Comitato Politico Nazionale
Partito della Rifondazione Comunista
6/7 novembre 1999

Relazione di Fausto Bertinotti

Care compagne, cari compagni, vogliamo utilizzare appieno la riunione odierna del Comitato politico nazionale per motivare la nostra proposta politica e promuovere l'iniziativa del partito, sviluppando quel ragionamento che ci ha portato ad organizzare la manifestazione nazionale del 16 ottobre e che si è snodato dalla scorsa riunione del Cpn di luglio. La manifestazione nazionale ha registrato un pieno successo, non solo per le numerosissime presenze, ma per il. clima politico davvero buono e per l'interessante composizione sociale del corteo. Il rapporto con la realtà sociale e con la gente è decisivo per garantire la continuità di lavoro del partito, ed anche per rimuovere le cause di un disagio e di una difficoltà che pure ci sono. Noi dobbiamo continuare il processo di costruzione di una prospettiva di alternativa, tenendo ben ferma la rotta che avevamo deciso nella riunione di luglio, con la fissazione dei quattro punti su cui articolare la nostra iniziativa politica, e contemporaneamente dobbiamo mantenere tutta la problematicità della ricerca. Dobbiamo investire, a partire da questa riunione del Cpn, in azione politica diretta, per spostare concretamente forze nel Paese, il che è ora più possibile di quanto non lo fosse a luglio. Per queste ragioni noi oggi proponiamo di scegliere con molta nettezza l'apertura alla società e alle forze critiche, senza ma e senza però. Se ci facessimo invece risucchiare da una logica conservativa nel comportamento politico aumenteremmo le nostre difficoltà.
Siamo di fronte ad una grave deriva moderata, che in primo luogo ha investito i Democratici di sinistra. Una deriva neo-centrista e moderata, che è ben evidenziata dalla piattaforma congressuale della maggioranza dei Ds e che giunge al parossismo nella dichiarazione di Veltroni sulla presunta inconciliabilità tra comunismo e libertà, dichiarazione insopportabile sotto il profilo culturale, storico, politico. In questo modo si punta a una desertificazione della storia della lotta di classe e della sinistra legata al movimento operaio.
Nello stesso tempo assistiamo a un'opera di restaurazione politica condotta dalle classi dirigenti. Questa ha un fine ben preciso: cancellare dalla vita del Paese e dalla storia repubblicana la stessa possibilità di un'alternativa. A questo è funzionale la ricerca dell'impunità delle stesse classi dirigenti, fin fin troppo evidente nei commenti intervenuti dopo la sentenza di assoluzione di Giulio Andreotti.
Il governo dal canto suo accentua il carattere moderato e neo-liberista delle sue politiche. E intanto si sviluppa una conflittualità e rissosità superficiale nella sfera di una politica politicante.
Le destre chiedono sempre di più, e possono ottenere anche dei risultati proprio perché il governo è aperto solo a destra. Di fronte alla caduta dello spirito laico riprende forza una concezione confessionale della scuola e in generale dei rapporti tra lo Stato e la società civile.
Insomma, siamo di fronte a un’onda lunga, quella che proviene dalla sconfitta del socialismo reale nell’89, che provoca una specie di cupio dissolvi che punta alla fine della politica come possibilità di un diverso futuro per le classi subalterne. A sua volta questo provoca un'ulteriore desertificazione della politica in generale.
Per questa ragione anche noi siamo toccati da questi processi. Allora non possiamo limitarci solo a qualche commento di fronte a un dramma per l'intero Paese. Per questo noi proponiamo che nei prossimi mesi si costruisca e si realizzi un evento a sinistra per contrastare questa deriva, animando le forze critiche e disponibili a lottare contro il declino della sinistra.
I destini della prospettiva di alternativa e della stessa sinistra sono in discussione. Trovo allora del tutto fuorviante e ozioso domandarsi, come fanno alcuni commentatori, in cosa esattamente consiste l'evento che noi vogliamo costruire. Esso sarà quello che insieme ad altri sapremo costruire, e per ora possiamo solo definire il punto di partenza e le modalità di questa azione. Noi vogliamo sviluppare infatti la critica, l'opposizione, la lotta contro questa deriva che non consideriamo ineluttabile. Vogliamo farlo criticando la politica del governo che ne è il perno. L'obiettivo è quello di animare una battaglia politica e costruire fatti politici significativi, che vedano protagonisti il partito, le associazioni, i movimenti, i singoli individui.
