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Direzione nazionale 9 ottobre 2025

Dino Greco

L'accordo, pressoché unanime, sul csd "Piano Trump" era motivato da una necessità assoluta, rispetto ad ogni altra prioritaria: fare cessare lo sterminio, che ha assunto i caratteri di un vero e proprio genocidio, nella striscia di Gaza. Resta da vedere se già questo primo punto della "road map" reggerà, visto che Israele, sempre sostenuta dagli Usa, non ha mai rispettato nulla che travalicasse la propria volontà. Il resto lo si vedrà a breve, ma è sin d'ora chiara la natura del progetto trumpiano: l'inveramento di un protettorato neocoloniale che con la pace e con i diritti di autodeterminazione del popolo palestinese non ha nulla a che fare. Con buona pace della "Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino" del dicembre 1948 che parve fondare i pilastri portanti di una nuova epoca e che ora i signori della guerra vogliono definitivamente affondare sotto un diluvio di bombe. Indispensabile, dunque, continuare la mobilitazione che su scala planetaria ha avuto sino ad oggi un peso fondamentale per conseguire il risultato che oggi nella striscia si festeggia.

La mobilitazione innescata e resa possibile dallo sciopero proclamato dall'Usb del 22 settembre ha avuto un carattere straordinario che ha prodotto, nel giro di poche ore, tre effetti rilevanti:

1) il colpo di frusta che ha attivato un cortocircuito dentro la Cgil, in clamoroso ritardo nel cogliere l'indignazione e la repulsione di massa, divenuta coscienza collettiva, del massacro di un intero popolo. E la decisione della Cgil di concordare e proclamare, per la prima volta nella nostra storia, uno sciopero insieme ai sindacati di base;

2) l'occupazione della Camera da parte della pur tremebonda opposizione parlamentare in segno di protesta contro il servilismo filoisraeliano del governo,

3) la richiesta formalizzata della messa in stato d'accusa, presso la Corte di Giustizia Internazionale, di Giorgia Meloni, dei ministri della Difesa, degli Esteri suoi sodali e dell'amministratore delegato di Leonardo per complicità in genocidio.

Lo sciopero del 3 ottobre ha visto scendere in campo una ancora più grande fetta di popolo, con una composizione interna particolare: una quantità enorme di giovani e fra essi di ragazze, che per quanto io riarrotoli il nastro della storia non avevo mai visto prima, se non, forse, nella mobilitazione che alla fine degli anni Sessanta e ai primi dei Settanta si era ribellata contro l'aggressione statunitense al Vietnam. Quella fu, una generazione "costituente", come si vide in seguito. Ci auguriamo tutti che anche questa, nata sotto le insegne della libertà per il popolo palestinese, possa divenirlo. Troppo presto dire se e come questo seme germoglierà, ma il fatto è indubbiamente di grande importanza e il nostro lavoro per favorire questo sviluppo, per immersione nel movimento, deve divenire sempre più forte.

Va però riconosciuto senza autocensure che gli scioperi, tanto quello del 22 settembre, quanto quello del 3 ottobre, hanno visto un'adesione molto limitata del lavoro dipendente, se si fa eccezione per i settori della scuola, dell'università e della ricerca e delle fabbriche dove la presenza del sindacato si è caratterizzata per una storica combattività. E ancora più esigua è stata la presenza degli operai nei cortei: mobilitazione e lotta di popolo, dunque, senza classe operaia in campo, segno inequivocabile di un ritardo, di un'insufficienza - chiamiamola così, benevolmente - nell'organizzazione della lotta sociale, contrattuale. Lì c'è uno terreno enorme di iniziativa da coprire. E questo interroga tutti noi e, in primo luogo, il sindacato.

Bisogna, tuttavia, venire in chiaro su un punto: abbiamo assistito e siamo stati parte di una profonda rivolta morale, che è pur essa un fatto politico e culturale, ma non siamo all'alba di una resurrezione politica di impronta radicale. Guai a prendere lucciole per lanterne e, soprattutto, ad immaginare che un movimento in larga parte spontaneo, unitario ed inclusivo, si sia magicamente trasformato nella potenziale base di massa di un progetto di trasformazione radicale della società italiana. E' per questo preoccupante che una parte di noi cavalchi questa illusione ottica, per rilanciare la riedizione di una coalizione politica già naufragata a causa della propensione escludente e divisiva di una sua parte, ma che di quel movimento plurale vorrebbe autonominarsi interprete e guida.

L'attacco violento e del tutto gratuito che questa sera ho nuovamente sentito nei confronti della segreteria del partito e – manco a dirlo – del segretario, accusati di avere lasciato il partito allo sbando, di non avere pensato nulla, di non avere fatto nulla, di non avere diretto alcunché, è una volta di più strumentale al rilancio di un defunto progetto politico: per gli orfani di Unione Popolare e dell'alleanza (o, addirittura, della fusione) con Pap, Rifondazione non perderebbe ruolo politico solo tornando a richiudersi dentro un recinto settario, dentro un fortilizio autoreferenziale a vocazione millenaristica.

Il diverso approccio alla partita delle elezioni regionali non è che lo specchio di un'opposta lettura dell'azione politica. Tutto diviene semplice per i cultori della purezza finalistica, ostile verso ogni manovra tattica: non parlare con nessuno, non accordarsi con nessuno: basta essere se stessi e attendere fiduciosi che gli sviluppi delle cose rendano chiare le nostre ragioni e le masse ci riconosceranno come loro interpreti.
Resta un piccolo problema: come si farebbe, da una "ridotta" di quel tipo, a generare il movimento di massa che solo può cacciare quello che ogni giorno di più si configura come un governo reazionario a trazione fascista? Come si farebbe a generare l'indispensabile movimento di massa contro la guerra e per una pace vera, che nulla ha a che fare con la corsa al riarmo, se l'Europa, e l'Italia con essa, resta succube della Nato e delle pulsioni guerrafondaie? Semplicemente non si potrebbe, e allora sì che il nostro ruolo e la nostra responsabilità verrebbero meno, travolti da un mulino di chiacchiere.

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