Rifondazione mensile di politica e cultura 
Maggio 1998 

DOSSIER SESSANTOTTO

PENSARE IL '68 di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni

Quale eredità di quegli anni straordinari? La liberazione del lavoro. La centralità della trasformazione sociale. E soprattutto la cirtica radicale della modernizzazione capitalistica. Loro, in ogni caso, “ci hanno provato”.
 
Che cosa rimane del '68, di quel quinquennio di lotte di cui abbiamo fin qui discusso, ai giorni nostri? Ha un senso, prima di tutto, porsi il problema se resta qualche cosa , e che cos'è, e che possibilità ha di influire sulle giovani generazioni? Devo dire che l'attenzione delle giovanissime (non a caso) generazioni alle vicende '68 e di quegli anni ad esso prossimi è ancora molto alta, e non è vero che si tratti solo di un'esigenza di conoscenza storica in senso accademico. I giovanissimi s'interrogano - forse per curiosità, ma la curiosità è già una molla della conoscenza - cosa è stato il '68, vogliono sapere se e come ha influito sulla società di oggi e quindi che relazione può avere con il loro agire odierno.
Per introdurre allora il tema dell’eredità del '68 ricorro ancora ad una citazione del bel libro di Arrighi, Hopkins e Wallenstein, (Antisystemic Moviments). Questi autori affermano: "L’esplosione del ‘68 con le sue conseguenze può essere interpretata come un sintomo del fatto che il sistema si sta approssimando ai suoi limiti storici. Il movimento del ‘68 con i suoi successi e i suoi fallimenti è stato un preludio o meglio una prova di quello che sarà il futuro ".
Questa volta sono, a meno dell’ultima frase, completamente d’accordo. Anch’io credo il movimento che si originò nel '68 muove nella fase di maturità di un ciclo dello sviluppo capitalistico e con la sua esplosione ne anticipa la fine. Questo, secondo me, è una valutazione difficilmente confutabile. Proprio per questo risulta interessante continuare ad interrogare il sessantotto, precisamente perché un movimento di passaggio tra cicli storici diversi. Io sono meno fiducioso nell’idea che i giovanissimi siano oggi così curiosi ed interessati a sapere del ’68. O meglio, penso che si tratti di minoranze, dotate di un particolare interesse alla costruzione anche di un’identità generazionale e perciò molto interessati ad indagare nel recente passato quegli elementi di storia, delle generazioni precedenti, più in grado di fornire una rimotivazione.
Francamente mi pare che, non solo per la quantità del tempo che è trascorso, ma per i mutamenti che sono avvenuti nelle culture delle masse e per il cambiamento radicale della scena sociale, economica e politica - su cui ormai esiste una grandissima mole di letteratura analitica, il cui problema ancora aperto è quello di una sintesi interpretativa della nuova fase dello sviluppo capitalistico - la discontinuità di situazioni sociali e di tempi storici sia così forte da non rendere immediata né la domanda, né tantomeno la risposta concernente l'eredità del '68, se non per quel tanto di ricognizione della storia, che è sempre necessaria ai fini della definizione di una politica, non subalterna alla pura immediatezza.
Io penso che davvero oggi bisogna tornare ad alcune delle ispirazioni fondamentali del ‘68, insieme all’analisi critica delle sue manchevolezze, di fronte alle necessità di ridefinire una strategia della trasformazione per rispondere a questo processo di globalizzazione dell’economia capitalista, con le modificazioni radicali che essa comporta. Questa necessità non nasce soltanto dalla avanzata dei processi di ristrutturazione capitalistica, dall'imporsi del pensiero unico - secondo la felice definizione del direttore di Le Monde diplomatique, Ignacio Ramonet - che li accompagna, dalla preoccupazione che anche un intellettuale liberale come Ralph Dahrendorf, può nutrire sul rischio che il XXI secolo ci riservi soluzioni di tipo neoautoritario, ma anche dai nuovi processi di spoliazione, di nuova povertà e persino di imbarbarimento che questo processo di modernizzazione provoca. Questo, mi pare un primo rilevante punto di ricognizione. Il movimento del ‘68 - e mi pare che l'analisi che fin qui abbiamo condotto fornisca molti elementi a questa tesi - vede sormontare le attese verso i processi di modernizzazione, che pure comprende, da un’istanza critica e di cambiamento radicale dell’ordine delle cose esistente. La dominante della nascita del movimento e del suo dispiegarsi è l’istanza della trasformazione; tuttavia quest’istanza contiene in sé, come un residuo di ambiguità non risolta, quella della modernizzazione e come abbiamo visto, nel corso della sconfitta della prima, è quest’ultima a prendere il sopravvento.
