Riunione Direzione del 13 giugno 2005

Mozione di Marco Ferrando e Franco Grisolia

La vittoria del referendum francese, le convulsioni nel centro dell’Unione, la sconfitta del referendum sulla legge 40, richiedono un’analisi attenta della fase politica, ma anche una verifica della linea del partito e una necessaria svolta di indirizzo.

I lavoratori francesi bocciano l’Europa dei banchieri

Il referendum francese sulla “Costituzione” europea, con la straordinaria vittoria del no, ha espresso un potenziale di rivolta delle classi subalterne del vecchio continente contro le politiche delle classi dominanti: contro quelle politiche di attacco ai salari, alla spesa sociale, ai posti di lavoro che da 15 anni governi borghesi di ogni colore – di centrodestra, di centrosinistra, di socialdemocrazia liberale – riversano sulla condizione di grandi masse. Il fatto che il no abbia avuto il sostegno dell’80% dei salariati francesi contro il sì delle “classi ricche” e contro tutte le principali forze dell’alternanza di quel paese (di “destra” e di “sinistra”) dà ad esso un segno prevalente assolutamente progressivo. Quel no inoltre ha segnato la sconfitta frontale della semi-totalità dell’arco politico borghese italiano, grande sostenitore di Chirac e Hollande: ed in particolare di quel centro liberale dell’Ulivo, a partire da Romano Prodi, che più di ogni altro si è identificato nell’Europa di Maastricht, gestendo direttamente la sua costruzione e l’ingresso in essa dell’Italia, con quell’enorme carico di sacrifici sociali che ciò ha comportato.

Prodi, Rutelli, Fassino esaltano il programma di Montezemolo

Oggi il Centro dell’Unione nel mentre si dispera per la sconfitta in Francia della “sua” Europa, ripropone gli stessi programmi che il popolo francese ha bocciato. Infatti Prodi, Rutelli, Fassino hanno applaudito la relazione di Luca di Montezemolo all’Assemblea nazionale di Confindustria, sino a giudicarla “bellissima” (Prodi). E dunque ripropongono come asse del proprio programma economico- sociale una nuova stagione di “necessari sacrifici”: nella quale la ripresa delle politiche di rigore nel bilancio pubblico (su salari, pensioni, sanità, enti locali) possa liberare maggiori risorse per il profitto privato e la competitività delle imprese; con l’eventuale supporto di qualche ammortizzatore sociale che consenta maggiori libertà di licenziamento (vedi l’assunzione del modello danese) e di qualche simbolica sforbiciata alla rendita per dare più soldi all’industria esportatrice, secondo quanto propone lo stesso Montezemolo e persino ambienti di destra (Alemanno).

I liberali si contendono il programma di Confindustria, a vantaggio di Berlusconi

Lo scontro nell’Ulivo fra Rutelli e Prodi nasce da questo contesto. Sentendo avvicinarsi l’orizzonte di governo, il centro liberale dell’Unione si contende le spoglie di Belusconi e il programma di Montezemolo. La maggioranza della Margherita (Rutelli) investe nella capitalizzazione diretta della crisi di Forza Italia e del cambio di cavallo dei poteri forti al fine di assicurarsi un peso negoziale decisivo nella coalizione e nel prossimo governo. Prodi contrasta questa operazione chiedendo per sé pieni poteri nella coalizione: sino ad affermare che proprio la realizzazione di un programma di nuovi sacrifici richiede un premier forte, sottratto ai negoziati di maggioranza e capace di dominare su di essa. Eventuali primarie – se riproposte – avrebbero esattamente il senso di una reinvestitura presidenzialista di Prodi, in funzione della governabilità delle future strette sociali. Altro che “partecipazione democratica”! In ogni caso l’unico risultato di questa competizione al Centro dell’Ulivo è lo spazio regalato a Berlusconi, che ora progetta un insperato e minaccioso rilancio. Peraltro la facile associazione di Prodi all’euro e ai sacrifici per l’Europa, rappresenta già, di per sé, un’arma propagandistica delle destre nel rapporto con settori popolari arretrati e impoveriti.

