccesso
di finanziarizzazione è in sè elemento che può portare
a bolle speculative, dovute a un eccesso di aspettative e alla tendenza
alla sovraccumulazione che generano l'illusione di una crescita rapida
della ricchezza, che a sua volta produce un aumento dei consumi e della
domanda interna largamente falsato . Un esempio di questo può essere
l'accumularsi di automobili nei depositi tailandesi adesso che le banche
tendono a essere più attente nel far circolare denaro tra soggetti
poco affidabili. Meno denaro facile, meno auto comprate. In questo contesto
si inserisce l'Fmi, preoccupato di favorire gli investimenti e, quindi,
di non far perdere soldi agli investitori. Le ricette del Fondo creano
quindi l'idea che la speculazione a breve è qulcosa che paga, inducono
a riprovarci (Andriani).
Altra lettura è quella di Giovanni Arrighi (cfr.
l'articolo pubblicato su Rifondazione n.2, 1998). In questo caso il tentativo
è quello di leggere i fenomeni attraverso la lente della lunga durata,
che è l'approccio (molto banalizzato) del Fernand Braudel center
di Binghampton nello stato di New York. Secondo questa analisi la finanziarizzazione
dell'economia non è un fenomeno nuovo: essa viene da lontano e
la crisi asiatica è il segnale di uno spostamento dell'egemonia
economica mondiale verso l'Asia e segnatamente verso la Cina e la diaspora
cinese che controlla molte delle risorse di altri paesi asiatici. Le crisi,
secondo Arrighi, si manifestano sempre nei mercati finanziari emergenti
- così è stato nell'ultima grande crisi, quella del
1929, che pur cominciando a Wall street, ha segnato il passaggio dell'egemonia
dall'Inghilterra agli Stati uniti. Non c'è quindi contraddizione
tra crisi e nuova centralità asiatica.
Due appunti si possono fare a questa lettura (semplificata
in questo articolo e più problematica nella riflessione di Arrighi),
appunti che non ne contraddicono necessariamente l'esito ma lo complicano.
Il primo è relativo al peso della finanziarizzazione, difficilmente
paragonabile con quello avuto in altri periodi della storia; altro elemento
riguarda invece il controllo occidentale su una serie di strumenti di potere
quali quello politico militare e su tecnologie e processi di innovazione
e ricerca, che rende più difficile l'autonomizzarsi dell'Asia.
Altra lettura ancora è quella che vede nella crisi
uno strumento per ridimensionare il modello asiatico e ricondurre quei
paesi all'interno della dinamiche dela globalizzazione triadica, segnata
fortemente da valori occidentali. Sarà utile fare alcuni esempi
relativi al funzionamento delle economie asiatiche e a quello che sta succedendo
oggi.
Le forme di regolazione sociale dei paesi dell'Asia,
come è noto, divergono di molto sia dal modello europeo (il welfare
pubblico) che da quello statunitense, banalizzando molto possiamo dire
che si tratta di un modello sociale confuciano, centrato fortemente sul
gruppo - la famiglia, il gruppo industriale per cui si lavora. La coesione
familiare come strumento di welfare integrato al modello industriale e
il rapporto privilegiato del lavoratore col gruppo industriale sono, nei
paesi più ricchi dell'area (Giappone, Corea del Sud, Singapore,
Hong Kong), strumenti essenziali. Il lavoratore offre un livello di flessibilità
e di partecipazione elevato e il datore di lavoro offre in cambio lavoro
garantito, pensione, magari le case con affitti bassi.
Le economie dell'area non sono, non erano completamente
aperte, partecipavano al mercato mondiale ma, come è avvenuto in
tutti i paesi industrializzati tranne in Inghilterra, lo stato regola,
interviene, sovvenziona, controlla i flussi di investimenti esteri. In
Corea del Sud lo stato negoziava i termini di ciascun investimento multinazionale,
lo stesso cercano di fare tutti gli altri paesi - seppur con meno forza.
Terzo ed ultimo elemento da ricordare è la creazione
dell'area di libero scambio (Afta) all'interno dell'Asean (Association
of Southeast Asian Nations che comprende tutti i paesi del Sudest asiatico
meno la Cambogia), fortemente voluta e propagandata nei media asiatici
con più forza e capacità di creare motivazione che non la
nostra Unione monetaria.
