Direzione
del 20 settembre 2012
Documento respinto
Affrontiamo una fase decisiva per le sorti del Prc e della sua possibilità di incidere sulle sorti del conflitto di classe nel nostro paese. Le scelte che ci apprestiamo a compiere hanno pertanto un carattere di particolare rilevanza e chiamano tutto il partito a un dibattito che si ponga all’altezza della sfida.
Dobbiamo recuperare un anno perso nel tentativo di applicare la linea che, uscita maggioritaria dal nostro congresso di Napoli, ha dimostrato tutta la sua distanza dalle reali necessità. Il “fronte democratico” appare oggi come una proposta non solo subalterna al Pd, ma completamente al di fuori della realtà, così come la Fds ha giocato un ruolo profondamente negativo facendo ulteriormente arretrare il dibattito e impantanandolo nel gioco dei veti incrociati.
Rettificare queste posizioni attraverso un dibattito trasparente è un dovere del gruppo dirigente che, se assolto col giusto metodo della discussione politica, non farebbe che accrescere la sua credibilità e quella del partito.
A quasi un anno dall’insediamento del governo Monti il bilancio è inequivocabile. Il Pd è completamente fagocitato dalle politiche di austerità e dalla disciplina della “salvezza nazionale”. La maggioranza della Cgil ha gettato tutto il suo peso sul piatto per impedire qualsiasi sviluppo del conflitto sociale, con l’esito di regalare la cancellazione dell’art. 18 che per dieci anni era stato identificato a livello di massa come la trincea sulla quale non sarebbe stato permesso alcun passo indietro.
Questo arretramento non è una specificità italiana e ha cause profonde che in ultima analisi si ricollegano alla crisi insolubile del riformismo in un contesto di crisi generale del capitalismo quale è quella che attraversiamo. Il quadro internazionale infatti conferma questi sviluppi, il rapido allineamento di Hollande ai dettami dell’austerità ha fatto rapidamente giustizia delle speranze di una svolta a sinistra in Europa basata sul possibile ritorno al governo dei socialisti in Francia e, in ipotesi, in Germania.
Nonostante le difficoltà del contesto politico continuiamo a investire sullo sviluppo e la prospettiva del conflitto di classe; il processo di mobilitazioni e radicalizzazioni che continua a manifestarsi in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Gran Bretagna ci dice che i lavoratori e i giovani non intendono subire passivamente la distruzione delle conquiste sociali e di ogni prospettiva di un futuro dignitoso. Lo stesso accadrà nel nostro paese poiché sono identiche, se non peggiori, le contraddizioni generate dalla crisi economica.
La recessione che in Italia è particolarmente profonda prepara una nuova e più pesante ondata di ristrutturazioni e licenziamenti che sempre più difficilmente possono essere “gestiti” con gli ammortizzatori sociali. I casi di Alcoa, Ilva, Carbosulcis ci chiamano a una battaglia a tutto campo in favore della parola d’ordine della nazionalizzazione senza indennizzo delle aziende in crisi e della prospettiva del rilancio sotto il controllo dei lavoratori di produzioni vincolate ai bisogni sociali e ambientali. L’esplicito abbandono da parte di Marchionne del progetto “Fabbrica Italia” con il conseguente smascheramento sia dei sindacati “complici” che di tutto lo schieramento politico che invitava gli operai ad accettare lo scambio fra perdita dei diritti e peggiori condizioni per mantenere l’occupazione prepara le condizioni di una svolta nel conflitto all’interno del primo gruppo industriale del paese. Dobbiamo attrezzare il partito per una battaglia decisiva che nei prossimi mesi, se non settimane, potrebbe vedere momenti di precipitazione e radicalizzazione dello scontro.
A questa situazione non corrispondono in alcun modo le proposte dei gruppi dirigenti sindacali. La Cgil si appresta a gestire un autunno di mobilitazioni “a bassa intensità”, volte più ad aiutare il Pd a marcare una distanza d’immagine dal governo (distanza che a nessun costo Bersani è disposto a manifestare in parlamento, neppure su terreni secondari e ininfluenti); anche la Fiom vede un evidente arretramento nella sua battaglia per la riconquista del contratto nazionale, che di fatto viene accantonata in favore della strategia referendaria.