I prezzi dell’Unione con Prodi e Rutelli. La necessità di una svolta

Per tutto questo l’Unione con il centro liberale è più che mai in totale contraddizione con le ragioni del nostro partito. Che senso ha esaltare giustamente il no francese alle politiche di Maastricht e contemporaneamente riproporre la coalizione di governo con i campioni di Maastricht e delle strette sociali, che già spianarono la strada a Berlusconi? Che senso ha riproporci come i massimi sostenitori di Prodi nell’Unione nel momento stesso in cui Pordi, Rutelli, Fassino assumono come riferimento il programma di Montezemolo? Riproporre, contro ogni logica di classe, questa prospettiva di governo non solo condanna il nostro partito a fanalino di coda del processo d’alternanza, contro le ragioni dei lavoratori e dei movimenti (come si vede nelle stesse giunte regionali in cui siamo entrati), ma già ora ci subordina ad un’azione di contenimento e dispersione della stessa opposizione di massa a Berlusconi. Ciò è vero in particolare sul terreno del movimento operaio e sindacale: dove un’intera stagione di lotte, contro ogni retorica del “movimento”, attraversa oggi un’impasse profonda, stretta fra l’assenza di una proposta di unificazione delle lotte (per non disturbare Prodi) e un progressivo ritorno dell’orizzonte della concertazione, che è la sostanza stessa dell’alternanza Prodi. In questo quadro il nostro perdurante disimpegno come Prc di fronte alla prospettiva di una battaglia congressuale alternativa in Cgil; e, ancor più, l’incredibile sostegno dato dalla nostra segreteria nazionale a un contratto degli statali che nega l’aumento salariale e accetta nuova mobilità e flessibilità, misurano già oggi il prezzo della nostra collocazione nell’Unione prefigurando le compromissioni future. In realtà solo una rottura netta col centro liberale, unita alla campagna per un polo autonomo di classe, può rispondere all’esigenza di liberare una vera opposizione di massa a Berlusconi, di unire le lotte attorno attorno a una comune piattaforma, di preparare una cacciata dal basso del governo delle destre dal versante delle ragioni dei lavoratori e non dei padroni. Solo questa svolta può dare una prospettiva a quel potenziale di rivolta che dal basso si è espresso nello stesso voto francese.

Le lezioni della sconfitta referendaria sulla legge 40

L’esigenza di tale svolta è riproposta, direttamente o indirettamente, dalla stessa pesante sconfitta del referendum sulla Legge 40. Questa esperienza richiama l’esigenza di una riflessione di fondo, ben aldilà dei riferimenti di superficie alla “complessità” dei quesiti o al logoramento dell’istituto referendario.
a) la situazione di impasse della mobilitazione sociale, unita al drammatico peggioramento delle condizioni di vita di grandi masse, ha favorito una diffusa percezione di estraneità delle tematiche referendarie proposte, al di là della loro obiettiva importanza. Un movimento di massa che avanza tende ad assumere come proprie le rivendicazioni democratiche. Un movimento che ristagna, paralizzato dalle compatibilità dell’Unione e della sua prospettiva, fa sì che le masse più povere della popolazione, il popolo profondo e meno acculturato vivano le “tematiche di valore” come un mondo estraneo e lontano dalle proprie preoccupazioni quotidiane di salario, lavoro, casa.
b) un’impostazione dominante della campagna referendaria, tutta imperniata sul dibattito filosofico attorno all’embrione e non sulla politicizzazione dello scontro e sulla controffensiva anticlericale, ha aggravato a sua volta questa immagine elitaria e separata della battaglia referendaria, rafforzando passività ed estraneità in ampi settori di popolari. Peraltro proprio la gabbia dell’Unione col centro cattolico ha impedito una diversa gestione della campagna referendaria.
c) il Centro liberal cattolico dell’Unione (Rutelli), con la sua campagna astensionista, ha contribuito direttamente alla sconfitta, con responsabilità che non solo non vanno taciute ma vanno apertamente denunciate presso tutto il popolo della sinistra. Non si è trattato di una posizione “sbagliata” o estemporanea ma di una scelta strategica di fondo. Rutelli e la maggioranza della Margherita, proprio perché impegnati strategicamente nella competizione al centro per la ricomposizione di un partito centrale della borghesia italiana, vedono non solo in Montezemolo ma anche nel Vaticano, un interlocutore decisivo. Questo significa che una coalizione di governo col centro liberal cattolico contraddirebbe non solo le domande sociali della classi subalterne ma le stesse domande democratiche dei diritti civili e della autodeterminazione della donna.