Non è però possibile assegnare ad un obiettivo così ambizioso tutto il lavoro che deve essere frutto di un più lungo percorso. A luglio avevamo deciso, dopo la sconfitta elettorale, di lavorare per precisare e definire la risposta alla domanda fondamentale di che cosa significhi essere comunisti oggi. Ci poniamo questo obiettivo in una situazione, come abbiamo già detto, segnata dalla fine di quel ciclo rappresentato dal caso italiano e dentro due coordinate di fondo che cambiano la situazione mondiale, come il processo di globalizzazione e il ricorso alla guerra.
Quest'ultima, come dicevamo, non finisce con la fine della guerra guerreggiata nel Kosovo. Essa diventa un elemento permanente, per l'imposizione di un nuovo ordine mondiale, in cui il ruolo della Nato è quello di collocare l'Europa in una posizione subalterna. Intanto la logica di guerra produce altre guerre guerreggiate in dimensione subregionale. Come avviene in Cecenia, e qui voglio sottolineare l'importanza dell'iniziativa di protesta di ieri davanti all'ambasciata russa assunta dal Forum delle donne, da altre associazioni e movimenti, e sostenuta dal nostro giornale. Tutto ciò ci riporta a una questione generale: la guerra diventa funzionale in modo permanente al processo di globalizzazione e al rafforzamento del dominio oligarchico, di cui la Nato costituisce il braccio armato.
Poniamoci una domanda: come mai in questi ultimi tempi rinasce in modo così virulento la propaganda anticomunista? Ce ne è un'effettiva necessità o è semplicemente il frutto dei settori più bolsi e meno intelligenti delle classi dominanti? La mia risposta è che essa risponde a un disegno necessario e lucido. Infatti se è vero che il comunismo non è più lo spettro che si aggira per l'Europa e per il mondo, se è ancora più vero che vi è un'immaturità nel trascendimento della società capitalistica, rimane però un problema irrisolto per le classi dominanti, quello di costruire una vera egemonia in questa fase per dare stabilità al loro dominio. Se è vero che il processo di globalizzazione e il ricorso alla guerra destrutturano e a volte annichiliscono il possibile avversario, tuttavia il consenso alle classi dominanti non è scontato.
Sulla questione dell'egemonia vi è un dibattito non nuovo e ancora aperto nella cultura della sinistra. Quello che è certo è che il capitalismo non è capace di ottenere ed espandere consenso, ma allo stesso tempo non ne può fare a meno. Per questo assistiamo a un attacco forsennato alla storia del movimento comunista, perché essa rappresenta un prezioso serbatoio cui possono attingere i moderni conflitti, anche quando sono dispersi o addirittura isolati. Per questo l'anticomunismo odierno si carica di un elemento simbolico, così come nell'89, perché bisogna colpire non solo il corpo della tradizione comunista, ma la sua stessa anima.
Negli anni Ottanta, nella sinistra, si era affermato il mito della governabilità, oggi assistiamo al compimento estremo di quel processo: il tentativo della totale omologazione. Per questo la difesa della storia dei comunisti non è semplicemente la preservazione di una verità storica, ma di un valore attuale: democrazia, rappresentanza, libertà sono infatti i temi fondamentali della politica.
Questa offensiva anticomunista non può dunque essere passata sotto silenzio. Dobbiamo assumere una vasta iniziativa culturale e politica, dobbiamo sapere sviluppare una grande capacità di autodifesa. Ma per farlo non possiamo limitarci semplicemente a difendere il passato. Dobbiamo, per così dire, produrre una storia controfattuale: non è vero, cioè, che la storia del movimento operaio doveva necessariamente andare come poi effettivamente si è svolta. Se così fosse noi non saremmo altro che gli eredi di una sconfitta, per giunta ineluttabile. Dobbiamo ragionare sui se, su come si sarebbe potuto scegliere diversamente nei vari punti di passaggio e fondamentali in questa storia.
