Rifondazione mensile di politica e cultura 
Aprile 1998 
DAL MONDO

MAI DIRE M.A.I. di Francesco Martone

I nuovi accordi discussi in gran segreto dai paesi dell'Ocse preparano la deregulation globale: facendo piazza pulita di ogni diritto, nazionale e internazionale, consegnano il pianeta nelle mani degli investimenti privati.
di Francesco Martone
"Ci avevano detto che se avessimo avuto la democrazia ci avrebbero dati i finanziamenti - ora abbiamo la democrazia ma non abbiamo visto un soldo. Ci era stato detto che se avessimo fatto aggiustamenti strutturali avremmo avuto finanziamenti. Abbiamo fatto gli aggiustamenti ma non abbiamo visto un soldo. Ci era stato detto che con la liberalizzazione degli scambi e le privatizzazioni sarebbero arrivati gli investimenti privati dall'estero; ma non ne abbiamo visti. Ora ci dite che con il Mai questi investimenti arriveranno. State solo cercando di imbrogliare l'Africa." Così Basoga Nsadhu, ministro delle Finanze ugandese, nel dicembre 1996. Ma cos’è il Mai, accordo del quale si parlerà pochissimo fino a quando non diventerà una specie di legge di natura? 
Le prime notizie sul negoziato a porte chiuse sono filtrate dall’Ocse solo nel febbraio 1997, quando venne svelato il testo di 147 pagine oggetto di discussione. Il fine ultimo dell'accordo è quello di rimuovere gran parte degli ostacoli ancora esistenti alla mobilità dei capitali e permettere così l'espansione degli Investimenti diretti esteri (Ide) a livello globale. L'accordo Mai (Multilateral Agreement on Investments - in italiano Ami - Accordo Multilaterale sugli Investimenti) nasce ufficialmente nelle stanze della sede parigina dell'Ocse (Oecd) nel 1995. La missione dei negoziatori è quella di scrivere le "ultime pagine della costituzione dell'economia globale", come ebbe a dire il direttore generale dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc/Wto), Renato Ruggiero.
Per cercare le origini del Mai dobbiamo tornare agli anni 60, quando i paesi membri dell'Ocse adottarono due codici di condotta vincolanti per favorire la liberalizzazione degli investimenti, difficili da applicare in assenza di un'autorità sovranazionale. Il Mai intende risolvere questa impasse introducendo una procedura per la risoluzione delle controversie. L'idea di un accordo multilaterale indipendente sugli investimenti privati ( i Foreign Direct Investments, Fdi) guadagnò consensi durante i negoziati Uruguay Round del Gatt, alla metà degli anni 80. Agli inizi degli anni 90 alcuni membri del Gatt - oggi Omc/Wto - sollecitarono l'adozione di un accordo sugli investimenti in quell'ambito. Tuttavia non venne raggiunto alcun consenso sui termini di riferimento per l'inizio dei negoziati, in particolare per l'opposizione dei Paesi in via di sviluppo (Pvs) e degli Usa. Oltre alla questione relativa al meccanismo di risoluzione delle controversie, gli Usa ritenevano l'Ocse una sede più sicura, nella quale discutere senza il rischio di interferenze dei Pvs. Ma l'accordo, negoziato in gran segreto dai soli paesi Ocse, riguarderebbe principalmente i Pvs visto che la maggior parte delle restrizioni agli investimenti privati è concentrata proprio nelle economie emergenti che fanno gola alle compagnie multinazionali: le tigri asiatiche, l'America Latina, l'Europa Centro-Orientale. Il Mai si propone di estendere agli investimenti la deregulation globale già attuata nel campo degli scambi commerciali con la conclusione dell'Uruguay Round.
Dopo l'abbassamento delle tariffe doganali stabilita dall'Uruguay Round/Gatt e i Piani di aggiustamento strutturale, imposti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, che davano prevalenza alla produzione di merci per l'esportazione, il Mai toglierebbe anche le ultime briciole di potere sovrano rimaste nelle mani dei governi. L'accordo, una volta concluso, sarà quindi il tassello finale del modello economico definito corporate globalization in virtù del quale vengono limitate le capacità degli Stati di subordinare le attività commerciali ed economiche alle proprie priorità di sviluppo. Per comprendere la portata e il significato politico di questo strumento bisognerà ripercorrere rapidamente la storia degli strumenti multilaterali di controllo delle attività delle multinazionali e degli investimenti diretti esteri.
