Direzione del 23 ottobre 2016

Per il sessantesimo anniversario dei fatti di Ungheria

Nel sessantesimo anniversario dell’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe dell’URSS e degli altri paesi del Patto di Varsavia rendiamo omaggio alla memoria delle vittime e a quei comunisti, come Imre Nagy e Gyorgy Lukacs, che tentarono di sviluppare un progetto socialista diverso dal modello che si era affermato durante il periodo staliniano.
L’invasione dell’Ungheria mostrò anche i limiti – oggettivi e soggettivi – del processo di destalinizzazione avviato dal XX Congresso del PCUS e ipotecò sul nascere le speranze riposte nello sviluppo di processi di auto-riforma.
Sessanta anni dopo si possono analizzare con la dovuta distanza storica le logiche geopolitiche e le motivazioni dell’intervento dell’URSS (divisione in blocchi, guerra fredda, crisi di Suez, memoria del sostegno ungherese a Hitler, ruolo di forze reazionarie e potenze occidentali, timori di delegittimazione della leadership kruscioviana) ma di certo l’aggressione a un paese sovrano non solo violò il principio di autodeterminazione dei popoli ma determinò anche una crisi profonda del movimento comunista facendo emergere la contraddizione insanabile tra un progetto di liberazione delle classi lavoratrici e forme autoritarie di governo.
La tragedia ungherese vide i carri armati dei paesi socialisti porre fine a un governo guidato da comunisti come accadrà successivamente anche in Cecoslovacchia.
Attribuire al comunismo – come fanno il revisionismo storico e le forze neoliberiste dominanti – la responsabilità dell’invasione dell’Ungheria significa in primo luogo offendere la memoria di quei comunisti che subirono le conseguenze di quell’intervento.
Siamo abituati da sempre a riflettere sulla vicenda storica del comunismo novecentesco senza alcuna remora nell’indagine critica e sulla base di un rifiuto dello stalinismo che per il nostro partito è elemento fondativo.
Proprio per questo rigettiamo la narrazione da “Libro nero” con cui si vuole ridurre a crimine e orrore l’intera storia del movimento comunista. Una visione storica che non a caso si accompagna alla rimozione dei crimini e degli orrori del colonialismo, dell’imperialismo, del capitalismo a cui si evita di attribuire la responsabilità nello scatenarsi di due guerre mondiali e di innumerevoli conflitti fino ai giorni nostri.
A smentire i sostenitori della riduzione-equazione del comunismo allo stalinismo vi è proprio l’esperienza di quello che più tardi Ingrao definì “indimenticabile 1956”.
Quella vicenda vide l’esplosione di una crisi nel movimento comunista internazionale che produsse ovunque esperienze di rifondazione e rilancio del carattere democratico e emancipativo del progetto socialista e comunista.
Il dramma che attraversò in tutto il mondo le coscienze di milioni di militanti comunisti e socialisti testimonia quanto fossero forti i valori di libertà nelle fila del movimento operaio.
La tragedia ungherese e la denuncia dei crimini di Stalin al XX Congresso suscitarono non l’abbandono della prospettiva del socialismo come accadrà nel 1989-1991 ma molteplici sviluppi creativi del marxismo e la ricerca di nuove vie per il socialismo fuori e anche dentro i partiti comunisti. Come scrisse Raniero Panzieri: “Il profondo rinnovamento culturale e pratico che si propone al comunismo non coincide perciò in nessun modo con l’abbandono del marxismo, ma si presenta anzi come ripresa critica di esso al di là delle cristallizzazioni e deformazioni dogmatiche dello stalinismo. Per il comunismo italiano in particolare si presenta come ripresa del pensiero di Gramsci, da restituire alla sua piena originalità oltre ogni ‘conciliazione’ con lo stalinismo. I capisaldi del marxismo come metodo di analisi e di azione riemergono in tutta la loro forza e validità”.
Se è vero che il PCI in quelle giornate drammatiche si schierò su posizioni di giustificazione dell’intervento va rimarcato che l’VIII Congresso si caratterizzò per la sottolineatura del carattere democratico della via italiana al socialismo e per l’archiviazione dell’idea di uno Stato – guida e di un partito-guida del movimento comunista.
In questo sessantesimo anniversario è doveroso ricordare il valore della presa di posizione apertamente contraria all’invasione di Giuseppe Di Vittorio e che l’allora segretario della Fgci Enrico Berlinguer si espresse nella riunione della direzione del partito contro l’intervento militare.
Rifondazione Comunista si riconosce nelle parole del comunicato della CGIL del 27 ottobre del 1956: “ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi di governo e di direzione politica ed economica antidemocratici, che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari. Il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico, sono possibili soltanto con il consenso e con la partecipazione attiva della classe operaia e delle masse popolari, garanzia della più ampia affermazione dei diritti di libertà, di democrazia e di indipendenza nazionale”.

La Direzione nazionale del Partito della Rifondazione Comunista
Roma, 23 ottobre 2016

Ordine del giorno proposto dal compagno Maurizio Acerbo

Approvato con un voto contrario e un astenuto



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