Rifondazione mensile di politica e cultura 
Giugno 1998 

L'INCHIESTA

LAVORARE NON BASTA PIU' di Alfonso Gianni

Anche in Italia arrivano i working poors. Una lettura dei dati più recenti evidenzia il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Per non parlare della disoccupazione e della marginalità.
di Alfonso Gianni
Negli ultimi mesi di quest'anno sono comparsi diversi studi sulla situazione sociale ed economica del paese, con particolare riguardo alle condizioni di vita delle classi lavoratrici e dei ceti più deboli. Si tratta di lavori di particolare rilievo, sia sotto il profilo analitico, che dei risultati di sintesi, che ci permettono di avere le idee più chiare sull'effettivo stato di salute del nostro paese, rovesciando, letteralmente, tutte le interpretazioni apologetiche della nostra condizione sociale. In sostanza, dalla lettura di questi dati, appare chiara e drammatica la contraddizione tra l'evoluzione favorevole degli indicatori che qualificano la situazione macroeconomica del paese, quella che gli ha permesso di non fallire l'appuntamento europeo dell'Euro, e le condizioni reali di vita della popolazione. La pubblicazione di questi studi dovrebbe dunque togliere ogni alibi, se vi fosse esatta corrispondenza tra consapevolezza della realtà e volontà politica, alle resistenze governative e della maggioranza che lo sorregge, ad imboccare con decisione una strada riformatrice, l'unica che possa garantire un effettivo consenso all'iniziativa governativa e allontanare in modo determinato le speranze di riscossa di una destra non doma e che confusamente cerca, per fortuna, finora con un nessun successo di ispirarsi ad esempi europei di organizzazione della insofferenza popolare alle condizioni di vita determinante delle scelte liberiste. Gli esiti delle recenti elezioni in Sassonia indicano che questo è un pericolo reale, e che addirittura si accresce, anziché diminuire, man mano che avanzano i processi di integrazione europea, almeno per quei paesi ove più netti sono gli squilibri sociali. Ma vi è di più. Al di là delle possibili strumentalizzazioni delle destre, includendo nel caso italiano la non trascurabile variante leghista, questa analisi dimostrano un pericoloso deteriorarsi della vita e dell'organizzazione civile del nostro paese, e tale quindi da costituire in sé un elemento di prima grandezza su cui intervenire in termini di politica economica e di riforma e rilancio del welfare state.
Lo spazio consentito impedisce un esame puntualmente comparato di tutti gli aspetti e di tutti gli interrogativi che queste ricerche sollevano. Dovrò quindi, scontando l'incompletezza, soffermarmi su alcuni, che ritengo maggiormente indicativi delle tendenze sociali in atto, concentrando ora l'attenzione sul dato più esplosivo, quello della diffusione della povertà.
La soglia di povertà
La Commissione di indagine sulla povertà e l'esclusione sociale, insediata presso la presidenza del consiglio dei Ministri, e presieduta da Pierre Carniti, aveva reso noto nel 1966 i risultati di un complesso lavoro di rilevazioni condotte lungo il quindicennio 1980-1995, che mettevano in luce, al di là della discussione, certamente non peregrina, sui metodi di calcolo della cosiddetta linea della povertà, un andamento di crescita del fenomeno che complessivamente, tra il 1980 e il 1994, portava l'incidenza delle famiglie povere sul totale da 8,3 per cento al 10,2 per cento. Vengono definite povere quelle famiglie, secondo l'International standard of poverty line, con due componenti con un consumo mensile uguale o inferiore al consumo medio nazionale mensile pro capite, utilizzando poi una scala che consente di rapportare tra loro consumi relativi a famiglie di diverse proporzioni. Così calcolata la linea di povertà, che nel 1980 era di lire 267.257, nel 1994 diventa di lire 1.094.296, nel 1995 di lire 1.143.355, nel 1996 di lire 1.190.274. Ma l'evoluzione del fenomeno non è stata lineare. Il punto di massima incidenza della povertà è intervenuta nel triennio '87-'89 (oscillano tra il 14,4 per cento e il 14,8 per cento ) per poi posizionarsi al di sopra del 10 per cento e comunque sempre con valori superiori al 1980. Va rilevato che quale che sia il metodo di calcolo che viene applicato pur variando ovviamente i valori assoluti