Le norme internazionali 
Le multinazionali hanno beneficiato negli ultimi anni di un'espansione senza precedenti dei loro diritti e privilegi, che è andata di pari passo all'espansione delle loro attività e dei flussi finanziari. La loro ascesa è stata possibile grazie alla progressiva erosione del potere e delle possibilità di intervento dei governi e degli organismi rappresentativi, che ha toccato il suo apice con gli accordi Gatt, in particolare con le clausole Trips (Trade-related intellectual property rights).
-----I cosiddetti Trims (Trade related investment measures) permettevano ai governi di fissare le condizioni per trarre massimo profitto dalle attività delle multinazionali attraverso strumenti quali la partecipazione azionaria di cittadini o enti pubblici nelle joint-ventures oppure l'obbligo di assumere un certo numero di personale locale, ma la loro portata è stata notevolmente ridotta dal Gatt. Con i Trims qualche risultato si otteneva. In Messico, nella metà degli anni 70, il governo comunicò alle compagnie produttrici di automobili l'obbligo di garantire il cosiddetto local content (personale locale o materie prime o semilavorate provenienti da fabbriche locali) e l'impegno a raggiungere alcuni tetti di esportazione, pena l'espulsione dal paese. Lo stesso accadde con le imprese informatiche. Da quando i Trims sono diventati più difficili da imporre, sembra che l'unico ambito nel quale le multinazionali possano essere controllate sia rimasto quello internazionale. Già agli inizi degli anni 70 le Nazioni Unite istituirono la cosiddetta Commission on Transnational Corporations con lo scopo di studiare la possibilità di un codice di condotta per le multinazionali. Ma le discussioni si protrassero per anni prima di fallire miseramente nel maggio 1992. Da allora la Commission on International Investment and Transnational Corporation delle Nazioni unite ha concentrato la sua attenzione sulla priorità di creare un ambiente favorevole agli investimenti privati, alla liberalizzazione degli scambi commerciali e alla privatizzazione dei mercati. 
Gli effetti del Mai
Una volta messo in pratica, il Mai aprirebbe ogni settore economico e produttivo dei paesi firmatari agli investimenti esteri. Ogni restrizione all'accesso di capitali esteri in settori chiave per la sicurezza nazionale o per l'interesse collettivo verrà così eliminata tout court. Gli Stati dovranno garantire eguali incentivi fiscali ed esenzioni per le imprese nazionali e straniere. Si arriverebbe al divieto di chiedere alle multinazionali il rispetto di prerequisiti denominati "standard di performance" come l’utilizzo di manodopera e materie prime di provenienza locale o criteri ambientali più rigidi. In Venezuela la legge stabilisce che per imprese di 10 o più impiegati gli stranieri debbano rappresentare solo il 10 per cento della forza lavoro e il 20 per cento dei salari; il Cile limita l'esportazione di capitali verso la patria di origine per un anno; in Canada la maggioranza dei membri di un consiglio direttivo o di amministrazione deve essere, per legge, canadese. Il principio del national treatment del Mai e il divieto dei cosiddetti "standard di performance" porterebbero notevoli limitazioni alla facoltà degli Stati di adottare norme come queste o che prevedessero limiti all'espansione del controllo su risorse naturali, foreste, minerali.
Il Mai sembra proibire ogni programma locale, regionale o statale che preveda incentivi per imprese locali in quanto discriminatorio, indipendentemente dall’intento per cui questi vengono adottati (gli incentivi Ue per le regioni arretrate, ad esempio). Non potrebbero essere approvate leggi che prevedono limiti alla proprietà di quote azionarie in settori strategici o di utilità pubblica, o quelle relative ai limiti alla proprietà terriera o di risorse naturali per soggetti giuridici stranieri. Secondo il World Development Movement, il principio della "non discriminazione nazionale" intaccherà alla base la capacità dei Pvs di essere autosufficienti, impedendo loro ogni possibilità di assicurarsi un ritorno economico dagli investimenti privati. 
