Rifondazione mensile di politica e cultura 
Giugno 1998 

VEDO ROSSO

L'INTELLETTUALE DI GOVERNO di Mario Tronti

Nessun pensiero nuovo può nascere nella prospettiva di un “paese normale”. Tra intellettualità e politica torna il tema della forza. E della “grande sinistra” da costruire.
Richiamare l’intellettualità alla politica: un compito urgente di difficile realizzazione. Ragioniamo sulla difficoltà di questa operazione. E’ cambiata la figura materiale dell’intellettuale, dentro l’ennesima rivoluzione avvenuta nelle forme del lavoro. E’ un paradosso del tardo-capitalismo: la produzione di merci immateriali diventa sempre più decisiva entro questa formazione economico-sociale così materialisticamente strutturata, nel funzionamento tecnico come nelle motivazioni ideologiche. Il lavoro intellettuale, sempre più formalmente autonomo, diventa sempre più formalmente autonomo, diventa sempre più realmente dipendente.: finalizzato alla produzione globale, al mercato mondiale, frantumato, parcellizzato, frantumato, alienato. Sapere e fare si sono ancor più ravvicinati e confusi, per via tecnologica certo, ma anche per via ideologica. Viene avanti questa figura nuova dell’intellettuale di governo: figura “bella”, di fronte a quella oggi maledetta dell’intellettuale di partito. Adesso l’engagement è nelle istituzioni. Ormai ti si chiede di stare non in un'élite politica, ma in uno staff tecnico. Fuori c’è solo lavoro intellettuale “impolitico”.
Io diffido di chi dice: questo non è uno stato di crisi ma una condizione di opportunità. E’ un pensiero rassicurante, un tranquillante per la fatica del concetto. So, per esperienza intellettuale, che il pensiero si muove – direbbe Marx – con gli stivali delle sette leghe solo dentro uno stato d’eccezione, nei conflitti, nelle contraddizioni, nei contrasti. Solo lì avanza, cerca e scopre. Si può star sicuri che nessun pensiero geniale scatterà mai nella prospettiva di andare a costruire un paese normale. Dal punto di vista della battaglia delle idee, nella cultura politica e nelle scienze sociali, non ricordo una fase più spenta di questa. E la fase va dagli anni Ottanta a oggi, con il processo della modernizzazione capitalistica, che ha visto la sinistra europea ridotta a una funzione subalterna. Fase non interrotta dall’accesso o dal ritorno delle sinistre al governo. L’89 sta qui dentro. Adesso sappiamo che non è stato un nuovo inizio, ma solo la fine di una cosa e basta. Dopo, solo ritorni indietro. Alla fine del Novecento io vedo un ritorno all'Ottocento. Riparliamo di questo nostro grande secolo, che abbiamo avuto la fortuna di attraversare. E’ cominciato nei bagliori delle avanguardie e si spegne nel grigiore del pensiero unico.
Il movimento operaio è stato l’ultimo grande soggetto storico dell’età moderna. Bisogna riprendere il discorso da qui. In questo secolo ha raggiunto il massimo delle vittorie e il massimo delle sconfitte. Il dramma di oggi, la tragedia, è che sembra non aver depositato eredità storica. E quello dell’eredità è un grande tema per ogni collettivo che aspiri a lasciare il segno sul corso delle vicende umane. E il movimento operaio aveva tutte le carte in regola per assolvere a questa funzione. Ma ecco: con la caduta di un esperimento politico si è lasciato che cadesse un’intera esperienza storica. Dietro questa deriva c’è qualcosa di più che l’insipienza di gruppi dirigenti inadatti proprio a dirigere i processi. C’è un errore di fondo della cultura di parte operaia: aver lasciato che il destino della classe operaia si chiudesse tutto dentro la formazione economico-sociale capitalistica. Gli operai dell’industria sono una classe materialisticamente concreta. Non sono stati un’invenzione di Marx. La divisione di lavoro materiale e lavoro intellettuale ha pesato politicamente in negativo sul destino operaio. Il lavoro intellettuale è stato incorporato, in senso tecnico, nella produzione innovativa di capitale, in senso ideologico, nella conservazione della società borghese. Si è impiantato storicamente un rapporto agonistico, conflittuale, tra lavoro operaio e lavoro intellettuale. L’esperimento sovietico, il tentativo di costruzione comunista del socialismo, è segnato e attraversato da questo conflitto. Il potere che si diceva operaio, come il partito che si diceva operaio, non hanno saputo esercitare egemonia sulla storia lunga degli uomini e delle donne, non hanno saputo conquistare a sé, piegandola ai propri bisogni, l’intera vicenda della civilizzazione e acculturazione moderne. Non hanno tentato troppo, ma troppo poco. Non per eccesso lontani dalla realtà, ma per eccesso troppo vicini.
