Riproduzione e tendenze del capitale (Tesi aggiuntiva)
1. C’è una legge di tendenza storica nel processo di riproduzione del
capitale che consiste nel fatto che il suo tasso di rendimento è sistematicamente
più alto del tasso di crescita del reddito: i patrimoni ereditati subiscono
un incremento continuo rispetto ai redditi da lavoro, con un conseguente
aumento della disuguaglianza fra chi vive di ricchezza e chi vive di
lavoro (Piketty). Persino il World Economic Forum di Davos, che non
è certo un luogo di lotta rivoluzionaria, rende noto che solo otto persone
detengono la stessa ricchezza posseduta da 3,6 miliardi di persone,
ossia di circa la metà della popolazione mondiale.
Il capitale, dunque, non solo tende a crescere rispetto al reddito,
ma anche e soprattutto a concentrarsi in sempre meno mani, blindato
nei fortificati templi della finanza. Con la conseguenza particolare
che i grandi capitali si mangiano i piccoli. Nasce così una lotta, ma
tutta interna alla classe capitalistica, una lotta distruttiva per i
gruppi sociali intermedi: piccoli capitalisti, ceti medi più o meno
riflessivi, borghesia minore, esponenti delle professioni, quadri privati
e pubblici, padroncini e rentiers marginali. Si verifica, in altri termini,
una tendenza spinta alla polarizzazione delle classi. Ma l’afasia ormai
cronicizzata del movimento operaio e delle sue organizzazioni è tale
da vanificare la possibilità di costruire un fronte eterogeneo, ma potenzialmente
vasto, di opposizione al paradigma economico-sociale dominante. La residualità
dei subalterni – potremmo dire con linguaggio gramsciano – accresce
la possibilità di risoluzione pacifica delle contese fra grandi e piccoli
capitali. Il rischio, tutt’altro che peregrino, è che alla fine si ricomponga
una sintesi di interessi sotto l’egida del grande capitale e che una
nuova destra emergente sorga da una sintesi dialettica tra grandi capitali
e quel che resta dei piccoli. Con l’altra, letale conseguenza che alla
concentrazione del capitale corrispondono un’altrettanto violenta concentrazione
del potere, incompatibile con il mantenimento della democrazia, persino
nella versione liberaldemocratica, e una compromissione profonda delle
libertà, dei diritti e, al limite, della pace. Esperimenti di fascismo
in salsa liberista non sono del resto mancati nella storia e non c’è
ragione di ritenere che non possano riprodursi oggi. Il fascismo è un
virus interno alla meccanica stessa del capitale, che si alimenta delle
contraddizioni innescate dalle crisi capitalistiche: c’è un’amara ironia
nella potenza della formazione economico-sociale capitalistica giunta
al massimo livello del suo sviluppo.
2. Nei paesi sviluppati, il rapporto di lavoro salariato è ormai giunto
al termine e giorno dopo giorno diventa sempre più difficile riprodurlo
(Mazzetti). Si determina cioè, nel rapporto di capitale, una non transeunte
entropia occupazionale. E ciò in quanto il sistema retto sul rapporto
di capitale è andato progressivamente a sbattere contro quello che Marx
definì il suo limite “interno”, un limite che rende via via decrescente
la remunerazione del capitale in rapporto all’investimento fisso. Tutte
le manovre antagonistiche messe in atto per frenare la caduta del saggio
di profitto, anche quelle inventate dalla più sofisticata tecnica finanziaria
speculativa, non hanno potuto rovesciare la tendenza pluridecennale
alla contrazione della crescita in tutto l’Occidente: prosperano i grandi
detentori del capitale, periclitano tutti gli altri.
3. La tesi classica che ispira le teorie mercatiste è che le cosiddette
forze spontanee del libero mercato, quelle della domanda e dell’offerta,
debbano determinare i livelli del tasso di interesse, del tasso di profitto
e del salario reale, nonché dei livelli di occupazione ottimali che
portano l’economia in “equilibrio naturale”: un equilibrio perfetto,
dotato dei crismi della scienza; un equilibrio che non ammette variabili
indipendenti, men che meno l’interferenza della soggettività politica.
Questo significa che se tu lotti per cercare di aumentare il salario
oltre il livello determinato dall’equilibrio del mercato, la conseguenza
dovrà essere una caduta dell’occupazione e della produzione. In altre
parole: il conflitto sociale fa solo danni.
