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CPN 17-18 dicembre 2022

Dino Greco

Vi confesso che la tentazione di incrociare i ferri è forte, ma resisterò perché quando vieni trascinato in una rissa c’è sempre il rischio che fra i contendenti qualcuno non capisca la differenza.
Cercherò dunque di parlare di politica, che è la vera cosa che mi interessa e che tutti dovremmo fare.
Primo: Penso che bisogna compiere ogni sforzo perché Unione popolare continui ad esistere. Quindi che duri e non si riduca soltanto ad uno degli episodi transeunti di questa nostra eterna transumanza da una coalizione all’altra. Se al primo tornante riusciremo a distruggere anche Unione popolare infliggeremo al morale non troppo alto dei nostri militanti un colpo difficilmente riassorbibile.

Le elezioni ovviamente non sono tutto e neppure il prevalente, ma oggi, come ieri e anche domani sarà ineludibile la questione della partecipazione alle consultazioni elettorali, croce di tutta la nostra storia.
Ora, lo voglio dire nel modo più netto, io penso indispensabile che Up debba cercare, con ogni determinazione e in quanto possibile, alleanze elettorali. Ce lo suggerisce il buon senso e ce lo impone questa fetente legge elettorale. Ci sono certo condizioni minime che devono essere soddisfatte: un programma accettabile, l’alternatività al centrosinistra e poche altre cose essenziali.
Chi, ammalato di inguaribile spirito settario, pensa che Up possa crescere su se stessa, guardandosi l’ombelico e svilupparsi per “partenogenesi”, respingendo aprioristicamente qualsiasi confronto, sbaglia di grosso e si condanna (ci condanna) ad uno sterile arroccamento identitario, figlio di una cultura minoritaria che non si propone nessun concreto obiettivo di cambiamento della realtà esistente.

Questa è però solo una parte del ragionamento.
L’altra ha anch’essa a che fare con il principio di realtà: cosa facciamo quando ogni tentativo di costruire un’alleanza elettorale, sinceramente e con convinzione perseguito si rivela infruttuoso? Oppure quando la sola possibilità che ci si presenta è quella di essere cooptati in un ruolo gregario dentro uno schieramento che snatura il nostro programma e la stessa ragione della nostra esistenza, cioè l’essere alternativi al centrodestra e al centrosinistra. Cosa facciamo? Ci asteniamo dal presentarci e scaldiamo i muscoli in attesa che maturino tempi diversi e che qualcuno, prima o poi, ci offra un salvagente a cui aggrapparci? Rinunciamo cioè alla nostra autonomia e certifichiamo la nostra dipendenza da altri?

La “condanna” di ogni partito, o anche di una semplice coalizione, impone di partecipare alle elezioni. Se non lo fai risulti invisibile, perché vuol dire che non possiedi un’idea di paese, o di regione, o di comune da contrapporre a chi governa o amministra. Confermi, cioè, implicitamente, che c’è un recinto, gelosamente custodito dagli attuali protagonisti della scena politica, al di là del quale non esiste e non può esistere nulla. Allora, quello che resta, più che “un voto utile”, diventa un voto “coatto”.

Conosco l’obiezione: riscuotere un risultato scarso, o scarsissimo - l’incubo dello zerovirgola, per capirci - delude, mortifica, scoraggia. E, vi assicuro, non solleva neanche il mio umore. Ma nascondere la propria attuale marginalità sotto il tappetto in modo tartufesco esorcizza la realtà delle cose, ma non le cambia. E neanche questa mi pare una buona soluzione.
Io credo che molti/e di noi sottovalutino e, contemporaneamente, sopravvalutino l’appuntamento elettorale. Lo si sottovaluta perché si pensa che l’approdo istituzionale non serva perché conta solo il “sociale”, ed è un errore; lo si sopravvaluta perché, all’opposto, si considera l’esito come una sorta di “certificato di esistenza in vita”, sulla base di un presunto primato assoluto del “politico”, ed è un altro errore.
I nostri veri maestri, i comunisti che si batterono nelle condizioni più disperate, non esitarono mai a presentarsi alle elezioni, almeno finché non fu loro impedito “manu militari”.

Allora, io penso che fra il settarismo e il politicismo c’è forse quella che è la via maestra: stare con continuità dentro i conflitti, cogliere ogni movimento reale della società e la ripercussione che quel movimento esercita sulla politica: rendersi capaci dell’analisi differenziata e metterla al servizio di una intelligente capacità di azione politica.
Insomma, occorre capire che non ci si trova mai “nella notte dove tutte le vacche sono nere” e, nello stesso tempo, prepararsi ad una lunga marcia, perché non esistono scorciatoie che trasformino in un batter di ciglio i brutti anatroccoli in magnifici cigni.
Così si salda la tattica alla strategia e si evitano i due rischi capitali: il primo: quello di fare della strategia l’unica tattica, che significa declinare in ogni momento, se stessi, con ossessiva ripetitività, vietandosi ogni possibilità di manovra politica e consegnandosi ad una predicazione millenaristica; il secondo: quello di fare della tattica, la sola strategia, perdendo di vista l’obiettivo, cedendo all’improvvisazione, all’elettoralismo fine a se stesso che alla fine conduce all’opportunismo.

Se su questi nodi cruciali, come a me pare si manifestano posizioni inconciliabili, è bene venire in chiaro. Talvolta per fare un passo avanti è necessario dividersi, nella chiarezza. Con un mandato chiaro a chi deve dirigere il partito. A chiunque tocchi dopo questo Cpn. Perché in questo modo non si può più andare avanti.
Perdonate se ho un po’ abusato delle metafore, ma è per farmi capire più in fretta. Almeno questo credo di averlo fatto.

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