A questo riguardo abbiamo delle formidabili lezioni di metodo da imparare dai grandi dirigenti del movimento operaio. Quando si realizzo la sconfitta della Fiom nelle elezioni interne alla Fiat alla metà degli anni Cinquanta, molti sentenziarono che si era trattato di una sconfitta inevitabile e che non sarebbe potuta andare diversamente. Ma Giuseppe Di Vittorio affermò che se anche il 99 per cento delle ragioni fossero state assolutamente obiettive, e quindi non modificabili, e solo l'1 per cento doveva essere attribuito alla responsabilità soggettiva, e su quest'ultima che si sarebbe dovuto insistere e indagare, perché solo così si poteva mettere a valore la lezione subita e prepararsi a una riscossa.
Noi dobbiamo riflettere sul nostro passato senza alcuno spirito di fazione. Non c'è alcuna appartenenza a nessuna genealogia che possa evitare degli errori. Anzi consiglierei di muovere con più intensità la critica rispetto alle esperienze storiche del movimento operaio verso le quali ci sentiamo più prossimi. Sono proprio per riabilitare il termine spesso abusato di autocritica. Personalmente sul primo numero della nuova rivista del "Manifesto" ho cercato di dare un esempio in questa direzione, e mi sono preoccupato di ricordare l'errore di valutazione che feci al momento dello scioglimento del Partito comunista, durante la discussione nel famoso seminario di Arco di Trento. Guai a noi se ci trovassimo di fronte a una discussione sulla storia del movimento operaio in cui ognuno dicesse: «I miei» avevano ragione. Non esistono "i miei", perché la storia del movimento operaio è la storia di tutti. Noi dobbiamo riflettere sulle esperienze dei vari marxismi, sulle diverse anime, ispirazioni e opzioni del movimento operaio, sulle esperienze storiche del socialismo fattosi Stato, sia sulla mancanza di vocazione di libertà, sia, e permettetemi soprattutto, sulla mancanza di una alterità totale e radicale al sistema capitalistico, cioè sul deficit di socialismo oltre che di democrazia che si è manifestato in quelle società.
Dobbiamo saper recuperare l'importantissima lezione gramsciana, e riconsiderare la riapertura ai marxismi. A noi ancora manca questa ansia di ricerca, malgrado sappiamo produrre analisi sociologiche ed economiche. E infatti non riusciamo a portare dentro la nostra esperienza, ad esempio, la cultura e la pratica delle donne. Dobbiamo impedire che i nostri paradigmi interpretativi siano rigidi ed impermeabili.
Dobbiamo riprendere l'analisi critica del nuovo capitalismo. Cosa sono oggi lo sfruttamento o l'alienazione? Cosa pensiamo della società futura? Come la immaginiamo? Che cosa rappresenta per tanti giovani lo stesso termine comunismo, che a noi comunica un’idea alternativa di società, al punto che giustamente ci indignamo quando esso viene contrapposto al termine libertà? Dobbiamo provare a chiederci cos'è il comunismo e soprattutto provare a rispondere. Come si superano gli attuali rapporti di produzione, che cos'è la moderna proprietà, qual è oggi il rapporto tra il pubblico e il privato, come sono diventate le relazioni tra le persone, tra i sessi, qual è la contraddizione tra ambiente e sviluppo, che cos'è la liberazione dal e del lavoro salariato? Dobbiamo provare. Propongo di tenere tra non molto un'assise, un convegno, anche con altre forze, in cui cominciamo a dare qualche risposta, senza paura degli eventuali errori. Ma non possiamo solo porre l'esigenza, come abbiamo fatto finora, dobbiamo provare a dare delle risposte.
Questa ricerca deve naturalmente poggiare sull'analisi della situazione attuale e sulla materialità dei conflitti concreti.