Credo che, oggi, questa feconda ambivalenza che si è determinata nel periodo di crescita di quei movimenti, chiede invece un superamento, perché la modernizzazione che abbiamo di fronte è, diversamente dalla fase matura del ciclo fordista-keynesiano precedente, una modernizzazione senza modernità, quindi negativa e negatrice delle istanze di emancipazione e libertà. Il problema della trasformazione deve quindi sapersi contrapporre a questo processo di modernizzazione, deve mettersi in alternativa ad esso. Questo compito richiede un sovrappiù di progetto politico, di programma, di teoria per poter contribuire a riconnettere i fili di una trama progettuale lacerata dalla modernizzazione senza modernità.
Bisognerebbe quindi riprendere la ricerca del ‘68, e con essa i punti più alti della riflessione di tutti gli anni '60, dove si è interrotta, cioè assumendo in pieno la criticità radicale verso la società capitalistica e il bisogno di socialismo che tuttavia, non potendosi oggi affidare con la stessa facilità alla crescita dei movimenti, deve proporsi il problema della ricostruzione del soggetto stesso della trasformazione.
Ed è a questo punto che incontriamo la seconda lezione che ci deriva dal '68. In tutta questa nostra conversazione abbiamo cercato di dimostrare che il movimento degli studenti, non si indirizza versus la classe operaia, ma verso di essa.
Questo è un punto oggi che chiede di essere riproposto, anche se in termini tutt’affatto diversi. Infatti in questa nuova fase dello sviluppo capitalistico, permane e si ripropone rinnovata la centralità della questione del lavoro. Oggi però il lavoro è oscurato, negato, diviso, mentre allora era addirittura evidenziato nelle grandi costruzioni del fordismo, cioè le grandi fabbriche dei grandi conflitti, e nella composizione intrinseca della compagine operaia, in cui la figura dell’operaio comune, di serie, posto al centro del processo di accumulazione pareva l'inveramento, la materializzazione del lavoro astratto, secondo la definizione marxiana. Eppure è proprio sulla quantità e sulla qualità del lavoro esistente, sulla sua distribuzione, che si definisce questa nuova fase dello sviluppo capitalistico e persino, la più generale questione della civiltà.
Il problema quindi della riscoperta e del disvelamento di una occultata centralità del lavoro è un compito preliminare. Il suo occultamento è infatti funzionale alla ricostruzione del dominio di classe, proprio perché in questo modo i problemi che esso pone, a cominciare da quello della sua assenza, ovvero dalla disoccupazione, sono espulsi dalla politica. La riappropriazione della questione che, malamente, si può chiamare quella della liberazione del e dal lavoro come centro della politica è - io credo - un’eredità di quello straordinario quinquennio di lotte, tra '68 e il '72, da recuperare interamente. Perché quest’eredità torni a vivere bisogna tuttavia ristabilire una condizione che il ‘68 aveva invece come dato costante della realtà, ed è la ricostruzione dell’agire collettivo e del conflitto di lavoro, del protagonismo cioè delle nuove figure di lavoratori che si definiscono nel vivo di questo tormentatissimo processo di modernizzazione e globalizzazione capitalistiche. 
