Rifondazione mensile di politica e cultura 
Maggio 1998 

LE PAROLE DELLA POLITICA

GLOBALIZZAZIONE di Marco Berlinguer

L’ideologia della globalizzazione. L’uso, ormai consolidato, del concetto di globalizzazione, come è stato più volte osservato, ha due effetti degni di nota: diffonde la convinzione che gli stati siano impotenti di fronte alle principali tendenze dello sviluppo economico e sociale, con la conseguenza di paralizzare le strategie nazionali di contrasto verso le politiche liberiste considerate incapaci di sopravvivere al giudizio e alla sanzione dei mercati internazionali; e persuade i lavoratori di tutto il mondo ad accettare, pena il trasferimento delle produzioni in altri paesi, l’attuale corsa al ribasso nelle proprie condizioni di vita e di lavoro. Da questo punto di vista la globalizzazione è, come è stato scritto, “un mito che priva di ogni speranza”. Gli antichi miti mascheravano e compensavano l’impotenza umana di fronte alla natura; il mito della globalizzazione razionalizza ed esagera l’apparente impotenza attuale rispetto alle attuali tendenze economiche e sociali. Ma la globalizzazione è un progetto, non una forza della natura. Realizzato con il determinante e costante ausilio dei poteri politici, degli Stati Uniti in primo luogo.

La globalizzazione come liberalizzazione dei mercati finanziari. L’assetto monetario internazionale attuale - anche qui per scelta politica, in primo luogo degli Stati Uniti - è fondato su monete puramente fiduciarie, cambi flessibili e libertà pressoché totale dei trasferimenti di capitale. L’allacciamento di tutte le monete a questo sistema finanziario internazionale in molti casi è stato coercitivamente imposto. Ma esso alletta anche perché apre l’accesso a riserve di capitali maggiori di quelle disponibili sul mercato interno. Gli stati in tal modo possono in un primo tempo accendere debiti maggiori e aumentare le spese, senza dover far conto soltanto sul risparmio interno e sulle tasse. In concreto, però, più gli stati si rendono finanziariamente dipendenti, più sono poi costretti a favorire senza riguardo i proprietari di capitale, come rapidamente hanno imparato i popoli del Terzo Mondo. I più grandi beneficiari di questa possibilità però sono stati proprio gli Usa, che si sono trasformati in tal modo nei più grandi debitori del mondo. Godendo però del privilegio di disporre di una moneta che è ancora oggi la valuta principale per gli scambi e per le riserve internazionali, essi hanno potuto drenare capitali e finanziare il deficit con moneta, senza pagare ciò con interessi punitivi eccessivi.
 

Globalizzazione finanziaria come americanizzazione. E’ proprio nel vantaggio relativo degli stati più potenti nella concorrenza per l’accesso ai capitali finanziari mondiali - anche la Germania ha finanziato in parte la riunificazione in questo modo - che risiede una delle ragioni dell’apparente impotenza delle autorità nei confronti della liberalizzazione dei movimenti di capitale. Ogni giorno, è vero, nel commercio delle valute vengono scambiate, a fini prevalentemente speculativi, cifre virtuali colossali (circa 1200 miliardi di dollari), di fronte alle quali le banche centrali si dichiarano impotenti. Ma non tutte le banche d’emissione sono uguali. Ancora oggi esiste piuttosto una gerarchia. In cima a tutti c’è la Federal Reserve statunitense; e appresso a essa ci sono la Bank of Japan e la Bundesbank, che dominano nelle rispettive aree di validità dello yen e del marco. Queste banche a volte agiscono di concerto, altre volte seguono strategie conflittuali nella latente guerra per la supremazia economico-finanziaria. Anche gli speculatori più audaci, comunque, non entrano praticamente mai in conflitto con la banca d’emissione più grande del mondo: la Fed statunitense. Anche perché la stragrande maggioranza dei global player attivi sul mercato finanziario è costituita da istituti americani; e questi, sia pure entro certi limiti, non hanno l’interesse, la volontà e la forza di opporsi agli obiettivi della Fed. Così spesso, come ha spiegato una volta, irritato, un alto esponente della Deutsche Bank, basta che la Fed faccia filtrare le proprie intenzioni: “al resto ci pensano i grandi investitori statunitensi che dopo un po’ sono già al corrente di tutto”. Naturalmente, è inutile dirlo, contemporaneamente gli investitori non fanno altro che i propri interessi. Anche perché le informazioni sono la merce più redditizia in questi mercati.
 