Noi abbiamo individuato la questione sociale come elemento decisivo del nostro lavoro. Per questo abbiamo definito una nuova piattaforma sociale, che volutamente abbiamo considerato come una ricerca aperta. La sconfitta elettorale ha dimostrato un nostro scollamento dalla società. Da qui è nata l’esigenza di una nuova ricerca sul programma, sulla piattaforma, a partire da quei quattro punti di iniziativa politica che stabilimmo a luglio. Oggi noi constatiamo un avanzamento effettivo di questo nostro lavoro. Abbiamo anche cercato di forzare il nostro rapporto con la società, organizzando, ad esempio, la manifestazione del 16 ottobre e i banchetti per la raccolta delle firme contro le maxiretribuzioni. Questo è avvenuto anche e malgrado incomprensioni che vanno indagate, per capire le ragioni di un disagio al nostro interno, o addirittura di un dissenso, che però non si manifesta come tale, ma spesso come sorda resistenza. Era chiaro fin dall'inizio che la raccolta delle firme su quella petizione toccava solo uno degli aspetti, e neppure il principale, di una più generale questione sindacale, aveva cioè un carattere eminentemente simbolico; eppure questi argomenti sono stati spesso usati per inibire l'iniziativa, la sua continuità, la sua efficacia. Anche per quanto riguarda la manifestazione si possono fare considerazioni analoghe; ancora pochi giorni prima c'era uno scetticismo diffuso sulla sua riuscita. Noi abbiamo definito una piattaforma sociale aperta ai contributi dei movimenti ed alla discussione nel nostro partito. Ma quella discussione la dobbiamo fare effettivamente. Preferirei che anche in questa riunione si dicesse: non sono d'accordo con questo o quei punto, o addirittura con l'insieme dell'impianto; invece si riscontra spesso una passività.
Noi oggi ci proponiamo di costruire un'alternativa alle politiche liberiste. Siamo di fronte a un governo che pratica una politica organicamente liberista; è un giudizio drastico ma giusto. Vogliamo degli esempi? Prendiamo la scuola: non è più in discussione se finanziare la scuola privata, ma il quanto e il come; così oggi se ne avvantaggia il sistema confessionale, ma domani entrerà in campo quello dell'impresa privata. Prendiamo la questione delle privatizzazioni, l'ultima, quella dell'Enel: vi è un contrasto evidente con gli interessi nazionali, ma su questi fa premio la scelta e il mito liberista. Prendiamo l'esempio delle pensioni: l'aumento di 18 mila lire per le pensioni minime rappresenta appunto quella logica di pura e semplice carità che avevamo denunciato fin dall'analisi dell'impianto della legge finanziaria e non risponde minimamente alla necessità di aumento di redditi per milioni di pensionati. Non solo, ma questo dimostra il totale disinteresse di questo governo rispetto alla critica verso la sua politica sociale. Infatti oggi arriva l'aumento delle tariffe nei trasporti, mentre si evidenzia il totale fallimento della politica del governo sul versante dell'occupazione, tanto che appaiono persino grottesche le dichiarazioni soddisfatte e ottimistiche di D'Alema, di fronte a un Fondo monetario internazionale che definisce l'Italia come il fanalino di coda dei paesi europei per quanto riguarda la lotta alla disoccupazione.
La scelta delle privatizzazioni costituisce un modello industriale preciso: quello della riorganizzazione del sistema sui settori con un basso contenuto di innovazione, così che la competitività è tutta giocata sul versante della riduzione del costo del lavoro e dell'aumento della flessibilità. Come si vede si tratta appunto di un’organica politica neoliberista. Dal canto suo il Parlamento europeo vota un documento sull'occupazione assolutamente scandaloso, dove vengono rifiutati gli emendamenti avanzati dai socialisti e quindi il risultato è quello di una politica tipicamente conservatrice. A questo quadro, già molto negativo, si sommano incivili campagne tese a creare capri espiatori per combattere la protesta sociale che si diffonde e l'estremismo referendario, interpretato dai venti referendum radicali, che intendono togliere le residue protezioni sociali al lavoro dipendente. In sostanza si punta all'effetto Schroeder: cioè spalancare le porte alle destre.
