Direzione
del 22 settembre 2008 – Documento approvato
Per
la pace ed il disarmo, per un'Europa autonoma e senza Nato
La recente guerra nel Caucaso, l'acutizzarsi delle tensioni in America
Latina, il progressivo e costante incremento delle spese per armamenti
su scala globale, impongono di rimettere al centro della riflessione
e dell'iniziativa del nostro partito, e del movimento contro la globalizzazione,
il tema della lotta per la pace e per il disarmo.
Ciò accade in un momento di evidente crisi della globalizzazione
capitalista, che lungi dal mantenere le sue promesse di pacificazione
e di fine della storia, ha visto negli anni recenti il riesplodere su
scala globale di tensioni di carattere etnico, religioso, fondamentalista,
sullo sfondo di una generalizzata crisi energetica, finanziaria e alimentare.
La progressiva deregolamentazione dei mercati, di liberismo a senso
unico, l'imponente e selvaggio processo di finanziarizzazione dell'economia,
insieme all' imposizione di politiche disastrose sul piano sociale e
ambientale, ci consegnano una situazione segnata da una incertezza ed
instabilità sempre più allarmanti, dal riarmo globale
e dalla guerra come strumento oramai ordinario nella regolazione delle
relazioni fra gli stati e della politica internazionale. La pretesa
di uniformare ad un unico pensiero e modello politico sociale del capitalismo
globalizzato, attraverso una governance fatta dagli organismi ademocratici
quali Fmi, Wto, Banca mondiale e G8, (e sul piano militare la Nato),
è fallita. Un caos invece del nuovo ordine mondiale. L'esplosione
della crisi dei mutui subprime e la crisi finanziaria che ha travolto
le grandi banche d'affari statunitensi, evidenziano l'insostenibilità
dell'ideologia e della pratica neoliberista, con il ritorno prepotente
degli stati come unico rimedio alla bancarotta. Paesi come Cina, India
e Brasile assumono un ruolo sempre più significativo nell'economia
mondiale, accentuando la tendenza al declino della supremazia di Usa
e Europa. La crisi in Georgia, il pantano iracheno e quello afgano,
(connesso alla destabilizzazione del Pakistan), dimostrano come il tentativo
di imporre, da parte degli Stati Uniti, un ordine fondato sulla propria
supremazia militare, sia lungi dall'essere realizzato. Al contrario,
ha prodotto proprio ciò che si voleva evitare, ovvero il ritorno
ad una politica di potenza della Russia, confermata anche dal recente
annuncio di imponenti investimenti militari. Una Russia che rimane al
di fuori del Wto.
La crisi in atto è il risultato di una politica di lungo periodo.
Gli Stati Uniti hanno cercato di assumere un vantaggio dalla condizione
di unica potenza globale seguito alla dissoluzione dell'Urss. In una
prima fase, attraverso la presidenza Clinton, con la teoria della guerra
umanitaria e il pieno coinvolgimento della Nato, in una seconda, dopo
l'undici settembre, attraverso la guerra al terrore e l'unilateralismo.
La guerra all'Iraq e la teoria della guerra preventiva sono stati gli
elementi caratterizzanti questa amministrazione. Washington e i think
tank repubblicani hanno teorizzato prima e messo in atto poi una politica
di potenza che garantisse agli Stati Uniti un "Nuovo secolo americano",
facendo leva sull'unica carta in loro mano, di fronte all'evidente crescita
di influenza di altri attori globali, quali Cina, India, Brasile e America
latina, come anche Unione Europea e Russia., e così rispondere
al declino della potenza economica e finanziaria. Il controllo di aree
strategiche per l'approvvigionamento di risorse energetiche è
uno dei terreni su cui si gioca la sfida. A questo obiettivo è
legato il progetto di allargamento della Nato ad Est, verso i paesi
una volta del patto di Varsavia, e l'installazione dello scudo missilistico
in Polonia e Repubblica Ceca.
Da questa politica deriva una corsa al riarmo senza precedenti, con
cifre che superano quelle della Guerra fredda, ed una corsa generalizzata
al nucleare come unica via per poter avere un potere di deterrenza tale
da garantirsi un'autonomia dall'arbitrio della forza diventato oramai
unica legge nelle relazioni internazionali. Una politica dei due pesi
e delle due misure portata avanti con arroganza, ha condotto al progressivo
indebolimento delle Nazioni Unite, sempre più umiliate e messe
da parte. Agli alleati della potenza nordamericana è permesso
violare il diritto internazionale, altrimenti no. E' il caso della Turchia,
che ancora in questi giorni conduce un'offensiva contro i Kurdi in territorio
irakeno, o alla decennale occupazione da parte israeliana della Palestina.