Globalizzazione come rivolta fiscale del capitale. Grazie alla liberalizzazione dei movimenti dei capitali i governi hanno perduto in parte considerevole la possibilità di tassare capitali e grandi patrimoni. Le roccaforti di questa rivolta del capitale nei confronti delle stati democratici sono state le piazze finanziarie off-shore - piazze finanziarie spesso del tutto virtuali, che promettono tasse basse o nulle sui depositi e segretezza sulla titolarità dei conti, anche quando le informazioni vengano richieste da autorità statali. In esse hanno trovato rifugio i patrimoni dei ricchi di tutto il mondo (e delle grandi organizzazioni criminali). Per l’insieme degli stati le perdite in termini di mancati introiti fiscali sono incalcolabili. Non solo. Gli stati poi devono gareggiare per contendersi questi stessi capitali, diventando così debitori degli stessi che frodano le tasse. Ogni proposta per intervenire su questi paradisi fiscali è stata fatta cadere, senza alcuna seria discussione. L’unico modo “lecito” lasciato agli stati per fermare questa fuga dal fisco è quello di ridurre le tasse su patrimoni e investimenti, rinunciare alla tassazione progressiva, spostare il carico fiscale sui salari e sui consumi, risparmiare nei servizi pubblici e nelle spese sociali. In una gara senza fine. Gli Stati Uniti sono stati i primi ad aver iniziato questa controrivoluzione fiscale; seguiti poi dagli altri governi. 

Globalizzazione come riorganizzazione produttiva. Il successo nel dopoguerra dell’organizzazione industriale giapponese è stato fondato principalmente sul contenimento dei costi, ottenuto grazie a una disciplina rigorosa del mercato del lavoro e al decentramento della produzione in un sistema di subappalti a catena. Dopo il 1970, quando il mercato del lavoro interno ha iniziato a dare segni di tensione, il Giappone ha cominciato a esportare questo sistema in tutti i paesi asiatici. Alla fine esso si è generalizzato in tutto il mondo. I più aggressivi sono diventati gli americani. Tra il 1979 e il 1995 43 milioni di americani hanno perduto il proprio posto di lavoro. Di posti di lavoro ne sono stati creati anche di più. In genere meno stabili e meno retribuiti. Ma quel che conta è la nuova organizzazione della produzione, a prova di scioperi, che è stata costruita nel frattempo, tramite l’innovazione tecnologica, il decentramento nelle campagne degli stati del sud, il ricorso a forme di lavoro a tempo determinato o formalmente esterno, la costituzione di una rete estesa di subfornitori, le delocalizzazioni in Messico e in altri paesi a basso costo del lavoro. Un esempio. All’inizio degli anni 90 la Caterpillar, colosso della costruzione di macchine edili, chiese agli operai americani una riduzione dei salari del 20 per cento e un prolungamento dell’orario di lavoro di due ore: i sindacati reagirono con una lotta durissima, picchetti e scioperi durati mesi interi. Ciononostante l’impresa riuscì ad aumentare la produzione. Oggi i lavoratori americani della Caterpillar lavorano all’occorrenza 12 ore al giorno, anche nei fine settimana e senza alcuna indennità per il lavoro straordinario. 