Arriviamo così a quella che possiamo definire come le terza grande lezione che ci proviene dal 68, che consiste nella ricerca di un nesso che il ‘68 non ha cercato, o ha potuto evitare di cercare, salvo infrangersi su questo problema irrisolto, cioè il rapporto tra riforma e rivoluzione, il rapporto tra le riforme sociali, quelle economiche e quelle dell’organizzazione della società, e la definizione di una via di superamento del capitalismo. Con il linguaggio e le situazioni concrete di oggi, il problema si traduce nella ricerca del rapporto tra la costruzione di un’alternativa alle politiche neoliberiste e il processo di trasformazione di una società capitalistica e di organizzazione di un nuovo modello sociale. Questo terzo elemento risulta oggi molto più drammaticamente presente che nel passato, perché il deficit di elaborazione di teoria politica non può essere colmato dal semplice affidamento al movimento, che invece nella fase matura dello sviluppo precedente e grazie soprattutto alla sua impetuosa crescita poté svolgere una sorta di funzione di supplenza alla povertà di teoria e di pratica politica, sebbene pagando per ciò un prezzo assai serio. Poiché oggi il problema forse più importante che abbiamo di fronte è quello della ricostruzione di un movimento politico di massa, questo nesso diventa assolutamente decisivo e fondante. Dopo la grande sconfitta della speranza di quegli anni, avevamo ben inteso, guardando i processi di modernizzazione in corso, che se da un lato le contraddizioni di questi ultimi chiedevano di riproporre il tema dell’attualità del socialismo, quindi di una trasformazione radicale, di una rivoluzione, dall’altro lato questo compito si scontrava contro una serie di immaturità soggettive. Ora, sulla base, dell’esperienza politica di questi anni dobbiamo constatare, che la stessa cosa vale per le riforme. Naturalmente l’ordine di grandezza è tutt'affatto diverso, ma il problema che viene proposto sul versante della rivoluzione, come su quello delle riforme, è essenzialmente lo stesso, cioè la ricostruzione del soggetto del cambiamento, della possibilità di espressione sociale e politica dei diversi soggetti che subiscono passivamente i processi di modernizzazione e di frantumazione sociale e l’individuazione delle forze e dei modi con cui è possibile riavviare un percorso di riaggregazione.
Questo compito è assolutamente inedito, in questo il ‘68 non ci può aiutare. Ma gli anni che vanno dal ‘68 al ‘72, e almeno fino alla prima metà del '73, continuano invece a fornire elementi importanti di riflessione che ci possono aiutare, non per risolvere questo nuovo problema, ma per ricostruire le trame di processi culturali e politici, di esperienze che costituiscono una sorta di armatura e di bagaglio con cui compiere questo cammino.
Insomma io penso che, come tutte le grandi esperienze che possono chiamarsi rivoluzionarie, il 1848, il 1917 e il 1968 si possono ripensare per costruire una cassetta degli attrezzi, che da sola non è certo sufficiente per portare a termine i nuovi compiti che la fase attuale ci impone, ma è comunque uno strumento fondamentale per poterci provare.
Cerchiamo di andare un attimo più a fondo su queste questioni che tu hai trattato. C’è un punto che costituisce indubbiamente un'eredità dal '68 studentesco come del '69 operaio ed è la rivolta antiburocratica, che si rivolge tanto contro le autorità costituite e le loro istituzioni, quanto, seppure con modi e intensità diversi, contro le associazioni preesistenti, le vecchie strutture e i modi di funzionamento del movimento sindacale, e - se non soprattutto - delle espressioni politiche e partitiche del movimento operato e della sinistra. Qui, secondo me, c'è qualcosa di più che un elemento di eredità da rivisitare, perché da lì parte una riflessione, certo non semplice e lineare, sulla possibilità di innovare anche la forma partito, la forma istituzione, la forma sindacale, cioè di creare un rapporto diverso tra il movimento e la sua rappresentanza. Questa mi pare una questione di grande valore, che forse merita un'analisi particolare.