Eppure di fronte a questo quadro noi non riusciamo ancora a valorizzare appieno un'opposizione di sinistra, che deve porsi il compito di intercettare la diffusa protesta. Noi dobbiamo condurre un'opposizione, in tutti i modi possibili, alla legge finanziaria, ma dobbiamo saperlo fare tenendo conto che essa deve essere funzionale alla costruzione di un terreno di iniziativa del nostro partito, che grazie alla piattaforma sociale che abbiamo definito riesce a costruire un movimento reale nel paese. La nostra piattaforma parte dai bisogni anche più elementari e giunge fino alle dimensioni macroeconomiche. Noi dobbiamo chiederci se e quanto siamo capaci di innovare per rendere questa piattaforma ancora più aggressiva. Io credo che dobbiamo cominciare dall’individuazione dei soggetti e quindi degli obiettivi: penso che i giovani e i diritti siano i due punti di riferimento e di partenza. Mi rendo conto che sto definendo un terreno scivoloso; secondo una tradizione classica potremmo essere accusati di scelte a-classiste e moderniste. In realtà noi vogliamo operare un rovesciamento di queste categorie: scegliamo di partire dai giovani perché sono i più esposti ai processi di ristrutturazione capitalistica e possono quindi riscoprire la dimensione di classe attraverso questa lettura. Proponiamo la conquista dei diritti come un'armatura contro la modernizzazione soverchiante. Oggi le popolazioni vengono chiamate a una sfida impari, perché mancano di meccanismi di difesa. Le classi dominanti hanno il potere, gli altri devono essere adattabili. Ecco perché noi proponiamo contro la flessibilità un nuovo sistema di rigidità. Proponiamo una nuova idea della legge stessa che allude e critica l'economia e il suo dominio. Nel fare questo non dobbiamo aver paura di contraddire il senso comune corrente, altrimenti rimarremmo imprigionati dalle logiche del sistema.
Dobbiamo costruire una nuova stagione di lotta per i diritti fondamentali come base per ricostruire il vincolo interno allo sviluppo, per dirla con Claudio Napoleoni, come ad esempio sono l'aumento dei salari e la riduzione dell'orario di lavoro. So bene che le due cose sono spesso poste in alternativa. Il sindacato ha rifiutato di essere come un tempo un'autorità salariale e quindi concorre a formare quel senso comune corrente che cerca di impedire questa battaglia. Al contrario, noi dobbiamo sapere connettere il tema dei diritti, del salario, della riduzione d'orario: ecco il vincolo che possiamo porre.
In questo senso noi portiamo una correzione rispetto alla richiesta di determinare una svolta di politica economica in senso neo-keynesiano dall'alto. Questa richiesta era alla base del nostro contrasto con il governo Prodi, e si basava su un'evoluzione del quadro europeo, che vedeva il governo francese andare controtendenza alle scelte neoliberiste, e l'aprirsi di una possibile evoluzione positiva, grazie a Oskar Lafontaine, della socialdemocrazia tedesca. Quella situazione si è per il momento risolta negativamente, anche se può riaprirsi per la vittoria di Schroeder e per il prevalere della cosiddetta Terza Via. Oggi quindi proponiamo a partire dal basso la costruzione di un sistema di rigidità come vincolo interno all'attuale sviluppo. Proponiamo un'idea di piattaforma e di programmi; vogliamo parlare di disoccupati, proponendogli una prospettiva concreta nel mercato del lavoro, ai precari, battendoci per un salario minimo, agli inoccupati, proponendo un salario sociale. Vogliamo costruire rivendicazioni e lotte per i diritti, scavalcando anche la delega sindacale, ripensando il rapporto tra rivendicazione, contrattazione, leggi. In Italia abbiamo avuto un peso della contrattazione prevalente, mentre quello della legge è stato molto più leggero. Ma oggi il sindacato persegue una pratica collaterale alla politica del governo: la battaglia al suo interno va fatta a fondo, come poi dirò, ma bisogna anche aprire un terreno di lotta diretto ed esterno.
In questa impresa il Prc da solo non basta. È una verità banale, ma questa affermazione deve servirci a ragionare su cosa è effettivamente necessario fare.