Globalizzazione o lotta di classe? Negli Stati Uniti dal 1973 il prodotto lordo pro capite è aumentato di un terzo. Negli stessi anni il salario orario dell’80 per cento dei lavoratori americani è sceso dell’11 per cento - e per il 33 per cento dei lavoratori meno qualificati di oltre il 25 per cento. Più di un quarto dei lavoratori attualmente riceve un salario inferiore alla soglia della povertà, definita dalle autorità. Che cosa è successo? Come il pollo di Trilussa, la ricchezza prodotta è andata tutta a beneficio del quinto più ricco: circa venti milioni di famiglie (più o meno quante sono le famiglie che detengono risparmi nella borsa). E ancora di più dell’1 per cento delle famiglie più ricco: circa 500 mila miliardari, che sono arrivati a possedere un terzo di tutto il patrimonio privato degli Usa. Come ha ammesso Eduard Luttwak: “ciò che i marxisti sostenevano cento anni fa, oggi è la realtà. I capitalisti diventano sempre più ricchi e la classe operaia impoverisce”. In termini ancora più chiari il concetto lo ha espresso Lester Thurow: “Si può senz’altro dire” ha scritto di recente “che in America i capitalisti hanno dichiarato la guerra di classe ai loro operai e l’hanno vinta”.

Esportazione del modello americano. Grazie al downsizing (rimpicciolimento), outsourcing (subappalto), reengeneering (riorganizzazione), le imprese statunitensi sono tornate in testa in molti settori. Gli Stati Uniti, invece, si sono trasformati in un paese dove i gruppi tedeschi e giapponesi trovano nelle condizioni di sfruttamento della forza lavoro una buona ragione per investirvi. Così adesso è il modello americano a venire esportato negli altri paesi più sviluppati dell’Asia e all’Europa. E per non sbagliare gli stessi metodi vengono applicati nei paesi a basso costo del lavoro, per evitare che i salari comincino a salire. Secondo un rapporto della Commissione europea del 1988 il mercato unico avrebbe dovuto produrre 6 milioni di posti lavoro in più e un’ulteriore crescita del 4,5 per cento. Ma, si sa, le profezie degli apologeti del mercato non si realizzano mai. Finora il “più grande progetto di deregolamentazione della storia economica” è costato 5 milioni di posti di lavoro nel settore privato. Ma come ha detto Heinrich Pierer, presidente della Siemens, “l’uragano deve ancora venire”. Nel complesso secondo stime verosimili qualcosa come 15 milioni di posti di lavoro a tempo pieno e ben retribuiti saranno interessati nei prossimi anni da processi di ristrutturazione nell’Unione europea.

Globalizzazione degli investimenti e disoccupazione. Nonostante a partire dal 1985 sia cresciuto in modo esponenziale l’ammontare degli investimenti diretti esteri delle principali imprese multinazionali, solo una parte della crescente disoccupazione può essere imputata a questo movimento, se esso viene inteso come diretto nei paesi a basso costo del lavoro. Ancora oggi, infatti, esso è, al contrario, in gran parte diretto verso gli stessi principali paesi industriali. Più importante è invece il fatto che a partire dagli anni 80 gli investimenti per fusioni e acquisizioni (e conseguenti razionalizzazioni) hanno avuto un’enorme espansione a scapito degli investimenti in nuove unità produttive. Solo nel 1996 nel mondo sono stati spesi più di 1000 miliardi di dollari (circa 3/4 del Pil italiano) in questo genere di investimenti, che non solo non creano un solo posto di lavoro, ma hanno sempre un saldo occupazionale negativo. Deregulation e privatizzazioni (anche queste in continuo aumento e anche queste determinate da precise scelte politiche) accompagnano questo processo. 

Globalizzazione o neomercantilismo? Nel processo che viene chiamato globalizzazione, schematizzando, si possono individuare tre polarità egemoniche in tensione conflittuale-cooperativa tra loro: gli Stati Uniti, l’Unione europea-germanica, il Giappone. Ciascuna di queste polarità ha una propria area primaria di espansione. La mappa degli investimenti diretti esteri e ancor più degli scambi commerciali, al di fuori di quelli intrecciati tra queste stesse aree, rivela chiaramente l’esistenza di rispettive zone d’influenza. Il Giappone, dopo il lungo periodo fatto di strettissimi rapporti con gli Stati Uniti, da tempo ha cominciato a volgersi verso l’Asia, diventata ormai per esso il più importante mercato d’esportazione e anche di investimento. La dissoluzione del blocco sovietico e la riunificazione tedesca hanno determinato la rinascita di un’area di influenza germanica nella Mitteleuropa, che si estende fin verso il Medio oriente. Gli Stati Uniti contrastano questa tendenza e sono i principali artefici dell’abbattimento di ogni barriera finanziaria o commerciale. Ma faticano - e faticheranno ancora di più se nascerà l’unificazione monetaria europea - a mantenere le proprie ambizioni di egemonia planetaria. E intanto hanno costruito nel Nafta una propria riserva, in primo luogo di lavoro a basso costo. 