Sono d’accordo, ma con una necessaria puntualizzazione. La rivolta antiburocratica è segnata da una duplice sollecitazione; e la prima è di nuovo la spinta anticapitalista. Questa rivolta antiburocratica infatti non è indifferenziata, ha dei connotati precisi che hanno una inequivoca valenza di classe e di schieramento sociale. L’elemento antiburocratico, se si vuol dire così, la critica al ceto dirigente separato è molto connessa ad un’idea egualitaria: non è cioè semplicemente la critica ad una forma tecnica e sociale della divisione del lavoro, ma invece risponde a un egualitarismo non banale, del tipo "siamo uguali perché tutti abbiamo la bocca sotto il naso", ma strettamente connesso alla volontà di spezzare la divisione dei saperi e delle competenze tipica del taylorismo. In qualche misura rappresenta anche il tentativo di andare oltre alla famosa formula leniniana della "cuoca che può diventare capo dello stato": insomma, l’idea è che la figura del capo dello stato e della cuoca possano mescolarsi e modificarsi entrambi.
La seconda spinta che anima e connota in maniera precisa la rivolta antiburocratica è una radicale critica alla delega, che quindi propone la partecipazione come uno degli elementi motivanti questo particolare rifiuto della burocrazia. Parlo proprio del rifiuto della delega nei confronti di chiunque, compreso il proprio delegato, espressione della cellula elementare e prioritaria di organizzazione sociale; tanto che la figura del delegato nasce insieme al diritto di revoca, permanente, da parte del gruppo dei lavoratori interessati.
 …Mentre tra gli studenti (se non per limitatissimi periodi e funzioni) il problema non si pone neppure e quando viene posto il movimento entra in crisi o prende la strada della frantumazione politica… 
L’idea prevalente è che quello sia il portavoce del gruppo, non il leader. Più in generale il rifiuto della delega significa negare alle organizzazioni la possibilità di agire senza mandato, è la contestazione alle forme della democrazia rappresentativa di potersi presuntuosamente pensare come compiutamente ed effettivamente rappresentative e democratiche, mostrando invece che una parte dell’essere sociale rimane sempre fuori dalla rappresentanza e, che, ciononostante, deve poter fare sentire la sua voce e far valere le sue ragioni.
In questo senso si tratta di un atteggiamento importante che vale la pena di recuperare, precisamente perché non è neutro socialmente, è invece l’espressione di una critica, in primo luogo, al carattere limitativo della democrazia rappresentativa, e in secondo luogo all’autonomia delle funzioni e del ruolo delle sue strutture e istituzioni, che invece vanno indagate criticamente alla luce del principio della partecipazione. Sono anche convinto che a costituire questa posizione non abbiano concorso solo le riflessioni su certi filoni del movimento operaio - penso, solo per fare degli esempi a Karl Korsch o a Rosa Luxemburg - ma anche culture liberali e libertarie di altri filoni non direttamente interni alla storia del movimento operaio.
Vorrei aggiungere un'ulteriore notazione sull'argomento. C’è in tutto questo anche una percezione precisa del limite della propria organizzazione. La critica antiburocratica investe anche le proprie organizzazioni, quelle sindacali in particolare, non perché fossero le peggiori, ma perché erano le più esposte. Qui si manifesta il recupero di una critica, che però era stata sostanzialmente minoritaria nella storia del movimento operaio, contro il dominio degli apparati, e si manifesta persino nei confronti della straordinaria storia in Italia del sindacato di classe e del Partito comunista, dove indubbiamente gli apparati hanno avuto un peso rilevantissimo, seppure non come realtà separata e spesso caratterizzata da molti sacrifici e da intensa passione politica. Questi ultimi sono stati sostanzialmente al riparo dalla critica, fintanto che la loro legittimazione era in larghissima misura derivata dall’esperienza della Resistenza, che forniva a quelle donne e quegli uomini d’apparato una autorevolezza praticamente indiscutibile, derivante dalla loro storia, dall’asperità dei tempi, dalle privazioni che erano connesse a quella figura, a quel ruolo, a quella pratica politica o sindacale, che comportavano spesso rinunce di carriera di gratificazione sociale, e persino di reddito. Ma quando questi elementi, diciamo così "eroici", in qualche modo si esauriscono e viene meno la legittimazione straordinaria della Resistenza e gli apparati entrano in similitudine con altre forme di burocrazia, anche per condizioni di vita, allora la critica antiburocratica pur restando minoritaria, prende una consistenza e si dispiega fortemente, trovando uno sbocco positivo precisamente in questo movimento di massa che poggia sulla partecipazione, perché in questo modo non solo si manifesta come consistente e diffusa opinione, ma fonda nuovi elementi di partecipazione e democrazia. 