Le industrie dei Pvs incontrano enormi ostacoli ad affermarsi sul mercato globale: partono svantaggiate a causa della scarsezza delle infrastrutture e devono competere con colossi multinazionali in grado di produrre su vasta scala, abbattendo i costi di produzione. Il Mai, proibendo ogni politica volta a rafforzare le industrie nazionali, darebbe un colpo mortale alla presenza dei Pvs sul mercato globale rendendo impossibile la diversificazione delle attività produttive necessaria per svincolare le economie dalla dipendenza dall'esportazione di beni primari. Ma non basta. Molti paesi dispongono di una legislazione che limita la partecipazione azionaria in settori chiave per l'economia. Circa il 75 per cento degli Ide è rappresentato da acquisizioni, ovvero dall'acquisto di imprese locali da parte di multinazionali, che spesso fanno parte di una strategia di razionalizzazione il cui risultato finale è la perdita di posti di lavoro, la riduzione delle esportazioni e il trasferimento dei poteri decisionali al di fuori dei confini nazionali. Per questo paesi come il Kenya o l'Indonesia hanno proibito le acquisizioni totali, permettendo solo la creazione di joint ventures o l'acquisto di pacchetti di minoranza da parte di compagnie straniere. Ciò non sarebbe permesso dal Mai. 
Il Mai, inoltre, proibisce qualsiasi attività di governo volta a responsabilizzare le multinazionali. Nessuna pressione relativa al rispetto dei diritti dei lavoratori o alla tutela dell'ambiente sarà permessa, così come qualsiasi misura volta a regolare l'esportazione di capitali da parte degli investitori esteri verso il paese di appartenenza, al fine di prevenire speculazioni sui mercati di capitale. La conseguenza sarà una maggior instabilità nel sistema finanziario globale e un rafforzamento della volatilità dei mercati finanziari, con una limitazione degli scambi e degli investimenti in valuta nazionale. Ciò metterà a repentaglio non solo la sicurezza di una valuta o di un mercato azionario, ma di intere economie. La spinta alla maggiore mobilità del capitale porterà inoltre a una maggiore concorrenza tra nazioni e regioni e quindi all'accelerazione della "corsa verso il basso": chi sarà il più veloce a smantellare le reti di protezione sociali, ambientali e i diritti dei lavoratori avrà maggiori possibilità di successo. A ciò si aggiunge l'indebolimento dei poteri dello Stato nell'esigere tributi e imporre tasse sulla produzione o sulle attività delle multinazionali che operano sul territorio. 
Evasori globali
Nell'analisi del Third World Network sull'effetto dirompente del Mai viene sottolineato uno degli effetti più importanti: la maggiore difficoltà dei governi di controllare la loro bilancia di pagamenti e di adottare politiche volte a correggerne gli squilibri. I Pvs dovrebbero avere l'autorità necessaria per regolare l'afflusso e le modalità di espansione degli Ide al fine di condizionarli il più possibile alle proprie priorità di sviluppo, proteggendo così economia, equilibri sociali e la bilancia dei pagamenti che potrà essere rafforzata solo dall'effettiva facoltà dei governi di ridurre le importazioni di beni e servizi e di promuovere l'esportazione di prodotti di compagnie locali. La norma ormai consuetudinaria del transfer pricing verrebbe ulteriormente consolidata dal diritto delle imprese multinazionali di esportare fino al 100 per cento dei profitti, privando i governi locali delle entrate fiscali. Va ricordato infatti che le multinazionali contribuiscono allo sviluppo del paese nel quale operano anche pagando le tasse. Nel 1989 ad esempio, le consociate delle multinazionali americane in Guatemala fornirono il 16 per cento delle entrate del governo, e il 12 per cento in Perù, cifre comunque falsate dall'alto livello di evasione fiscale di quei paesi. In caso di fallimento di una compagnia, i paesi e i cittadini sarebbero poco protetti e, anche se non falliscono, possono emarginare compagnie meno efficienti e poi ritirarsi o ristrutturarsi, con gravi effetti sulle economie locali. Non esistono al momento clausole che prevedano obblighi per le multinazionali di garantire la tutela della salute pubblica, la conservazione delle risorse naturali o lo sviluppo economico locale.
Infine, secondo la "clausola della nazione più favorita", i governi non potranno più operare distinzioni o bloccare investimenti per motivazioni come il rispetto dei diritti umani. Paradossalmente la legge Helms-Burton cadrebbe, così come ogni divieto di esportare armi o tecnologie in paesi a rischio quali Iran, Iraq o Libia. In quest'ottica anche le sanzioni contro il Sudafrica, determinanti per la caduta del regime dell'apartheid, sarebbero oggi illegali. A differenza del Gatt, che prevede sanzioni commerciali se approvate dalle Nazioni Unite, il Mai non contiene alcuna eccezione che permetta restrizioni per scopi umanitari. 