Concorrenza o oligopoli? Uno dei presupposti teorici della liberalizzazione degli scambi sono i suoi “vantaggi” dimostrati sulla base di modelli che assumono mercati perfettamente concorrenziali. In realtà, liberalizzare il commercio significa sempre imporre gli interessi del più forte e storicamente ogni forma di industrializzazione dei paesi storicamente in ritardo (a partire da quella degli Stati Uniti nel secolo scorso, per finire alla più recente industrializzazione delle “tigri asiatiche”) è avvenuta al riparo della concorrenza dei paesi più forti. Ma c’è un altro aspetto che non viene mai preso in considerazione: il ruolo crescente che svolge negli scambi la produzione che fa capo alle imprese multinazionali. A esse è riconducibile oltre il 50 per cento delle esportazioni mondiali di beni e servizi. Il che, come ha scritto Graziani, rende difficile parlare di “autentica concorrenza”, visto che queste imprese agiscono per lo più in regimi di oligopolio (quando non di monopolio mascherato) e sono spesso legate tra loro da reti di cooperazione e alleanze.

Obsolescenza degli stati nazionali e della democrazia. “Un governo globale dell’economia affidato ai mercati - i quali già dettano legge, anche se non ancora in modo autonomo e palese, ma per la “benevola disattenzione” o l’“aperto favore” delle autorità dei paesi “che contano” - stenterà sempre più a conciliarsi con un governo nazionale della vita sociale, in quanto questo risulterà sempre meno dotato di sovranità monetaria e fiscale e, quindi, politica. Il processo muove dalla materia economica ma toccherà presto, come già accade con il taglio della rete di protezione sociale, ogni altro aspetto dei diritti di cittadinanza, cioè della convivenza civile... Se si valuta che le leggi di spesa e i bilanci pubblici vengono “votati” prima e dopo dai mercati, ci si può rendere conto che i parlamenti, nati per decidere e controllare le “spese del principe” e più recentemente la distribuzione dei redditi, non hanno più la libertà per farlo” (Paolo Savona, Osservazioni sulla fase del capitalismo, in A.A.V.V., Globalizzazione dei mercati e orizzonti del capitalismo, Laterza, 1997)

Contraddizioni. Imprese e governi di Stati Uniti, Europa, Giappone anno dopo anno sacrificano in nome della competitività una parte crescente della popolazione. Malgrado il loro indubbio successo politico, da venti anni a questa parte, queste politiche di austerità competitiva e di contesa per le quote di mercato sono lungi dall’essere in grado di affrontare in modo coerente ed efficace i problemi che si propongono di risolvere. Al contrario, come dicono Paul Hirst e Grahame Thompson, “una domanda complessiva in ristagno, la sottoutilizzazione delle risorse e l’eccesso di capacità produttiva, nonché l’incapacità a provvedere a una ripresa sostenuta, sono tutti aspetti che hanno caratterizzato questo periodo... Tutto ciò non può che suggerire la necessità di una più equilibrata ridistribuzione delle risorse mondiali e la generazione di una nuova domanda effettiva su scala mondiale al fine di promuovere un solido risanamento di lungo periodo nella Triade e di dare altresì una qualche speranza di ripresa sostenibile ai paesi del “Sud”, rimasti finora emarginati. A un eccesso di capacità produttiva nella Triade si contrappone un eccesso di domanda mai soddisfatta nel Sud. C’è bisogno di un qualche meccanismo (e della volontà politica) per provvedere a una ridistribuzione tra i due campi contrapposti”. Anche se ammettono “per come stanno andando le cose tutto ciò sembra improbabile”. 

