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CPN 29 e 30 giugno 2024

Dino Greco

Condividendo la relazione di Acerbo, l’analisi sul voto, quella sulla fase e sui compiti urgenti che ci attendono nel futuro prossimo, concentro il mio intervento sul tema che solo un recidivante istinto suicidiario può indurci a rimuovere.

Mi riferisco allo stato patologico, ormai cronicizzato, dei nostri rapporti interni, da separati in casa, che perdurando, porterebbe definitivamente alla fine ravvicinata della storia di Rifondazione comunista.

L’apparente paradosso di Pap che arriva a votare per ASV solo per togliere voti a PTD, riproduce all’esterno del Prc la dinamica politica perversa che domina la nostra ingessata e incartapecorita vita politica interna che, a parte il conflitto inestinguibile che ha generato, da tempo non produce più niente. E non produce più niente perché da tempo niente è divenuto più importante, più dirimente, della resa dei conti interna.

Come in una Commedia dell’assurdo di Samuel Beckett o di Eugène Jonesco due schieramenti si fronteggiano in un duello fratricida che non può avere per conclusione fatale altro che la distruzione di entrambi: gli uni all’attacco del fortino e gli altri, in difesa strenua, costretti a buttare pece bollente sugli assalitori.

Con quale esito è presto detto. Anzi, se l’assedio avesse già avuto fortuna non avremmo più, già da tempo, né vinti né vincitori, né Rifondazione comunista.

Per altro, gli scricchiolii sono sempre più forti nel già sfibrato corpo del partito e rischiano di preludere ad un cedimento strutturale, altro che rinnovato radicamento sociale. A meno che qualcuno non pensi che l’espulsione di una metà di ciò che resta di questo sgangherato partito lo aiuterebbe a rinnovarsi, pardon, a rigenerarsi, a rifiorire, con l’apporto decisivo di quella formazione settaria, che pratica l’autoreferenzialità all’ennesima potenza, che si chiama Pap.

Ognuno sa che dal giorno successivo alla conclusione dell’ultimo congresso tutto il confronto interno è stato ingoiato da una sola questione ritenuta decisiva, il potere.

Ho detto e scritto, più volte, cosa penso delle principali responsabilità di questo abnorme sconquasso, ma quello che mi importa oggi sottolineare è che la reiterazione del processo permanente al segretario (condita con ogni sorta di accuse, a geometria variabile, in un’atmosfera sempre più irrespirabile) ha prodotto quella che definirei, tecnicamente, una situazione di assedio reciproco e, come sottoprodotto, di afasia politica.

Quando l’assillo di fondo è da che parte schierarsi la discussione fra di noi non è più un libero confronto fra donne e uomini liberi, frutto cioè di un’autentica dialettica, perché il riconoscimento della parziale verità che c’è nel punto di vista dell’altro diventa motivo di sospetto. Così non si produce niente, perché come nel peggiore dei talk show, è la rissa che regola il gioco.

Naturalmente c’è un nodo politico di fondo, che non è mai stato affrontato con la necessaria serenità, quello di Unione popolare o, più precisamente, del rapporto con Pap.

Unione popolare è irrimediabilmente naufragata perché in Pap non è mai venuto meno l’antico obiettivo di liquidare Rifondazione ed ingoiarne un pezzo, come 5 anni fa, questa volta con il fattivo contributo di una parte di noi persuasa che il nostro futuro stia altrove e che Pap rappresenti un enzima, una sorta di elisir, di farmaco prodigioso capace di rivitalizzare (pardon, rigenerare) il nostro corpaccione anchilosato.

Dove la linea politica perseguita da Pap è quella di non dialogare con nessuno, di crescere e svilupparsi per partenogenesi, di negare qualsiasi spazio alla politica, alla capacità tattica di movimento e di trasformare la strategia in pura, millenaristica propaganda ideologica e, indefinitiva, di coltivare con orgoglio il proprio strutturale minoritarismo, cioè di fare del proprio isolamento un motivo di autoesaltata riconoscibilità identitaria.

E’ la deriva di ogni formazione che più si fa piccola e più accentua il proprio estremismo: Raul Mordenti ha scritto da qualche parte che “La predicazione estremistica non guarda alle masse, guarda a se stessa; è una forma diversa della stessa figura: lo specchio”. Difficile dire meglio di così.

Rimane oscuro capire cosa questo rinculare nel settarismo abbia a che fare con un partito comunista e con la nostra dichiarata intenzione di rifondare il comunismo nel tempo moderno.

La regressione, prima di tutto culturale, di una simile deriva è davvero impressionante.