Qui non siamo, con tutta evidenza, nel regno della scienza, ma in quello
dell’ideologia, che oscura il dato essenziale e cioè che il mercato
non prevede il futuro, ma lo determina secondo gli interessi della classe
egemone: una china pericolosa su cui sono purtroppo ruzzolate le organizzazioni
sindacali e parti importanti della post-sinistra. Le quali, non a caso,
hanno abbandonato la più strategica delle rivendicazioni sindacali,
la sola, a ben vedere, capace di affondare i denti nei rapporti di produzione,
quella della redistribuzione del lavoro, di una consistente riduzione
dell’orario di lavoro a parità di salario.
4. Continuiamo – giustamente – ad affermare che solo nelle trasformazioni
sociali operate dal movimento oggettivo del capitale, un’intelligenza
collettiva può trovare condizioni favorevoli per il rovesciamento del
rapporto di produzione.
In sostanza, o ti sai portare a quel livello dello scontro o sei destinato
a girare in circolo e a soccombere, tornando e ritornando a quel “punto
zero” di cui parla con un certo sconforto Giovanni Mazzetti, riferendosi
ai nostri perduranti limiti.
Tre linee sono allora da scongiurare: a) il vezzeggiamento verso i piccoli
capitali e le loro rappresentanze politiche, intrise delle illusioni
del populismo interclassista; b) la tentazione di replicare l’illusione
secondointernazionalista – propugnata anche da insospettabili pulpiti
della sinistra nostrana - che il movimento oggettivo del grande capitale
porti in sé al rovesciamento rivoluzionario dei rapporti sociali; c)
l’opzione rinunciataria in base alla quale, di fronte ad un capitalismo
che si crede in grado di riprodursi senza autodistruttive contraddizioni,
sia in termini economici che di consenso, l’unica cosa da fare per la
sinistra è stare al gioco e lamentarsi solo ogni tanto per invocare
un po’ di redistribuzione a valle del processo produttivo.
Bisogna allora chiedersi se non occorra individuare una chiave, che
divenga anche una parola d’ordine, una sorta di bandiera per l’egemonia.
E se questa chiave non possa consistere nella riscoperta della modernità
della pianificazione collettiva, affrancata dalla storiografia mainstream
del Novecento e ridotta a pura propaganda anticomunista dagli odierni
apparati ideologici che la identificano con la stalinizzazione, cioè
come un intrinseco fattore distruttivo delle libertà individuali. Per
dirla con Brancaccio: “una leva forte, la più forte mai concepita nella
storia delle lotte politiche, l’unica potenzialmente in grado di piegare
la legge del movimento del capitale prima che ci affossi nella catastrofe,
intesa questa volta nel senso inedito e sovversivo di fattore di sviluppo
della libera individualità sociale e di un nuovo tipo umano liberato”.
Per farlo occorre superare le nostre pigrizie e tornare ad una discussione
che attraversò il movimento comunista europeo dopo la seconda guerra
mondiale per essere in seguito sciaguratamente abbandonata. Si tratta,
appunto, del rapporto tra piano e libertà, tra proprietà pubblica e
proprietà sociale: un terreno ancora tutto da esplorare.
Proprio Karl Marx si occupò di questo tema cruciale. Nella sua riflessione
il controllo collettivo della totalità delle forze produttive è condizione
per lo sviluppo della totalità delle capacità individuali. Alla base
di questa intuizione c’è il progetto di una società in cui i produttori
associati, riuniti in libere e democratiche istituzioni, divengano capaci
di impadronirsi del proprio destino che il capitalismo invece affida
a forze estranee.
La formula che più si avvicina, per approssimazione, a questo ideal-tipo,
è scritta nel secondo comma dell’articolo 41 della Costituzione, dove
si legge che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni
perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata
e coordinata a fini sociali”. Lo sviluppo progressivo della democrazia
e la lotta di classe dovevano inverare tutte le potenzialità intrinsecamente
presenti in questo passo della Carta.
La libera espressione dell’individualità si deve manifestare dunque
nella repressione della libertà estraniante del capitale finanziario
per affidare ad un progetto collettivo la determinazione di “cosa, quanto
e per chi produrre”.
Dino Greco
Valeria Allocati
Maruzza Battaglia
Michela Becchis
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Stefano Cristofori
Frank Ferlisi
Manuela Grano
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