La prima considerazione è che un partito non basta ma è assolutamente necessario. Come e chi avrebbe potuto organizzare una manifestazione come quella del 16 ottobre? Chi avrebbe potuto parlare alla gente, proporre degli obiettivi, chiamarla alla lotta? Chi è in grado di organizzare feste come quelle di Liberazione, che in un quadro così desertificato, sono spesso le uniche occasioni di comunicazione di esperienze e sentimenti? Dobbiamo saper guardare come effettivamente siamo, e allora scopriremmo che spesso siamo ingenerosi verso noi stessi e non vediamo elementi di diversità rispetto al passato nel processo di costruzione del partito. Il nostro partito vive con pochi soldi, sempre meno, e grazie a una struttura di volontariato: dobbiamo tenere conto di questa nostra costituzione materiale.
Abbiamo detto che per costruire una sinistra di alternativa non basta il nostro partito e che ci vogliono altre forze, ma per parte nostra sentiamo per intero la sfida della riforma della politica per cercare di far vivere in modo intenso e diverso la connessione tra la classe, la società civile, le istituzioni.
Abbiamo molte risorse che sono come imprigionate da un deficit di costruzione politico organizzativa ed è sbagliato spalleggiare le responsabilità tra il centro e la periferia, o tra le diverse sensibilità e inclinazioni politiche che sono al nostro interno. Il problema, io credo, sta nella non avvenuta soluzione dell'organizzazione generale del nostro lavoro. Spesso esso vive di grande generosità, e persino di volontarismo, ma altrettanto spesso è come soffocato da un eccesso di confusa conflittualità interna. Noi abbiamo una vocazione anti-istituzionalista ma una pratica istituzionalista, come dire una testa anti-istituzionalista e una pancia istituzionalista. Quindi, appena si avvicina una scadenza in cui bisogna definire la rappresentanza istituzionale, i problemi emergono con maggiore virulenza.
Dobbiamo quindi mettere mano a un lavoro di lunga lena per superare questa nostra condizione, queste nostre difficoltà. Dopo le elezioni regionali potremo approfondire e accelerare questo percorso e mettere mano a cose fondamentali. Ma dobbiamo comunque avvertire che siamo all'interno di un processo di americanizzazione della nostra società, e il modello che ci si vuole imporre non prevede appunto l'esistenza di un partito comunista, ossia di una forza che propugna un'alternativa complessiva di società.
La questione del nostro futuro è dunque totalmente aperta, ed essa dipende se noi riusciamo a vincere, assieme ad altri, la battaglia contro il processo di americanizzazione.
Noi abbiamo lavorato per dare un senso concreto all'essere comunisti oggi, cioè abbiamo evitato, a differenza di altri, di contentarci della definizione di comunisti, ma di condurre una pratica del tutto diversa. Lo abbiamo dimostrato con il comportamento coerente che ci ha portato alla rottura con il governo Prodi e questa scelta è oggi ancora più chiara. Ma dobbiamo riconoscere che nel nostro partito si manifestano atteggiamenti di disagio. Bisogna comprendere questo disagio e saperlo rispettare, ma questo significa precisamente assumersi l'onere di una battaglia politica. Un gruppo dirigente può anche perdere e andarsene, ma non può ammiccare. Invece da noi c'è anche troppa tendenza all'ammiccamento.
Guardiamo alla situazione del tesseramento, che è sempre indicativo. Esso ci dimostra che il Prc è insieme attraente e ripulsivo; con il messaggio politico attraiamo, ma con la nostra pratica politica, spesso respingiamo. Si badi bene, non ho detto che la leadership attrae e la base respinge. La situazione non è assolutamente questa, anzi vertice e base hanno lo stesso problema, perché si tratta di una questione generale.
Al termine di questa nostra riunione del Comitato politico nazionale penso che definiremo una data precisa entro il prossimo inverno per realizzare un convegno sul partito: non una conferenza di organizzazione, ma certamente una verifica ulteriore del lavoro avviato, un coinvolgimento di tutte le strutture del partito in una riflessione sulla nostra organizzazione e in un tentativo di proposta innovativa. L'idea base è quella di guidare una sperimentazione, che riguardi i soggetti su cui innovare, un nuovo rapporto tra centro e periferia, le modalità e i luoghi d'organizzazione. Naturalmente tutto ciò dovrà essere perfettamente compatibile con il pieno dispiegarsi della libertà di critica. Si tratta di sperimentare inoltre un nuovo rapporto tra il partito e la società.
