PARTITO DI MASSA
numero 30 - luglio 1999

LE NOSTRE RAGIONI AL DI LÀ DELLA SCONFITTA

Marco Berlinguer
E’ stato un risultato negativo quello conseguito dalle liste del Partito della Rifondazione comunista alle elezioni del 13 giugno. Un risultato omogeneamente negativo, con picchi preoccupanti nel Mezzogiorno. L’andamento più variegato nelle elezioni amministrative, se sollecita un’analisi differenziata, finisce, però, per far risaltare negativamente il dato sulle elezioni europee, che è un voto massimamente politico. 
Sulle ragioni di questo nostro arretramento, inatteso da tutti nelle sue dimensioni, il Partito ha avviato una riflessione che non sarà breve, sapendo che non esistono diagnosi semplici e risposte risolutive alle nostre difficoltà.
Al nostro risultato negativo ha certamente contribuito anche la recente scissione. Un po’ perché una parte del nostro elettorato, al di là degli errori di confusione dei simboli che ci sono stati, ha espresso il proprio voto per i Comunisti italiani; ma soprattutto perché quella vicenda, la divisione in sé e il modo in cui si è determinata ed è stata vissuta e patita da molti, ha intaccato quel tenue legame di fiducia che oggi lega ogni appartenenza politica e ha corroso, in un passaggio già in sé difficilissimo, la nostra credibilità come perno di aggregazione di una forza alternativa alla maggioranza di centro-sinistra. 
Comunque certamente una gran parte del nostro elettorato, anche di quello  politicizzato, ha scelto l’astensione, esprimendo un senso di impotenza e di protesta, oltre che di estraneazione e di distacco. Certo altri fattori hanno concorso a determinare questo orientamento/disorientamento: la deriva omologante e il degrado nel panorama politico, o lo scempio illegale della guerra. In un contesto diverso, tuttavia, una lacerazione simile alla nostra l’ha subita anche Izquierda Unida; e IU è l’unica altra forza della sinistra alternativa in Europa a subire un forte arretramento. Mentre un po’ ovunque le forze a sinistra delle socialdemocrazie accrescono i propri spazi.
In generale, in Italia, uno spirito di protesta e di scissione verso il sistema politico e di governo è ancora una volta segnalato dal risultato delle elezioni. Si tratta di un sentimento di rivolta variegato per motivazioni e per substrato e origine sociale, e poco o mal articolato politicamente e culturalmente. Più che un sintomo è l’espressione di uno stato, aperto da tempo, di crisi politica: che dice di una difficoltà strutturale di integrazione e di governo del paese.  
In questa frattura si aprono varchi per avventure e avventurieri, germogliano tentazioni autoritarie, ma si esprime comunque una crisi di egemonia delle classi dirigenti (nonostante il loro articolato e pervasivo apparato di governo e di controllo del consenso) e degli interessi dominanti, nazionali e sovranazionali, che ne sovraordinano le scelte. Noi, tuttavia, non riusciamo ad approfittarne.
Paghiamo certo anche il nostro isolamento, che complice la logica bipolare, ci fa percepire come marginali. Ma il comportamento delle socialdemocrazie, in occasione della guerra come nelle scelte di fondo di politica economica e sociale che vengono compiendo, sta confermando, purtroppo, e in modo drammatico, le nostre valutazioni all’epoca della rottura con il governo Prodi. L’Europa era allora a un bivio e in gioco vi era una scelta strategica. Le forze del centro-sinistra, rompendo con noi, hanno optato per l’anima liberale-liberista della socialdemocrazia, contribuendo prima a isolare il governo francese (che - timidamente quanto si vuole - indicava comunque una strada di superamento dell’architettura conservatrice e liberista di Maastricht) e poi a sconfiggere, con Lafontaine, la componente riformatrice della socialdemocrazia tedesca. 
Tutto questo, oggi, che ne paghiamo i costi, è ancor più chiaro. L’idea stessa di un’Europa autonoma e alternativa agli Stati Uniti, al loro modello e al loro disegno egemonico, ne esce quasi irrimediabilmente compromessa. Le socialdemocrazie al governo (con la sola eccezione della Francia) scontano un moto di disincanto e disillusione. Le politiche per lo sviluppo e l’occupazione restano vacue e ipocrite giaculatorie e, nella stagnazione, riprendono un po’ ovunque con forza le politiche di «austerità» e di attacco allo stato sociale. Mentre il pessimo risultato da loro conseguito alle elezioni dovrebbe far riflettere le socialdemocrazie sulle conseguenze di questa politica suicida, che aggredisce la base stessa del loro consenso.
In Italia, il governo non trova di meglio che compiacersi dei risultati segnalati dall’ultimo rapporto Istat sull’occupazione, che al contrario, denunciano uno stato di crisi profonda per il nostro Mezzogiorno, una crescita della precarietà nel lavoro, e mostrano gli effetti, nella riduzione dell’occupazione manufatturiera, della stagnazione e della caduta delle esportazioni.
La realtà è che l’Italia è imprigionata in una spirale di inviluppo economico, sociale e civile, più grave che altrove. Avrebbe massimamente interesse a rompere la camicia di forza del Patto di stabilità, che la sospinge in una posizione periferica e subordinata, disarticolandone ogni possibilità di organizzare uno sviluppo socialmente e territorialmente sostenibile. Sottomettendovisi, invece, si presta a fungere da ventre molle e da laboratorio, insieme alla Spagna e alla Gran Bretagna, della mutazione sociale che si vuole produrre nel capitalismo europeo. 
E’ in questo quadro che vanno inserite anche il comportamento del grande padronato nel recente rinnovo del contratto dei metalmeccanici e il modo e i contenuti seguiti da governo nell’approntamento del nuovo Dpef. Entrambi, in forme diverse, segnalano una chiara volontà di rompere gli attuali precari equilibri sociali.
La sconfitta di Rifondazione comunista non è estranea a questa nuova accelerazione. E questo dovrebbe far riflettere tutti. Non noi soltanto. Ma la sinistra Ds, che con la cooptazione di Salvi al governo, si appresta a coprire, ancora una volta, una nuova sterzata a destra del governo. E soprattutto i sindacati - e la Cgil in primo luogo - che, di nuovo, si trovano di fronte a un bivio: gestire con la concertazione questo nuovo arretramento sociale, o scendere finalmente in campo, come avrebbero dovuto fare da tempo,  per chiamare i lavoratori alla lotta per quella svolta nelle politiche economiche e sociali, per la quale ci lasciarono soli a combattere nell’autunno scorso.
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