I referendum sull’articolo 18 e l’art. 8 nascono nel contesto di arretramento dei gruppi dirigenti sindacali. Il partito è impegnato ad appoggiare la raccolta di firme e a farne strumento per una campagna di massa attorno ai diritti dei lavoratori che indubbiamente può essere uno strumento utile per creare o allargare un clima di sostegno e di solidarietà attorno a quelle lotte che si sviluppano nei luoghi di lavoro, oltre che uno strumento di attivazione per un settore di attivisti della sinistra. Tuttavia abbiamo il dovere di non seminare illusioni sullo strumento referendario, soggetto a ogni sorta di manipolazioni e di distorsioni e comunque non risolutivo anche in caso di una evidente vittoria politica come è stata quella dei referendum sull’acqua pubblica, vincenti nell’urna ma del tutto influenti sul corso reale degli avvenimenti, come dimostrano le vicende successive.
Ancora più pericolosa l’idea che dal fronte referendario possa nascere un fronte politico in grado di dare al movimento operaio e alla sinistra quello strumento politico, partito o coalizione elettorale, capace di riempire il vuoto apertosi dopo la sconfitta del 2008.
Ad oggi non esiste, politicamente, alcun fronte referendario. La presenza di Sel è già una prima vistosa breccia nel presunto “fronte”, stante la decisione irrevocabile di quel partito di stabilire un’alleanza di governo precisamente coi responsabili dell’abolizione dell’art. 18. Ma anche il ruolo dell’Idv deve essere sottoposto a una critica rigorosa. Il tentativo di Di Pietro di condurre una campagna che con metodologia “peronista” tenta di inglobare settori degli apparati sindacali (in particolare della Fiom) all’interno del suo partito non solo non rafforza la classe, ma al contrario costituisce una seria minaccia a ogni tentativo di ricostruire nel nostro paese una sinistra basata sull’indipendenza di classe, tentando di mettere i lavoratori sotto l’ala di una forza populista che per storia passata e recente, per composizione e legami di classe, in nessun modo possiamo considerare interna al movimento operaio, neppure su basi riformiste.
La nostra campagna referendaria deve essere pertanto condotta sulla base di una completa autonomia politica e senza alcuna concessione a una forza quale è l’Idv che, come dimostra l’esperienza napoletana e ora anche palermitana, esercita una “attrazione fatale” su non pochi quadri della sinistra, anche nostri, che nella crisi di questi anni si sono sempre più allontanati dal riferimento di classe.
Peraltro lo stesso Di Pietro ha più volte chiarito di volere usare i referendum come leva per una ricomposizione del centrosinistra facendo “rinsavire” il Pd dalla sua linea di sostegno a Monti.
Battaglia sociale e battaglia politica sono quindi più che mai strettamente intrecciate; respingiamo la tesi secondo la quale siamo oggi di fronte alla priorità di costruire l’intervento sociale mentre solo successivamente si potranno definire le sue ricadute politiche e specificamente elettorali.
Questo argomento di apparente buon senso, che propone di attendere di sapere con quale legge elettorale andremo al voto prima di definire la nostra strategia, in realtà nasconde il tentativo disperato di non recidere il cordone ombelicale con una prospettiva di un nuovo centrosinistra (tesi Valentini, Patta, Salvi, ecc.) oppure di un centrosinistra in sedicesimi da costruirsi con l’Idv (tesi Ferrero).
La direzione assume quindi fin da ora il cardine della nostra strategia elettorale: la presentazione autonoma, in opposizione alla prospettiva di un nuovo centrosinistra comunque riverniciato, come strumento per contribuire alla costruzione di un polo di classe, anche sul terreno elettorale, che finalmente dia voce indipendente ai lavoratori, ai giovani, ai disoccupati, a tutti coloro che stanno pagando la crisi. La presentazione autonoma del Prc è ad oggi l’unica possibile manifestazione inequivocabile di questa nostra strategia. La disponibilità a discutere le forme di tale presentazione, ivi inclusa la questione del simbolo, è in campo solo se si creeranno le condizioni per un effettivo allargamento del fronte a soggetti reali (e non a gruppi immaginari privi di rappresentanza reale) possa metterci in connessione con processi più ampi di radicalizzazione e organizzazione.