Tutto questo non può essere fatto se non si sente il partito come un patrimonio comune. So benissimo che questa considerazione ha nel passato della storia del movimento comunista spesso fornito l'alibi con cui i gruppi dirigenti hanno imposto quasi a forza la loro linea. Ma non mi pare davvero che questa sia la nostra condizione e il pericolo concreto che corriamo.
Dunque dobbiamo muoverci su alcuni assi di fondo per innovare la nostra pratica politica. Dobbiamo operare un’apertura alla società e alle espressioni critiche che in essa si muovono. Dobbiamo aprirci alle esperienze delle donne e della cultura di genere e ai giovani. Così come lo facciamo nel definire la nostra piattaforma sociale, lo dobbiamo fare nella costruzione pratica del partito.
Da un lato dobbiamo condurre una sperimentazione nel e sul nostro partito, dall'altro dobbiamo compiere un'operazione che vede anche nello spazio tra il partito e la società un terreno fondamentale di sperimentazione di nuove forme di organizzazione politica e sociale (come, ad esempio, le camere dei lavori o le case dei popoli).
Da un lato dobbiamo favorire nuovi ingressi nel nostro partito, come quello dei compagni della sinistra verde, per contribuire alla nostra stessa innovazione, dall'altro vogliamo lanciare l'invito a dare vita a una Consulta permanente rivolta a organizzazioni, movimenti, singole personalità che, sulla base del reciproco riconoscimento della rispettiva condizione (chi, appunto, di partito, chi di movimento, di associazione, o individuale) conduce una ricerca e innova una proposta di iniziativa politica.
In questo modo noi pensiamo di dare concretezza alla proposta di apertura del nostro partito verso la società. Su questa strada dobbiamo assolutamente ottenere dei risultati tangibili.
Rispetto alla nostra collocazione nel quadro politico non vi è alcuna possibilità di equivoco. La nostra opposizione al governo D'Alema si è fatta più dura, contemporaneamente la contesa con i Democratici di sinistra è diventata più acuta e ha toccato punte che avremmo persino preferito evitare. Non capirei quindi una critica sullo snaturamento delle nostre posizioni. Anzi dobbiamo rivendicare il merito di avere aperto un confronto verso la sinistra moderata, di avere posto degli interrogativi sul suo stesso futuro, anche se le risposte che da lì ci sono giunte sono del tutto deludenti. Abbiamo ribadito, del resto, che questo governo è un obiettivo impedimento all'approfondimento del confronto a sinistra.
La nostra prospettiva è lavorare per l'alternativa. Questo avviene con maggiore difficoltà per lo spostamento a destra dei Ds e per l'azione di governo che va in quella direzione. Si pone la domanda se quello spostamento è reversibile: propongo di sospendere la risposta e intanto lavorare per cercare comunque di aprire altri processi. In questo modo sarà poi possibile trarre bilanci più completi.
Ribadisco ancora una volta che l'apertura di un confronto con il centrosinistra in vista delle prossime elezioni regionali non c’entra niente con la questione del governo. Noi non chiediamo agli altri di cambiare collocazione rispetto al governo, e così pretendiamo che non lo chiedano a noi; al contempo la scelta che facciamo in merito agli enti locali può rafforzare, non indebolire, la lotta contro il governo e lo schieramento di maggioranza che lo sorregge.
Abbiamo una concezione ben diversa della politica rispetto ai balletti indecorosi che avvengono in questa settimana dentro il centro sinistra. Ma la critica radicale non ci può portare, per così dire, a buttare via il bambino con l'acqua sporca. Guardiamo ad esempio l'esperienza siciliana. Di fronte a un passaggio problematico nel quadro politico di quella regione, abbiamo ritenuto che era possibile tentare delle alleanze politiche non mutuate dagli schieramenti centrali, per aiutare a mettere in moto nuove forze della società. E infatti, proprio per questo, quel tentativo è stato fatto fallire, dalle forze che temevano quel cambiamento. Ma noi non ci dobbiamo pentire del tentativo prodotto, perché così abbiamo qualificato un’iniziativa e aperto un terreno programmatico.