che, con il metodo prima ricordato ci indicano l'esistenza nel 1995 di 2 milioni 128 mila famiglie povere, con un totale di 6 milioni 696 mila individui, il trend rimane lo stesso. La concentrazione territoriale delle famiglie povere è ovviamente molto maggiore nel Sud (il 68 per cento del totale nel 1995) rispetto al Centro (19,5 per cento) e al Nord (12,4 per cento). Nel corso del 1996, ultimo dato Istat di cui disponiamo - entro un quadro generale in cui le famiglie, nonostante la diminuzione dell'inflazione, non hanno visto crescere il loro potere d'acquisto, se non per un modestissimo 0,4 per cento - l'incidenza, della povertà sembra subire una lieve contrazione, passando da 10,6 per cento al 10,3 per cento, flessione confermata anche nel caso si consideri la situazione individuale, che passa dall'11,9 per cento all'11,6 per cento, anziché quella familiare. Ma questo lieve miglioramento non viene percepito come tale nella coscienza soggettiva della gente. Anzi, avviene esattamente il contrario. Infatti una ricerca considerata attendibile dallo stesso Istat, ci avverte che le percentuale di famiglie che ritengono la propria situazione economica peggiorata, rispetto all'anno prima, sale dal 34,9 per cento al 36,8 per cento, mentre coloro che considerano insufficienti le risorse economiche di cui dispongono aumentano in percentuale dal 4,1 per cento al 4,3 per cento.
Una valutazione ottimistica sull'andamento del fenomeno è quindi del tutto fuori luogo, non solo perché se si riscontra una relativa diminuzione al centro e al nord, la povertà continua a crescere nel sud, ponendosi come uno dei principali indicatori economici che stabiliscono il pesante differenziale di condizioni fra nord e sud del paese, ma perché un esame persino superficiale delle caratteristiche interne al fenomeno della povertà rivela specificità nuove e inquinanti. Mi riferisco all'affermarsi, con caratteri strutturali che escludono ogni valutazione sulla marginalità, del fenomeno dei "poveri che lavorano", che tende ad avvicinare il nostro sistema sociale a quello americano, in cui la presenza dei working poors in numero considerevole, è certamente di più antica data.
Infatti delle 2 milioni 128 mila povere stimate nel 1995, ben 995 mila, pari al 47 per cento, hanno al proprio interno almeno un occupato. Tra queste ultime sono considerate povere famiglie (per il 28 per cento) che possono contare anche due occupati. Il numero di occupati, poveri, individualmente considerati, è pari a 1 milioni 341 mila, cioè al 7 per cento del totale degli occupati. Di questi, come al solito, la maggior parte (988 mila) è situata nelle aree meridionali, ma anche il nord è esente da questo nuovo fenomeno, visto che lì lavorano 205 mila persone considerate povere.
Secondo i ricercatori della Fondazione Giacomo Brodolini che hanno realizzato per il Cnr un ampio studio in questo campo, i poveri che lavorano potrebbero essere catalogati in quattro gruppi.
Il primo è costituito dagli impiegati nei servizi e nelle pubblica amministrazione (il 19,04 per cento del totale, ovvero 148 mila famiglie) e si tratta ancora di un gruppo relativamente fortunato, poiché nell'80 per cento dei casi si situa appena al di sotto della linea di povertà, comprende famiglie (il 50 per cento) con due occupati, annovera diplomati (il 55 per cento) e persino laureati (il 10 per cento). Queste famiglie hanno la caratteristica prevalente di avere un capofamiglia di età relativamente giovane - tra i 30 e i 44 anni - il che in parte può spiegare il basso livello di reddito percepito.
Il secondo gruppo comprende un numero maggiore e più variegato di famiglie (il 36,6 per cento del totale pari a 281 mila famiglie) che sono vicine alla cosiddetta soglia di indigenza calcolabile in 915 mila mensili, ossia l'80 per cento della linea di povertà. Il capofamiglia occupato è, nel 57 per cento dei casi, superiore ai quarant'anni, ha nella metà dei casi, coniuge e due figli a carico, con un livello di istruzione che perlopiù (64 per cento) non va al di là della licenza media e la figura prevalente (54 per cento) è quella dell'operaio, ma compaiono anche i lavoratori autonomi (22 per cento). In questo gruppo cominciano a diventare consistenti (il 30 per cento delle famiglie) le condizioni di povertà estrema.
