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CPN 22 - 23 ottobre 2025

Franco Ferrari

Intendo concentrare il mio intervento su tre punti che mi sembrano quelli cruciali per la definizione della nostra strategia nel prossimo periodo, una strategia che non può essere affidata agli eventi del giorno per giorno perché siamo entrati in scenari preoccupanti che non svaniranno da soli e in tempi brevi.
Il punto di partenza non può che essere una corretta definizione del contesto globale. Questo è caratterizzato in modo evidente, a mio parere, dall'ascesa di una destra reazionaria e conservatrice con elementi di fascismo. Dico "elementi" perché non siamo in presenza, per usare la formula degli anni trenta, di "una dittatura terroristica aperta", ma ciò non toglie che molti dei contenuti ideologici di questa destra che è globalmente all'offensiva, ripropongano contenuti che erano presenti nel fascismo "storico": darwinismo sociale, sciovinismo, razzismo, anticomunismo e antisocialismo, ecc.
Un punto sul quale non c'è condivisione nella sinistra più radicale attiene proprio alla definizione della fase globale. A me pare che la realtà ci ponga di fronte ad una cesura, tra un contesto di convergenza delle classi dominanti attorno ad una politica che poteva essere gestita quasi indifferentemente da partiti di destra o da partiti di centrosinistra o socialdemocratici, ad un netto spostamento a destra di queste classi capitalistiche dominanti. A volte per opportunismo, spesso per convinzione. La destra in ascesa non punta più ad una convergenza al centro (potremmo considerare la Merkel come rappresentativa di questo orientamento) e alla mediazione come strumento di composizione dei conflitti, ma gioca la carta della polarizzazione politica, sociale ed ideologica.
Questa ascesa della destra reazionaria e autoritaria non può essere interpretata solo in un'ottica italiana, perché si riscontra in contesti molto diversi. In Repubblica Ceca, dove si è votato da poco, la sinistra comunista e socialdemocratica, pur consistente anche dopo l'89, è scomparsa dal Parlamento. Tutto il sistema politico è composto da partiti che vanno dal centro liberale all'estrema destra. In Giappone il tradizionale partito conservatore che ha governato quasi ininterrottamente dal dopoguerra (venne definita la "balena gialla" per analogia con la DC italiana) ha eletto una premier ultranazionalista, razzista, anticinese, che ha rotto con il tradizionale alleato, espressione di un buddismo pacifista, per avvicinarsi ad una formazione politica di estrema destra.
Lo spostamento a destra verso governi che rimettono in discussione anche le forme, pur da noi considerate insufficienti, della democrazia capitalistica, attraversa sia l'Occidente che il Sud globale. L'India di Modi, paese che è difficile considerare in declino, si trova sullo stesso percorso e per molti aspetti lo ha anticipato. E lo stesso vale per altri paesi dell'America Latina tornati nelle mani di una destra molto aggressiva, che non mette in discussione solo le conquiste del movimento operaio ma anche tutti gli elementi progressivi dei grandi movimenti sociali antisistemici degli ultimi decenni.
In questo contesto oggettivo dobbiamo collocare la valutazione della nostra condizione soggettiva. Il Congresso ha riconsiderato criticamente la strategia perseguita, in parte dal 2008 (soggetto plurale dell'alternativa) e in parte dal 2011 (polo alternativo al centrosinistra e alla destra).
Quella strategia, basandosi su un bilancio realistico, è stata considerata esaurita. Ma in realtà questa decisione non l'ha presa il Congresso, l'hanno presa, e direi quasi imposta, le decine di migliaia di iscritti e le centinaia di migliaia di elettori che ci hanno voltato le spalle per orientarsi verso altre prospettive politiche ed elettorali o per ritirarsi dalla stessa azione politica. In gran parte, e questo è il punto decisivo, hanno operato questa scelta pur continuando a condividere largamente i nostri obbiettivi programmatici e i nostri principi di trasformazione sociale, perché hanno riscontrato la nostra progressiva e sempre più evidente inefficacia politica.
In più, la continua ricerca di nuovi contenitori, a volte pervicacemente costituiti con gli stessi soggetti con i quali abbiamo verificato differenze non superabili, hanno rischiato di determinare la dissoluzione del partito come soggettività politica autonoma.
Ora, se quella strategia si è dimostrata inefficace quando aderiva ad un'analisi sostanzialmente corretta dello scenario oggettivo (gli anni di Monti, Renzi, Letta, Draghi, ecc.) risulta veramente improponibile reiterarla quando non è più nemmeno fondata su un'analisi corretta della realtà nella quale ci troviamo a intervenire.