Il diritto dei più forti
Un altro pilastro sul quale poggia il Mai è rappresentato dall'istituzione di una procedura blindata per garantire l'applicazione degli impegni da parte degli Stati. Verrebbe istituito un meccanismo vincolante per la risoluzione di dispute e controversie al quale potranno avere accesso le multinazionali e i governi dei paesi nei quali queste sono residenti. Se una multinazionale ritiene che la legislazione di un paese possa danneggiare i propri interessi, potrà citare in giudizio il governo di quel paese. Questa procedura non fornisce eguale accesso alla società civile o ai governi degli Stati che ritengano di essere stati danneggiati dai comportamenti delle multinazionali. Il sistema di risoluzione delle controversie dovrebbe emettere sentenze vincolanti per i governi e pene pecuniarie che potrebbero esporre Stati e governi a rischi finanziari ed economici dai quali sono ora tutelati grazie al principio dell'immunità sovrana nei sistemi giudiziari nazionali, riconosciuto dal diritto internazionale. Questa possibilità non era contemplata dal Wto che riconosce ancora il principio secondo il quale solo i governi nazionali possono godere di diritti derivanti dagli accordi internazionali ed è per questo che gli Usa si sono opposti strenuamente alla proposta Eu-Canada di includere il Mai nell'ambito del Wto: potrebbe comportare una limitazione al potere delle multinazionali di citare in giudizio gli Stati. Gli Usa infatti vorrebbero nel Mai la cosiddetta investor-to-state dispute resolution che permette a società private o a investitori privati di citare in giudizio paesi le cui leggi sono ritenute contrarie all'accordo. L'unico caso al mondo in cui ciò accade è nel Nafta (North America Free Trade Agreement), dove questa possibilità è contemplata solo in caso di presunta violazione delle norme ambientali. Da quando l'accordo è entrato in vigore, nel gennaio 1994, le multinazionali hanno usato più volte le procedure di risoluzione per attaccare la legislazione ambientale e sociale in Canada e Messico e parecchie volte i governi si sono piegati alle necessità delle multinazionali, rivedendo e ammorbidendo le loro leggi al fine di attrarre più capitali stranieri. Nel ‘95 il governo delle Filippine ha emendato la sua legislazione mineraria al fine di permettere agli investitori stranieri di possedere fino al 100 per cento di una miniera e di esportare totalmente i profitti. Nella Repubblica Dominicana il colosso australiano Bhp (Broken hills proprietary) ha formulato una serie di raccomandazioni al governo su come "aggiornare" le leggi minerarie e facilitare l'accesso di capitali esteri. Secondo le clausole previste cosiddette di standstill e rollback, ogni nuova legge che non è in conformità con il Mai sarà proibita e le leggi preesistenti dovranno essere ritirate. Inoltre, una volta firmato l'accordo, i paesi non potranno ritirarsi prima di cinque anni e le compagnie che decidono di investire nei paesi che hanno ratificato l'accordo potranno essere tutelate per quindici anni. Ciò significa che i governi, anche se decidessero di uscire dal Mai, potrebbero subirne le conseguenze per vent'anni.
I Pvs saranno comunque obbligati a firmare un patto-capestro nella speranza di poter accedere a nuovi investimenti. Infatti, malgrado gli Ide siano quintuplicati nel periodo 1985-1995, nel ‘95 solo 112 miliardi di dollari sono finiti nei Pvs, di questi circa l'80 per cento è andato a soli 12 paesi. I 48 paesi più poveri hanno avuto la fetta più piccola della torta: solo lo 0,5 per cento. Non è un caso quindi che alcuni Pvs ritengono che le politiche relative agli investimenti non debbano essere di competenza del Wto ma degli Stati nazionali e che ogni discussione sugli investimenti dovrebbe essere svolta nell'ambito dell'Unctad in modo da rendere possibile un'analisi più articolata della questione nel contesto dello sviluppo in quanto tale. E' chiaro che il punto chiave di tutto il negoziato riguarda la facoltà di controllo e di indirizzo degli Stati e dei governi sulle attività di entità, come le multinazionali, che per loro natura tendono a operare liberamente sul mercato globale. La grande sfida che si presenta ora ai Parlamenti e alla società civile dei paesi Ocse, e di quelli in via di sviluppo che cederanno al ricatto finanziario, è sostenere la necessità di un processo di discussione democratica sull'accordo. Solo ribadendo con forza il ruolo dei governi e degli organi democraticamente eletti a rappresentare l'interesse pubblico nell'economia globalizzata potranno essere difese le conquiste di decenni di campagne per la giustizia sociale e la tutela dell'ambiente. 
 
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