Infine la rivolta antiburocratica ha a che fare a sua volta con un’altra eredità, quella gramsciana, cioè con l’opera di questo pensatore originale nella storia del movimento operaio, che, specie nel momento più acuto della sua riflessione, propone sempre, allo stato come al partito, di pensare al loro limite e di guardare più direttamente e più a fondo alla società civile, alla sua organizzazione come un elemento fondamentale di costruzione della democrazia e della civiltà.
 Vorrei fare un'ultima sortita. Alcuni, insistendo sul tema della riforma antiburocratica e antiautoritaria, stabiliscono un rapporto anche tra il ‘68 e l’89, cioè tra i movimenti del ‘68 e il crollo dei paesi del socialismo reale. Come sappiamo il ‘68 a pieno titolo è entrato nella storia dei paesi dell’est con la vicenda cecoslovacca e di questo abbiamo già parlato. Tuttavia la mia impressione è che vedere una continuità, o addirittura una rinascenza, del ‘68 nell’89 sia una forzatura, dal punto di vista storico e forse anche politico, nel senso che l’89 appare più come una rivoluzione passiva, come un crollo di sistema, non determinato da una soggettività cosciente, quanto da una deflagrazione di contraddizioni interne. Tu cosa ne pensi?
Penso che non si possa stabilire una relazione di quella natura tra questi diversissimi avvenimenti storici. Certamente non con quel segno. Semmai l’89 è la conseguenza estrema della sconfitta del ‘68 nelle forme che ha potuto prendere nei paesi dell’est, e che - secondo me - sono raffigurabili principalmente nella Primavera di Praga, cioè nel tentativo di proporre una riforma ai sistemi socialisti. La sconfitta di quell’ipotesi di riforma in realtà chiude l’ultima possibilità evolutiva di quei sistemi e prepara il peggio. Tanto è vero che anche laddove il crollo non si verifica, come in Cina, il fallimento dell'esperienza della Rivoluzione culturale che, quale che sia il giudizio critico che si vuole dare su di essa, conteneva indubbiamente uno sforzo generoso in senso antiburocratico, anche se diverso da quello della Primavera praghese, dà luogo ad una involuzione che porta a un regime che nega del tutto la sua natura originale rivoluzionaria.
Per questa ragione io penso che l’89 rappresenti la conclusione drammatica di una sconfitta e lo strangolamento dell’ultimo tentativo, che lì poteva essere dato, di riforma e di evoluzione di una società socialista.
In conclusione, se tu potessi e volessi, racchiudere in una sola frase, trent’anni dopo, il senso di quegli anni, di quelle intense e straordinarie lotte di studenti, di operai, di popolo, cosa diresti?
Ci hanno provato.

Queste sono le pagine conclusive del volume Pensare il ’68, di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni, di imminente pubblicazione per i tipi della Longanesi. Ringraziamo l’editore e gli autori per l’anticipazione. Il testo che qui pubblichiamo è una versione ancora non definitiva, che può cioè essere soggetta a ulteriori revisioni redazionali.

 
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