L'ultima occasione è stato il riconoscimento unilaterale del
Kosovo. Se è vero che con Bush l'offensiva neo cons ha tentato
un salto di qualità, pur fallendo clamorosamente, è però
azzardato pensare che basti un cambio di guardia alla Casa Bianca a
modificare una strategia che converge nel perseguimento della supremazia
statunitense. Basti pensare che consigliere di Barak Obama è
Zbigniew Brzezinski, il quale teorizza che il compito degli Stati Uniti
è di controllo della zona euro asiatica come garanzia di mantenimento
dell'egemonia nordamericana. Posizione confermata da Joe Biden a Denver,
nella convention democratica. Il problema è che, per i democratici,
Bush non ha sbagliato a fare le guerre, ma quali guerre fare, distogliendo
gli states da obiettivi ben più importanti al fine di garantirne
la supremazia.
E' evidente come quindi la vicenda della guerra del Caucaso rientri
in un contesto molto più complesso, e di come la prova di forza
data dalla Russia segni l'apertura di una nuova fase.
Per il nostro Partito e per il movimento per la pace non si tratta di
schierarsi con una grande potenza contro un'altra. Di riproporre riflessi
condizionati da guerra fredda, ma di capire ciò che è
accaduto e ciò che ha portato a questa nuova situazione. La politica
del fatto compiuto, di modifica con la forza dei confini e degli stati,
è sbagliata. Allo stesso tempo però, nello specifico della
crisi russo-georgiana, vanno respinti i tentativi di capovolgimento
delle responsabilità e di individuazione nella Russia dell'unico
colpevole, accreditando una caricatura da guerra fredda degli avvenimenti
che soprattutto i media occidentali hanno proposto. La responsabilità
della grave crisi che si è aperta il 7 e l'8 agosto fra Georgia
e Russia, pesa in modo evidente sull'avventurismo del Presidente georgiano,
sul suo maldestro tentativo di risolvere attraverso un'aggressione ed
un colpo di mano la questione osseta, e sull'appoggio degli Stati Uniti,
e alla quale la Russia ha risposto. Mikhail Shaakasvili, dopo essere
stato riconfermato attraverso elezioni di dubbia regolarità,
aver represso con la forza le manifestazioni di dissenso, imbavagliato
la stampa e l'opposizione, ha puntato tutto sulla carta del sentimento
antirusso e nazionalista, sulla fedeltà agli Usa e sulla richiesta
di adesione alla Nato.
Una fedeltà ben ripagata, visto che la Georgia è il paese
che dopo Israele riceve più aiuti da parte degli Stati Uniti,
aiuti che sono in gran parte finiti nell'opera di riorganizzazione del
proprio esercito.
La Russia di Putin non è più il paese in balìa
dell'Occidente che è stato durante il periodo di Boris Eltzin.
In questi anni ha riconquistato, grazie al controllo sulle risorse energetiche,
capacità di avere un'autonomia finanziaria ed economica dopo
il collasso dell'Urss, che le consente di aspirare a giocare quantomeno
un ruolo da potenza regionale, e di dare un chiaro segnale all'accerchiamento
che la Nato e gli Usa hanno prodotto negli anni recenti. L'attacco preventivo
dell'esercito georgiano all'Ossezia del Sud, insieme all'insensato riconoscimento
dell'indipendenza kosovara, hanno dato a Medvenev e Putin questa possibilità,
dopo che per 16 anni si era mantenuta una situazione di stallo monitorata
dall'Osce.
Anche Putin fonda il suo consenso su rinnovati sentimenti di orgoglio
nazionale. Anche se le condizioni materiali non danno segni di controtendenza,
con un paese dove il sistema sanitario e sociale è al collasso,
il popolo russo, frustrato dalla perdita di status e dalla rapina seguita
alla dissoluzione dell'Urss, trova nelle parole di Putin e Medvenev
un ancoraggio, un elemento su cui ricostruire un'identità perduta,
su cui far affidamento per sperare di recuperare la sicurezza di un
tempo, nonostante il regime assuma sempre più un carattere dirigista.
Ma appunto, non è la guerra fredda, con il suo carattere ideologico,
di scontro fra blocchi, sistemi politici e sociali, ma ragion di stato,
sfere di influenza, geopolitica dei confini.