Se guardo alla mia esperienza intellettuale, trovo un errore analogo. Un eccesso di vicinanza ha imprigionato il pensiero. Il tentativo di influenzare, così per l’immediato, la politica con la cultura, è stata una grande illusione. La politica va per suo conto, con le sue leggi, la sua logica, i suoi strumenti. Riprendere la distanza, recuperare i tratti eterni della storia, riconquistare l’arma della critica di tutto ciò che è: questo è il compito degli intellettuali partigiani, oggi. Libertà di pensare, più come criterio dell’onestà che come criterio della verità. L’onestà intellettuale può esserci per ognuno, ma la verità intellettuale per tutti non può esserci in una società divisa.
Qui c’è un punto di dissenso nell’analisi. Rifondazione parla di “intellettuale critico di massa”, come soggetto nuovo, portatore di radicalità e di nuovo sviluppo. Io vedo un fenomeno inverso: un senso comune intellettuale e di massa che in quanto tale avanza e conquista, una diffusa e diffusiva unità di senso comune e di coscienza intellettuale, che arrivano a parlare la stessa lingua, la buona lingua ragionevole che consiglia di far funzionare meglio l’unica forma sociale possibile, quella attuale, e magari dentro ricavarsi qualche favorevole nicchia di sopravvivenza. Ha stravinto il migliorismo, parola profetica a definire il riformismo di fine secolo. Rifondazione parla di “progetto”: è una parola in profonda crisi di senso. Il progetto presuppone un soggetto. Un grande progetto presuppone un grande soggetto.: qualcosa di cui non c’è traccia nella storia corrente. D’Alema ha parlato, qualche tempo fa, del paradosso degli anni 70: il Pci al massimo della forza che non è in grado di fare il governo. Ma c’è il paradosso degli anni 90: una sinistra che va al governo nel momento della sua massima debolezza. E non è in questione solo il consenso elettorale, ma qualcosa di più e di diverso: potenza di riferimento sociale, forza organizzata, militanza attiva, autonomia del progetto culturale.
La fragilità della sinistra di governo nell’Europa della globalizzazione contrasta, tra l’altro, qui si, con l’opportunità dei grandi problemi irrisolti. Le contraddizioni oggettive del capitalismo ci sono tutte, a livello globale-locale, mondiale-territoriale, e sociale-politico, tra lavoro che cambia e lavoro che manca. Assente, scomparsa, è la forza di una loro utilizzazione soggettiva. E’ questa che va in prima istanza ricostruita. Se di progetto si deve parlare, questa è la forma di progetto preliminare: saper(e)fare, prima ancora che il cambiamento, la forza del cambiamento. Senza un soggetto forte di trasformazione non si dà cambiamento. Due diverse opzioni della sinistra competono oggi sul terreno della modernizzazione: una politica di semplice innovazione e una politica di radicale trasformazione. A ognuna dovrebbe spettare un’idea di forza organizzata. Ma accade che questo compito fondamentale venga da una parte completamente rimosso, dall’altra insufficientemente affrontato. Io penso che oggi la sinistra tutta intera debba riprendere nelle sue mani il destino della modernità, presentandosi come unica forza di civilizzazione, dentro i molteplici segni di imbarbarimento del rapporto sociale umano che ci consegna l’ultimo capitalismo. Di qui, la necessità di riaprire il grande discorso di riorganizzazione delle forze, sia riformatrici che alternative.
Mi oriento, con disincanto, verso la convinzione che, consumate tutte queste parole falsamente nuove – centro-sinistra, sinistra-centro – e appassite tutte queste specie bucoliche – ulivi, querce, rose – si riproporrà, a fine transizione, nella risistemazione vera del quadro politico-istituzionale e dei rapporti di forza sociali, il tema della grande sinistra. A questo bisogna lavorare, raccogliendo consenso, spostando opinione, orientando idee, producendo e non gestendo massa critica di cultura, cioè ricostruendo soggettività politica autonoma ed egemone. Tra intellettuali e politici della sinistra, il nuovo incontro, proprio su questo snodo potrebbe e dovrebbe realizzarsi.
 
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