La scelta di sostenere PTD era la sola possibile per la centralità, non rintracciabile altrove, data alla questione della pace e dell’opposizione alla guerra. Nell’impostazione di Santoro non tutto era limpido, ma c’era un campo vasto da riempire, cosa che si è fatta molto parzialmente, almeno da parte di chi ci ha provato.

Se questa opzione non ha prodotto ciò che era auspicabile non è avvenuto solo per il colpevole ritardo con cui il partito, dilaniato al suo interno, ha prodotto quella scelta, con qualcuno rimasto anche dopo a guardare e qualcun altro ad attendere sulla sponda del fiume; e neppure solo per l’egotismo da Ayatollah di Michele Santoro, che pure c’è stato, ma per il fatto ben più importante, anzi decisivo, che quella maggioranza della popolazione italiana che si è genericamente dichiarata per la pace e contro la guerra non si è trasformata, non abbiamo saputo trasformarla, in Italia, in un grande movimento di massa, capace di divenire un vero soggetto politico, tale da distribuire a tutti nuove carte e da produrre, per conseguenza, anche un importante esito elettorale.

Questa realtà incontrovertibile ha prodotto il fatto che una parte di elettorato, soprattutto giovanile, ha ritenuto che nella scarsa visibilità di un’offerta politica forte, la sola cosa utile, per qualcuno addirittura rivoluzionaria, fosse quella di garantire a Ilaria Salis l’immunità parlamentare e tirarla fuori dall’Ungheria di Orban. E questo al netto dell’opportunismo di chi ha usato questo e altri escamotage per raccogliere consensi.

A questo proposito, vorrei ricordare che i Verdi della coalizione che ha dato vita ad AVS fanno parte del raggruppamento europeo che nel congresso di Lione del febbraio scorso ha abbandonato la propria vocazione pacifista, dichiarando che fondamentale è sostenere con ogni mezzo militare la guerra in Ucraina, che le spese militari devono aumentare cospicuamente e che la Nato va rafforzata promuovendone il coinvolgimento diretto nella guerra.

E’ a costoro che Pap ha formalmente orientato il proprio voto perché ciò che contava era ostacolare PTD e il Prc aveva deciso di farne parte e sostenerla.

Ora che fare?

Non so se Santoro vorrà fare un suo partito, avviare una costituente o formarlo d’imperio lungo la tradizione personalistica dilagante. Se lo farà sarà il suo partito. Con il quale stabilire rapporti, in quanto utili e possibili, ma niente di più.

Se invece pensa ad un movimento plurale e paritario, composto da più soggetti, ben visibili e rispettosi dell’identità culturale e politica di ciascuno, accomunati nella battaglia per la costruzione di un movimento di massa contro la guerra e per la pace, allora ci si dovrà lavorare, ma in termini ben diversi da quelli che hanno caratterizzato il verticismo della stagione elettorale.

Quello che so per certo è che l’imperativo è fare vivere e sviluppare il movimento contro la guerra. A meno che non si pensi che i rischi di conflitto totale siano immaginari e che basti la deterrenza nucleare a impedire che l’umanità intera precipiti nell’abisso.

Ora, però, c’è un problema urgente al quale dedicarsi. Ed è la ricostruzione dell’autonomia, dell’identità culturale, politica, strategica di Rifondazione comunista, una ricerca da tempo arenatasi e con essa una dedizione al radicamento organizzativo sociale e territoriale che segna il passo. O si ricomincia da qui o non ci sarà nessuna rigenerazione all’orizzonte e non ci sarà nessun esperimento di rivitalizzazione mesmerica che potrà resuscitare un vero senso all’esistenza del Prc.

In conclusione, se anziché raccogliere questa sfida impegnativa nelle prossime settimane e nei prossimi mesi dovessimo replicare il gioco autodistruttivo di questi anni, la fine di Rifondazione sarebbe già scritta. E l’intera dinamica politica nel nostro paese si ridurrebbe alla competizione fra centrodestra e centrosinistra, una competizione tutta interna alla comune fedeltà atlantica e agli interessi delle classi dominanti. Non ci sarebbe neppure più bisogno dell’invocazione del “voto utile” perché tutto si giocherebbe nel recinto dei poteri costituiti, con grandi masse proiettate fuori dalla politica e consegnate ad una strutturale, forse definitiva subalternità.

La proposta di Mordenti di organizzare, da qui al congresso, alcuni seminari su temi di cruciale importanza va afferrata al volo e da tutti.

Insomma, o siamo capaci, tutti insieme, di raccogliere la sfida a questo livello, o ci impegneremo nella costruzione di un solido impianto culturale della nostra strategia e della nostra intelligenza tattica, oppure la partita è già chiusa e toccherà ad altri, ad altre generazioni, non saprei immaginare quando, ricostruire le condizioni di un antagonismo politico e sociale che oggi è residuale quando non del tutto assente.

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