Le
conseguenze per l'Europa
Il dramma della guerra georgiana, oltre nelle vittime civili, che come
sempre nelle guerre contemporanee sono quelle a pagare il prezzo più
alto, è che preannuncia una nuova stagione di riarmo e di politica
di potenza. Dove a dettare i tempi e le regole della politica internazionale
sarà esclusivamente la potenza militare, e dove l'Europa politica
rischia di essere sempre più ininfluente di fronte alla super
potenza militare statunitense. L'aver subìto ed essere stata
in alcuni casi complice, prima dell'invasione dell'Iraq e del progetto
di Grande Medio Oriente, poi dell'indipendenza unilaterale del Kosovo
(e della distruzione dell'ex Jugoslavia), ed infine l'istallazione dei
missili in Polonia, sono le tappe della abdicazione dell'Europa ad agire
come attore indipendente sul nuovo scenario globale, forza di mediazione
per la costruzione di un ordine multipolare. In questa crisi sono però
emersi elementi di autonomia, oltre ad evidenti posizioni discordanti
fra "vecchia" e "nuova" Europa, con stati come la
Germania ad esempio ben attenti a voler evitare uno scontro frontale
con la Russia. Sono i segnali di una divisione dovuta ad interessi divergenti
con l'alleato statunitense, specialmente in campo energetico. Interessi
che confliggono con una dipendenza atlantica preponderante. D'altronde,
i tempi e i modi dell'allargamento ad Est dell'Unione, costruito su
precarie basi politiche, sono stati quelli dettati dall'adesione alla
Nato come precondizione per aspirare ad essere membri dell'Ue. E con
i Nuovi stati europei che, come dimostra la vicenda del sistema missilistico,
si sentono alleati in primis degli Usa che parte di un'Europa vista
più come fonte di risorse economiche e di sussidi che come scelta
strategica. Questa subalternità è stata scritta a chiare
lettere in quello che prima era il trattato costituzionale europeo,
oggi di Lisbona. Invece che proporre e proporsi come alternativa ad
una logica perversa e assurda, quale quella del riarmo e di una nuova
stagione di tensioni, proponendo un'agenda internazionale per il disarmo
su scala globale, il rilancio dei princìpi della carta delle
Nazioni Unite, l'Ue, nel trattato di Lisbona, rafforza i suoi vincoli
atlantici e la sua militarizzazione. Vale la pena vedere come verrà
modificato in materia l'attuale status della difesa comune europea nei
confronti dell'alleanza atlantica. La nuova formulazione lega indissolubilmente
una futura difesa europea alla Nato: "Gli impegni e la cooperazione
in questo ambito restano conformi agli impegni sottoscritti in seno
all'Organizzazione del trattato nordatlantico, che resta per gli Stati
che ne sono membri il fondamento della loro difesa." L'Europa è
oggi intrappolata dalla sua subalternità alla Nato. Siamo convinti
che solo un'Europa autonoma dalla Nato e che lavori per il disarmo e
un ordine multipolare può tentare di recuperare al disastro che
la crisi del Caucaso e il suo ulteriore sviluppo stanno aprendo, recuperando
al diritto internazionale, ai principi dell'Onu e non alla forza, alla
logica di potenza militare o alla Nato, la soluzione delle questioni
internazionali. Le crisi aperte vanno risolte per via diplomatica, politica
e negoziale. Così come le vicende relative alle questioni dei
confini e dell'autodeterminazione dei popoli vanno risolte nel quadro
del rispetto del diritto internazionale, di mantenimento dei confini
esistenti salvo accordi tra le parti, evitando qualsiasi ulteriore modifica
manu militari.
L'America
Latina
Se nel resto del pianeta, la risposta alla crisi del modello neoliberista
del capitalismo globalizzato è quella descritta, nel continente
latinoamericano prende forma un'esperienza straordinaria.
Le forze progressiste e di sinistra governano gran parte del sub continente,
dando vita ad una inedita stagione di partecipazione politica e popolare,
di riscatto delle classi sociali subalterne. E' in quel continente che
l'opposizione al neoliberismo ha visto nascere movimenti come quello
zapatista, indigenista e bolivariano e l'esperienza dei fori sociali.
Un laboratorio per una uscita da sinistra alla crisi della globalizzazione
e del neoliberismo. Quello che era il cortile di casa degli Usa, tenta
la strada di un integrazione autonoma ed inedita, fondata su valori
di solidarietà, giustizia sociale, uguaglianza. Un'integrazione
che vede i paesi latino americani, dopo decenni di riforme imposte da
Fmi e Banca mondiale, che hanno portato al collasso , dotarsi di strumenti
autonomi , quali la Banca del Sud, Petrosur, e alleanze regionali come
l'Alba fondate su principi di solidarietà. Un vero processo di
affrancamento dalla tutela statunitense, come confermato dalla decisione
di Argentina e Brasile di sostituire le proprie monete al dollaro nelle
transazioni commerciali.