Per una lotta seria contro le gerarchie ecclesiastiche

La Chiesa di Papa Ratzinger e del Cardinal Ruini ha rivelato, una volta di più, la sua propria natura. Il rilancio di un messianesimo universalistico e integralista da parte della Chiesa dopo l’89 si combina con un riposizionamento politico del Vaticano in Italia. In una seconda repubblica che lo vede privato di un partito centrale di riferimento come la vecchia Dc, il Vaticano si fa esso stesso partito, entra in politica in modo diretto e spregiudicato, manovra a 360 gradi su tutto lo scacchiere dei due poli d’alternanza a difesa dei propri interessi materiali (risorse alle scuole private, finanza cattolica…) e sotto la bandiera ideologica del confessionalismo più gretto e oscurantista (la “campagna per la vita”). Questa offensiva della Chiesa non ha trovato e non trova una reazione a sinistra. Ed anzi in questi anni si sono clamorosamente moltiplicati, anche da parte del gruppo dirigente del nostro partito, atteggiamenti di sudditanza culturale verso le gerarchie cattoliche e il papato, se non di vera e propria esaltazione del loro presunto “anticapitalismo”. Occorre anche su questo terreno una svolta netta. I comunisti devono sviluppare una lotta coerente contro le gerarchie vaticane. Ma possono farlo, ancora una volta, se si liberano dalla camicia di forza del centrosinistra e intraprendono una battaglia di fondo per l’alternativa anticapitalista.

La proposta immediata d’azione nei movimenti

La necessaria svolta del nostro partito investe la stessa azione politica immediata del PRC. Non è credibile una prospettiva politica per l’autunno che si limiti a scadenzare in modo rituale una “manifestazione meeting” del partito o una nostra campagna, essenzialmente propagandistica, contro la precarietà (pur in sé utile). Noi abbiamo la responsabilità di definire un chiaro indirizzo d’azione e di proposta nel movimento operaio, nei movimenti, nelle organizzazioni di massa, che apra una prospettiva nuova e di svolta per le classi subalterne. In questo quadro è necessario e urgente: 1) avanzare nelle lotte una proposta di piattaforma unificante per l’azione di massa contro il programma di Confindustria, ponendo l’obiettivo reale della cacciata di Berlusconi sullo sfondo dell’opposizione alla prossima finanziaria. 2) impegnare tutte le nostre forze presenti in Cgil in una battaglia congressuale alternativa contro il ritorno alla concertazione e gli accordi sindacali che la prefigurano (vedi statali). Entro una proposta di unità d’azione nel movimento operaio di tutte le forze del sindacalismo antiburocratico e di classe. 3) rilanciare una campagna di massa per il ritiro immediato e incondizionato delle truppe dall’Iraq contro ogni logica multilateralista. A partire da una documentata denuncia degli interessi dell’ENI e dell’imperialismo italiano. 4) recuperare, dentro la centralità della mobilitazione sociale e antimperialista l’importanza di rivendicazioni democratiche elementari, quali il ritorno ala legge elettorale proporzionale e l’abrogazione del concordato con la Chiesa. Dichiarando decaduta l’attuale intesa Prc-Ulivo sulla bozza Amato in materia di riforme istituzionali. Questa svolta del nostro indirizzo politico implica una nuova linea politica nei movimenti basata sulla loro rottura col liberalismo. Nessuna invocazione di “più movimento” è minimamente credibile senza una battaglia per l’indipendenza dei movimenti dall’alternanza liberale.

chiudi - stampa