Globalizzazione come sogno delle classi dominanti. Nel settembre del 1995 la fondazione di Michail Gorbaciov, ha riunito a San Francisco una rappresentanza dell’élite mondiale - 500 politici, dirigenti dell’economia e accademici - per discutere della “nuova civiltà” del XXI secolo. L’esito si può riassumere in una coppia di numeri e in una parola: 20/80 e tittytainment. 20/80: ovvero il 20 per cento della forza lavoro mondiale sarà sufficiente a far funzionare l’economia. Questo è quanto hanno diagnosticato i manager. Il tittytainment, invece, ha a che fare con il restante 80 per cento, frustrato, inutile e immiserito. Il termine l’ha introdotto Zbigniew Brzezinski. E’ una crasi di entertainment - intrattenimento - e titis, che in slang americano vuol dire seno - e cioè alimentazione. In pratica, panem et circenses. La connessione tra i due mondi è demandata al vasto mondo dell’associazionismo e del volontariato, che “con una modesta retribuzione” dovrebbe promuovere “l’autostima di milioni di cittadini”.

Dittatura a responsabilità limitata. Le forme di regolazione politica e sociale, introdotte negli anni 30 al fine di “proteggere il capitalismo dalla sua logica autodistruttiva” e che hanno stabilizzato il capitalismo nel dopoguerra, vengono sempre più aggirate, svuotate e anche formalmente abrogate. La nuova fase del capitalismo si presenta così con il volto, un po’ posticcio e un po’ reale, della restaurazione delle condizioni prevalenti nel secolo scorso, nella fase del laissez-faire e precedente l’affermarsi dei sindacati e delle democrazie elette a suffragio universale. Si impongono così roboanti, quanto insincere, convinzioni anarchiche e antistatali. Destinate a dissolversi ogni volta che bisogna affrontare i disastri finanziari causati dalle stesse forze liberate dalla controrivoluzione liberista. Le crisi sono infatti competenza degli Stati e dei bilanci pubblici. Nel 1995 la crisi messicana richiese la più grande operazione di credito del dopoguerra (50 miliardi dollari). Solo il piano Marshall fu organizzato sulla base di una mobilitazione di risorse superiore. La stabilizzazione recente della crisi asiatica ha richiesto un intervento di entità pari a circa il doppio. 

La nuova alleanza tra stati e imprese. A partire dall’inizio degli anni 80 uno dei principali fattori di organizzazione della crescita e dello sviluppo è stata l’espansione progressiva degli investimenti diretti esteri delle imprese multinazionali. Le decisioni più importanti relative all’allocazione delle risorse e alle forme dello sviluppo sono state prese da queste imprese, in particolare dalle 100-200 più grandi, e dalle loro banche o istituzioni finanziarie finanziatrici. Ciò non vuol dire che gli stati non abbiano alcun ruolo. Al contrario. Le imprese richiedono in questo loro sforzo per imporsi livello globale il massimo sostegno diretto e indiretto ai “propri” stati. Esse richiedono: il finanziamento di infrastrutture, ricerca e formazione; incentivi fiscali mirati; accesso privilegiato ai mercati interni; assistenza finanziaria, commerciale, normativa nelle loro politiche internazionali e espansionistiche. 

Squilibri mondiali. Se per i lavoratori nei paesi industrializzati le cose decisamente non vanno bene, almeno per i popoli del Terzo mondo la globalizzazione apre una via d’uscita dalla povertà e dal sottosviluppo. Questo è il nuovo refrain delle classi dominanti, convertitesi a opere di bene. In realtà, è stato calcolato che circa i due terzi (tra il 57 e il 72 per cento) della popolazione mondiale riceve solo l’8,5 per cento degli investimenti diretti esteri (Ide); cioè sono virtualmente cancellati dalle carte storico-geografiche dello sviluppo. Rapporti simili si ottengono calcolando la partecipazione al commercio internazionale: i paesi della Triade più i dieci paesi in via di sviluppo più importanti in termini di Ide egemonizzano tra il 79 e l’84 per cento del totale degli scambi internazionali.

 
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