Esattamente questo proponiamo per le prossime elezioni regionali in tutto il Paese. È più difficile, ma possiamo provarci cercando di far valere il ruolo programmatore degli enti locali e la proposta sociale. Non lasciamo le cose al caso, chiediamo programmi qualificati e candidature credibile per portarli avanti. Dobbiamo evitare la coazione a ripetere, a livello locale, di ciò che c'è al centro. Il rischio dell'astensionismo crescente si presenta infatti anche di fronte alla scadenza delle elezioni regionali.
Dobbiamo anche denunciare l'avventurismo che emerge dalla rissosità di governo interna al centro sinistra, nel senso che esso favorisce il tentativo di riscossa delle destre.
Dobbiamo sfruttare appieno questo periodo di lotta alla legge finanziaria, contrapponendole una complessiva visione alternativa di politica economica senza rinunciare a trovare convergenze su singoli punti. Ad esempio, di fronte alle pelose carità del governo, possiamo contrapporre la richiesta di un aumento consistente, per esempio 200 mila lire, per le pensioni minime, proponendo l'introduzione della Tobin tax per garantire la copertura finanziaria.
La situazione dei movimenti è ancora molto arretrata nel nostro paese. Però vi sono segni di disgelo, cui dobbiamo guardare con attenzione smisurata. Ad esempio in Piemonte il sindacato ha compiuto scelte di lotta importanti, all'Op computer come alla Teksind. La stessa presentazione della piattaforma rivendicativa della Fiat appare significativa e in controtendenza, rispetto alle logiche collaterali dei vertici confederali. Se guardiamo nella società vediamo movimenti piccoli ma significativi, come quelli degli inquilini, quelli contro l’elettrosmog, o quello che si è sviluppato a Cinecittà contro le scelte della Warner Bros, cui avevano già dato l'appoggio gli enti locali. Se guardiamo alla situazione europea vediamo sorgere movimenti di tipo nuovo, come quello dei paysans in Francia e quelli che contestano il prossimo vertice dell'Organizzazione mondiale del commercio a Seattle. Anche da noi vorremmo dare vita a esperienze simili.
Insomma si verificano segnali interessanti anche dentro le organizzazioni tradizionali, ad esempio dobbiamo guardare con estrema attenzione alla costruzione di una sinistra sindacale nella Cgil, contro le scelte di collateralismo con il governo della maggioranza confederale.
È nata la nuova rivista del "manifesto", in cui è impegnato qualcuno di noi, che non è ovviamente, ed è giusto che sia così, un'iniziativa del nostro partito, ma un importante terreno di ricerca possibile.
Guardiamo con altrettanta attenzione all'esperienza dell'Associazione per il rinnovamento della sinistra, presieduta da Aldo Tortorella, che ha recentemente tenuto la sua assemblea congressuale, in cui vi sono e convivono politiche e culture diverse, ma la cui esistenza comunque segnala un distacco dalle derive moderate della sinistra tradizionale.
La stessa sinistra dei Ds, seppure all'interno di una prevalente logica emendativa, ha dato vita a una mozione contrapposta a quella della maggioranza, per il prossimo congresso di gennaio dei Ds.
Dobbiamo altresì indagare più attentamente la dimensione europea dei movimenti e delle forze critiche e alternative.
Bisogna lavorare contro la destra e contro la "terza via" della sinistra moderata, e per farlo dobbiamo rendere ancora più visibile l'innovazione del nostro modo di essere aprendoci alla società. Per questo promuoviamo la Consulta, come ancoraggio per le forze critiche.
Tutto questo di per sé non risolve la costruzione di un evento a sinistra cioè di un fatto politico significativo che riapra una prospettiva antiliberista. Per parte nostra vogliamo aiutare la nascita di questo evento con la scelta di questo impegno e di questa apertura.