Quest'ultima è la condizione prevalente delle famiglie che compongono il terzo gruppo, che hanno un livello medio di consumi di 814.000 lire mensili (il 32,69 per cento del totale, pari a 247 mila famiglie). Si tratta in questo caso di famiglie numerose, con più di due figli (60 per cento), in cui solo il capofamiglia lavora (81 per cento), prevalentemente come operaio (78 per cento) ed ha più di 45 anni (43 per cento). In questo caso siamo inoltre di fronte a elevatissima concentrazione territoriale, poiché queste famiglie, nel 95 per cento dei casi, risiedono nell'Italia meridionale o insulare.
Nel quarto gruppo (il 13,11 per cento, cioè 102 mila famiglie) sono coinvolti nuclei familiari che hanno un livello medio di spesa di 943 mila lire e che quindi sono in una posizione intermedia tra la soglia di povertà e quella di indigenza. La ragione prevalente di questo stato sta nella condizione di non occupazione del capofamiglia (83 per cento) oppure di pensionamento (78 per cento), mentre gli occupati sono il coniuge o i figli. Anche qui si riscontra a livello di istruzione basso, poiché il 54 per cento è in possesso della sola licenza media, mentre il 24 per cento non ha conseguito alcun titolo di scolastico.
Chi sono i poveri?
Da questi dati e queste analisi, e dallo stesso interessante tentativo di accorpamento in gruppi per analogie di condizioni, condotto dai ricercatori della Fondazione Brodolini, emerge la rilevanza e l'acutezza del fenomeno, che quindi caratterizza qualitativamente la condizione di povertà nel nostro paese, e vengono evidenziati alcuni aspetti certamente non scontati e non consueti. Tra questi ultimi va notato lo sprofondamento nell'area di povertà ne di figure impiegatizie, sia della pubblica amministrazione, che dei servizi, nonché dei lavoratori autonomi, pur restando sempre più sfortunata la condizione dell'operaio e del pensionato. In quest'ultimo caso né il lavoro del coniuge né quello dei figli riesce a fare fuoriuscire la famiglia dall'area della povertà, e, spesso dell'indigenza.
Se la condizione di indigenza vera e propria, di povertà estrema, appare concentrata particolarmente nelle aree meridionali, il fenomeno dei poveri che lavorano in veste nel complesso il nostro paese. Quindi come la povertà smette di essere quasi esclusivo appannaggio della condizione di disoccupazione, così essa fuoriesce dalla condizione meridionale e diventa una questione nazionale, rompendo ogni interpretazione di pura marginalità sociale o territoriale.
Lo studio conferma anche l'incidenza dell'istruzione del capofamiglia nella condizione di vita dell'intero nucleo famigliare, ma le considerazioni fatte sulle figure impiegatizie, dimostrano che anche livelli di scolarità relativamente più avanzata sono attratti nell'area di povertà. Ovvero se la mancanza di istruzione è una predestinazione alla povertà, la presenza di un titolo di studio superiore nulla garantisce contro il rischio di precipitarvi. D'altro canto un'analisi sulla domanda di lavoro delle imprese italiane per il 1997 e per il 1998, condotta dall'Unioncamere e  dal Ministero lavoro, riportata nel 31° rapporto sulla situazione sociale del paese 1997 del Censis, evidenzia che il sistema produttivo italiano manifesta una domanda di lavoro elementare sostanzialmente dequalificata (sui 518 mila posti segnalati dalle 89.776 imprese intervistate, nel 61 per cento dei casi si richiede un livello di formazione non superiore alla qualifica professionale e di questi il 43 per cento non supera la licenza media).
Si conferma ancora una volta che le imprese, in presenza di una larga disoccupazione, cioè strutturale e di massa, come nel nostro caso, non hanno interesse a migliorare la qualità e la dignità del lavoro. Ma, specialmente in assenza di una spinta sindacale e miglioramento retributivo, lavori bassi e dequalificanti comportano salari e retribuzioni conseguenti, cioè insufficienti ad un sostentamento dignitoso. In questo modo si determina una circolo vizioso e perverso tra disoccupazione, precariato, dequalificazione del lavoro, sottosalario o comunque retribuzione insufficiente. 