Non è un caso quindi che anche qui si riaprano tensioni, con
paesi che subiscono ogni giorno gli attacchi delle destre reazionarie
e dell'impero nordamericano. E' il caso di quanto accade in Bolivia,
dove gli Usa non esitano ad appoggiare una destra reazionaria e fascista
che sta tentando in tutti i modi di arrivare ad una secessione violenta
delle regioni ricche dal resto del paese. Un appoggio esplicito che
ha giustamente spinto Morales ad espellere l'ambasciatore Usa, Goldberg,
non a caso esperto di balcanizzazione., e che ha visto gli Stati latino
americani, con in prima fila il Presidente Chavez, schierarsi a difesa
del legittimo presidente e governo della Bolivia. Oltre ad esprimere
la nostra piena solidarietà e il nostro sostegno a Morales, occorre
attivarsi nel Parlamento Europeo, con la Se e con il Gue, perché
l'Europa non sia complice di un nuovo Cile, e affinché i popoli
latino americani possano, a partire dalla Bolivia, decidere liberamente
del proprio futuro.
I compiti di Rifondazione
Di fronte a questa situazione, per il nostro Partito risulta decisivo
saper cogliere le novità che emergono da questo quadro. E' necessario
approfondire l'analisi dei processi in corso, occorre capire meglio
le tendenze strutturali in atto in questo periodo di transizione del
capitalismo, e per questo promuovere ulteriori occasioni di studio e
conoscenza.
Sul piano politico, va rimesso al centro della nostra iniziativa il
tema della lotta per la pace e per il disarmo. La decisione del congresso
di Praga della Sinistra Europea di lavorare ad una campagna contro lo
scudo missilistico e l'allargamento ad Est della Nato, assume quindi
un valore strategico. Così come l'opposizione alla militarizzazione
dell'Ue.
Il Prc deve impegnarsi, nell'ambito del movimento pacifista, in ogni
lotta contro le guerre in corso nel mondo, contro la Nato e contro tutte
le basi militari straniere. Per questa ragione sostenere in Italia il
Referendum sulla base di Vicenza, contro l'installazione dei nuovi radar
a Sigonella. In Europa, partecipare alle mobilitazioni lanciate anche
dal recente Social forum europeo in occasione dei 60 anni della Nato,
per il suo superamento.
In Italia, dobbiamo dare seguito alle leggi di iniziativa popolare che
sono state depositate in parlamento, per un paese libero dal nucleare,
e unire alla battaglia contro la sciagurata ipotesi del ritorno per
uso civile all'energia atomica, anche quella per liberare il nostro
paese dagli ordigni presenti nelle basi statunitensi. Va inoltre posta
all'ordine del giorno la richiesta di ritiro delle nostre truppe dall'Afghanistan.
Rifondazione Comunista deve rilanciare la sua l'idea di un'Europa autonoma,
della pace e del disarmo, alternativa rispetto a quella disegnata dal
trattato di Lisbona. Un'Europa che sia alternativa anche come modello
sociale, protagonista di una riforma del sistema economico e finanziario
globale odierno, fondato sul neoliberismo e sul neocolonialismo economico.
Per ciò che riguarda l'America latina, nel quadro di un consolidamento
delle relazioni con il Foro di San Paolo e i movimenti, va rafforzata
la nostra solidarietà attiva con la Bolivia, il Venezuela, l'Ecuador,
con Cuba, ancora vittima di un embargo ingiusto, e con tutti i popoli
oggetto di attacchi sistematici da parte dell'amministrazione nord americana.
In questa strategia di destabilizzazione, un ruolo particolare riveste
la Colombia e il Governo Uribe, alleato fedele di Washington. Perseguire
una soluzione politico negoziale del conflitto armato e politico che
vive da quarant'anni la Colombia rappresenta un contributo non solo
per dare alla Colombia una speranza di uscire dall'incubo del narcocapitalismo
e della violenza paramilitare e di stato contro sindacalisti, giornalisti
e attivisti dei diritti umani, ma un contributo a tutta l'America latina
nella strada dell'integrazione regionale autonoma e indipendente. Perciò
va dato seguito alla campagna per la pace in Colombia lanciata dal Foro
di San Paolo.
Il Prc ribadisce inoltre il suo impegno per la soluzione politica dei
conflitti in corso e per il sostegno ai processi di pace. In particolare,
per l'area mediterranea, va ripresa l'iniziativa a sostegno del popolo
palestinese e del popolo kurdo, così come del popolo sharawi.
Ribadisce il suo impegno perché in questi casi, come in quello
della Colombia, venga rimessa in discussione la logica della lista nera
dell'Ue, in quanto frutto di un'impostazione ideologica, ostacolo ai
negoziati.
approvato con
31 voti favorevoli, 26 contrari, 1 astenuto