Veniamo adesso al post crisi e cerchiamo di capire come
il comportamento degli investitori e i pacchetti imposti ai paesi dal Fmi
in cambio dei prestiti necessari (più di 100 milioni di dollari,
il più grande prestito elargito da queste istituzioni).
L'Fmi chiede a ciascun paese di liberalizzare gli investimenti,
di ridurre drasticamente l'intervento statale in economia, di lasciar affondare
le banche in crisi, di deregolamentare il mercato del lavoro. L'applicazione
di queste regole annulla il controllo statale sugli investimenti esteri,
apre spazi agli investitori stranieri nei mercati locali senza bisogno
di formare joint-ventures, trasforma la flessibilità del lavoro
in precariato - i famosi scioperi coreani dello scorso anno erano contro
un legge che facilitava il licenziamento, oggi sarà più difficile
opporvisi. Il modello di regolazione delle economie forti asiatiche rischia
di saltare. A questo si aggiunga che la forte svalutazione, il crollo delle
borse e il pressante bisogno di liquidità hanno abbassato i prezzi
e gli investitori più forti, stranieri o dell'area, stanno comprando
moltissimo e a basso prezzo. La Yamaichi securities giapponese ha venduto
30 sportelli locali alla banca d'affari Merrill Lynch, la Cepa di Hong
Kong, che costruisce centrali elettriche, è stata comprata dall'americana
Southern Co., il chaebol coreano Doosan ha venduto i suoi impianti di imbottigliamento
alla Coca-Cola. Ancora la General Motors spera di concludere un accordo
con la Daewoo o di comprare fabbriche (e operai, ma con nuovo rapporto
di lavoro) invece di doverle costruire, la Hong Kong Telecom ha comprato
un settore della First pacific.
Altra conseguenza della crisi è la battuta d'arresto
del processo di integrazione dell'Asean .
L'economia dell'Asia insomma si sta internazionalizzando
- saltano le barriere - e "razionalizzando" - i gruppi locali più
forti e legati all'economia internazionale concentrano risorse nelle loro
mani. Effetto della crisi potrà quindi essere quello di un rafforzamento
dell'economia di alcuni dei paesi, di una loro maggiore integrazione nel
mercato regolato secondo le regole occidentali imposte dal Fmi. La svalutazione
produce infatti maggiore competitività sul piano dei costi, mettendo
i paesi dellEstremo oriente in competizione non più con le centrali
della Triade (Usa e Canada, Giappone, Unione europea), ma con, ad esempio,
lEst e lAmerica Latina, che potrebbero venire investite dalla crisi nel
senso di una perdita di competitività. Le conseguenze sociali cominciamo
a vederle: il drastico ridimensionamento dei livelli di vita, l'espulsione
dei lavoratori immigrati (molti filippini e indonesiani vivono in paesi
più ricchi), l'espulsione di lavoratori dalle fabbriche - la Toyota,
ad esempio, a chiuso due fabbriche nei pressi di Bangkok per tutto l'anno.
Sulla crisi, sulla possibilità di recupero di quei paesi pesano
le incognite relative a una possibile crisi sociale. Ma due più
grandi incognite sono quelle relative agli altri due giganti asiatici,
la Cina e il Giappone (cfr box). Degli effetti forti della crisi su quei
paesi avrebbero effetti sull'economia mondiale ben più forti della
zampata di una tigre.
Bibliografia
Silvano Andriani, Il declino delle tigri asiatiche, Finesecolo,
n. 2/3, 1997.
Giovanni Arrighi, Globalization, State sovereignity and
the endless accumulation of capital, dattiloscritto, presentato alla conferenza
State and sovereignity in the world economy, University of California,
21 febbraio 1997.
Cinquecento anni di globalizzazione, Rifondazione, 2,
1998
Frozen Miracle, A survey of East Asian economies, The
Economist, 7 marzo 1998.
Sulle stesse tematiche (analisi dei processi e casi specifici)
cfr. anche gli articoli di P.S.Golub, L.M.Wallach, F. Chesnais, I. Warde,
F. Cayrac-Blanchard, J.F. Arnaud su Le Monde diplomatique di gennaio e
febbraio 1998.