In questa nuova situazione si accentuano, assumendo anche nuovi caratteri, gravi fenomeni di marginalizzazione sociale, specialmente nell'ambito urbano. Se nelle piccole città il territorio può ancora rappresentare, un elemento di aggregazione, specialmente sul piano simbolico, e su cui può continuare a fiorire una dimensione di vita sociale, ma anche sensi di appartenenza di tipo regressivo, come quelli di cui si avvale il fenomeno leghista, nelle grandi città è in corso una continua molecolarizzazione del sociale, come osserva con il suo immaginifico linguaggio il 31° rapporto Censis, con una "polverizzazione delle situazioni di marginalità", che danno vita a manifestazioni sociali non trascurabili, né sociologicamente, né culturalmente, né quindi politicamente, come ad esempio quella degli squatters, fenomeno peraltro non solo e non tanto italiano, che è anche connesso alle modalità di sfruttamento dello spazio fisico operato dai processi di modernizzazione capitalistica.
Cambia la questione sociale
In conclusione l'incidenza della povertà, e soprattutto le sue nuove caratteristiche, il suo massiccio ingresso nell'area del lavoro, la sua dimensione nazionale, si sommano quindi ai processi di marginalizzazione sociale e alla consistente e crescente disoccupazione (12,2 per cento nel 1997, secondo le stime riportate dal documento di programmazione economico-finanziaria, dopo che la Banca d'Italia aveva stimato in corso d'anno un 12,4 per cento), ma non si confondono con esse, tratteggiando in termini nuovi la questione sociale nel nostro paese.
E' difficile immaginario un epitaffio più definitivo per la cosiddetta politica dei redditi, ovvero di razionamento salariale, fondata sugli accordi triangolari, del luglio '92 e '93. Questi, come si legge nel ponderoso studio sull'andamento delle retribuzioni e del costo del lavoro a cura dell'Istituto per la Ricerca Sociale, hanno permesso il raggiungimento della convergenza delle dinamiche dei valori nominali delle retribuzioni verso quelle dei principali paesi europei; se i redditi da lavoro nel settore privato sono aumentati poco più che in altri paesi, tale aumento è stato compensato dall'assai più rilevante aumento della produttività, con la conseguenza che il costo del lavoro italiano per unità di prodotto ha registrato tra il '92 e il '95 un incremento inferiore a quello tedesco e francese. Così l'aumento della produttività si è riversato esclusivamente a favore dei profitti, con la conseguenza sociale di riaprire nel nostro paese un'enorme questione salariale e di delineare un aspetto nuovo della questione sociale, appunto l'ingresso della povertà nel mondo del lavoro.
Per fronteggiare questa situazione bisogna spezzare quel circolo perverso che l'ha prodotta, e quindi agire contemporaneamente su più fronti distinti, ma interdipendenti.
Sul fronte delle politiche attive per il lavoro, come afferma anche il vicedirettore della Banca d'Italia, introducendo un volume di ricerche del Servizio studi dell'Istituto di emissione, bisogna perseguire due finalità: più occupazione, ma anche occupazione migliore. Il che, però, dovrebbe significare farla finita con la logica della flessibilità estrema, e puntare invece con decisione ad una qualificazione del lavoro, sia dal punto di vista dei suoi contenuti professionali, che delle finalità stesse del medesimo, che da quello delle condizioni normative e fattuali della prestazione lavorativa e del rapporto di lavoro, in un'Italia in cui, secondo i dati Istat, nel 1996 il lavoro stimato come non regolare ( cioè principalmente quello che viene svolto con l'obiettivo dichiarato di evadere il fisco o di non rispettare le norme contributivo-assistenziali per ridurre i costi di produzione) costituisce il 22,3 per cento dell'occupazione complessiva, e in alcuni settori, come l'agricoltura, è addirittura nettamente maggioritario (73,4 per cento).
Sul fronte sindacale non può essere mancata né l'occasione storica della riduzione d'orario a 35 ore settimanali a parità di retribuzione, né l'urgenza, a partire dalla prossima tornata contrattuale, di una ripresa della lotta per aumenti retributivi.
Sul piano della difesa e della qualificazione del welfare state va impostata, in base a questi nuovi elementi della condizione sociale del paese, una politica specifica in direzione di queste nuove aree di povertà e di disoccupazione, prevedendo diritti e servizi certi e gratuiti, ed anche forme di sostegno al reddito per permettere la ricerca del lavoro senza l'assillo della sopravvivenza quotidiana, e non invece, come sembra si voglia fare con il sistema dei voucher dati alle imprese, con la solita logica di ridurre i costi per le aziende.
 
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