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CPN 5 - 6 luglio 2025

Daniela Alessandri

La relazione del segretario conferma una strategia ormai ben chiara: l'adesione al "campo largo" come asse portante della politica del PRC . Una scelta che normalizza il PD e delegittima ogni alternativa di sinistra, a cominciare da PAP. Si invoca una "opposizione unitaria", ma senza toccare il nodo centrale: il PD è corresponsabile delle politiche che hanno aperto la strada alla destra. Ha promosso austerità, precarizzazione (Jobs Act), fedeltà alla NATO. Ha ridotto i diritti sul lavoro e rafforzato le compatibilità del capitale.
Si sorvola sul fatto che l'UE, con il piano "ReArm Europe", ha stanziato 800 miliardi per il riarmo. Il PD, anche su questo, si è diviso: 10 favorevoli, 11 astenuti. Schlein parla di "difesa comune",e resta interna a una logica bellicista. E allora: quale unità si vuole costruire, e con chi?
Dobbiamo essere chiari: l'unità non può significare accodarsi a chi sostiene l'invio di armi a Kiev, siede nei CDA di Leonardo, evita di chiamare "genocidio" quello che accade a Gaza, non propone né sanzioni né boicottaggi. L'inclusività va bene, ma non a ogni costo. Non si può costruire un fronte con chi finanzia la guerra mentre finge di invocare la pace.

Ci raccontano che "il PD è cambiato". Ma quanto è cambiato davvero? E da quando la sua metamorfosi è diventata il presupposto per un nostro riposizionamento strategico? Il rischio è chiaro: non più convergenze tematiche, ma dissoluzione identitaria. Non una sinistra autonoma, ma una stampella del progressismo istituzionale.
Il 7 giugno, per rispondere alle critiche che sono arrivate al cosiddetto spezzone del regionale Laizo, non abbiamo sfilato accodandoci: abbiamo scelto una posizione autonoma, visibile, coerente. E abbiamo parlato con tanti, anche nel M5S e nel PD. Nessuna divisione quindi dal partito, ma un'aggiunta politica. La manifestazione del 21 giugno ha mostrato che un vero movimento di massa contro guerra e riarmo non esiste ancora. Due piazze, poca sinergia, responsabilità precise.
Il PRC non ha lavorato davvero per unificare i percorsi. Ha scelto di starne fuori. Chi ha detto qui che "non toccava a noi" dimentica il ruolo che dovrebbe avere un partito comunista: costruire ponti, non muri. E invece si è preferita la contrapposizione. Con un'aggressività verso PAP che rasenta l'ossessione, mentre col PD si usano guanti bianchi. Perché?

Questa ostilità verso PAP – che viene accusata di tutto – è sproporzionata. Nessuna analisi lucida, solo livore. Un atteggiamento che non riserviamo nemmeno a chi vota il riarmo o giustifica l'occupazione israeliana. Ma guai a parlare con chi è "troppo radicale". Eppure, se vogliamo davvero interloquire con "tutti i pezzi", come diceva Schiavon, dobbiamo includere anche quella sinistra che non si piega alle compatibilità.
I referendum sul lavoro promossi dalla CGIL – cui abbiamo contribuito con serietà – sono falliti. Ma il problema non è solo il quorum: è l'assenza di una soggettività sindacale autonoma, conflittuale, capace di trasformare rivendicazioni in lotta reale. Senza una presenza nei luoghi di lavoro, ogni iniziativa resta vuota. La rappresentanza è diventata amministrazione, non più conflitto. E chi prova a riattivarlo – sindacalismo di base, reti autorganizzate – viene isolato, deriso o ignorato.
E mentre la crisi sociale avanza, il contesto internazionale si fa drammatico. Siamo dentro una fase pre-bellica. Militarizzazione dell'economia, logica dei blocchi, complicità bipartisan. Ogni ambiguità su questi temi ci rende irrilevanti. I coordinamenti contro la guerra devono nascere dal basso, su basi radicali, senza compromessi.

Quando abbiamo sollevato tutto questo al congresso, ci è stato detto che facevamo "polemiche". Ora è evidente: il problema non è il dialogo tattico, ma la perdita di una linea autonoma. Il nostro profilo è sbiadito, la funzione comunista sacrificata sull'altare dell'unità acritica.
E sì, il segretario ha detto: "Abbiamo fatto una scelta". Vero. Ma l'abbiamo fatta in modo teocratico, senza confronto, partendo sempre da "metà partito". I precedenti CPN? Riunioni tecniche senza confronto politico. È questa la democrazia che rivendichiamo?
Il punto non è chiudersi. Ma senza un profilo radicale, autonomo, internazionalista e anticapitalista, siamo solo un'ombra in un campo che non ci appartiene. E in questa fase storica, dissolverci significa arrenderci.

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