Prima di riprendere il tema delle conclusioni di ordine strategico che derivano da quest'analisi, voglio fare un paio di considerazione sull'emergere, negli ultimi mesi, di alcuni importanti momenti di mobilitazione. Abbiamo partecipato allo straordinario movimento di solidarietà con il popolo palestinese che sicuramente rappresenta un momento di rottura per il grande coinvolgimento che in esso si è riscontrato di ragazzi e ragazze (e queste ultime forse ancora più numerose). Più difficile comprendere oggi se e in che modo avrà un impatto politico e sociale nel lungo periodo. Di certo non può essere rinchiuso in operazioni strumentali e piattamente elettoralistiche. Ciò che sta avvenendo in Palestina, su cui non mi dilungo, impone certamente la costruzione di una piattaforma politica più articolata e obbiettivi più precisi se vogliamo che il movimento non si disperda.
Ma ciò che ritengo altrettanto necessario è anche non isolare questo movimento da altre mobilitazione che abbiamo visto crescere, pur con dimensioni diverse, su altri temi. Mi riferisco a quelle contro la guerra di StopRearm e della Marcia Perugia-Assisi, la più partecipata di sempre e con una presenza significativa del mondo cattolico, contro il DL Sicurezza o contro l'autonomia differenziata. E non possiamo archiviare i 12 milioni di sì al referendum contro il jobs act promosso dalla CGIL.
Queste diverse, ma non contrapposte, mobilitazioni vanno ricondotte il più possibile ad un processo unitario ma questo non può avvenire per giustapposizione, mettendo un tema a fianco all'altro, quanto rispondendo alla domanda politica generale che essi propongono.
Per dirla schematicamente, quando scendono in campo milioni di persone queste sollevano il tema del potere. Detto in altri termini: del mutamento di direzione politica del Paese, il cui passaggio fondamentale e ineludibile è la sconfitta dell'attuale governo di destra. Tutti i movimenti che abbiamo visto all'opera si sono posti direttamente all'opposizione delle politiche del governo Meloni ma anche, più a fondo, di tutta la costruzione ideologica e di valori che questo governo rappresenta. Contemporaneamente queste stesse mobilitazioni indicano la necessità anche di una rottura programmatica, che significa costruzione di una diversa coalizione sociale, rispetto al decennio perduto della convergenza sulle politiche di austerità e di neoliberismo.
Sbaglia, a mio parere, chi pensa che si possano rinchiudere le richieste politiche che provengono da milioni di persone, nell'ennesimo contenitore nel quale tentare la ricomposizione di gruppi politici dell'estrema sinistra, magari mettendo al timone qualcuno al posto di qualcun altro.
La nostra proposta politica l'abbiamo sintetizzata, nel documento dell'ultima direzione nazionale come quella del "fronte costituzionale, antifascista, pacifista e popolare".
La parola "fronte" ha una lunga storia nelle vicende del movimento operaio e comunista. Ancora oggi è utilizzata o ripresa in vari Paesi. Pensiamo al "Nuovo Fronte Popolare" francese, al "Fronte Ampio" uruguayano o anche al "Fronte Democratico per la Pace e l'Uguaglianza" in cui operano i comunisti israeliani.
Il "fronte" deve essere inteso come la convergenza di forze politiche e sociali diverse e autonome, che tali restano, su una determinata proposta politica. Questa può essere su singoli temi. E questo livello l'abbiamo praticato in questi mesi su questioni diverse. Abbiamo partecipato e contribuito a costruire movimenti di massa: dall'autonomia differenziata al referendum della CGIL, da StopRearm al movimento per la Palestina e così via. In questi ci siamo trovati con soggetti e politici diversi a volte lontanissimi da noi su tutte le altre questioni politiche e lo abbiamo potuto fare perché in essi (a differenza di contenitori ibridi nei quali si perdeva la nostra sovranità) resta intatta, anzi valorizzata, l'autonomia del nostro partito.
I due dati caratteristici della situazione politica nella quale operiamo, l'ascesa globale di una destra autoritaria e reazionaria con elementi di fascismo e la ripresa di un ritorno di mobilitazioni popolari che si collocano contro il governo di destra ma anche per una politica di rottura su punti fondamentali che con i governi di "unità nazionale", richiedono una proposta politica più articolata ma non meno precisa. Quindi un "fronte" che definisca, a partire dalle richieste espresse da queste mobilitazioni, un contenuto programmatico qualificato.
Chi pensa che la nostra strategia politica sia inevitabilmente condizionata e ingabbiata dal dover andare con questi o con quelli, ha interiorizzato la subalternità del partito come elemento strutturale. Immaginandosi poi un ruolo, per altro non richiesto, di mosca cocchiera. Al contrario noi dobbiamo chiamare gli altri a misurarsi con la nostra proposta strategica e politica perché questa, secondo noi, è quella che più risponde ai bisogni materiali come ai sentimenti più profondi di uguaglianza e di libertà espressi da tanta parte del popolo italiano.

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