La crisi sanitaria, economica e sociale prodotta dalla pandemia causata
dal virus SARS Covid 19 ha evidenziato le profonde contraddizioni del
capitalismo e in particolare dalle forme aggressive assunte nella ormai
lunga epoca dell’egemonia neoliberista. Si tratta dell’ennesima manifestazione
della crescita cumulativa del potenziale di catastrofe, come caratteristica
intrinseca di un modo di produzione che pone al primo posto l’accumulazione
di capitale e non i bisogni sociali. Sfruttamento, guerre, razzismi,
disastri ecologici, fame, contraddizione di genere e patriarcato non
sono residui di un passato in via di superamento, ma elementi costitutivi
della “modernità” del capitalismo. Ne deriva la necessità di una critica
radicale, indispensabile per immaginare alternative, ma anche per contrastare
i processi in atto e limitarne gli effetti distruttivi.
L’affermarsi del capitalismo come unico mondo possibile non ha corrisposto
alle promesse degli apologeti, anzi dalla fine degli anni ’80 si è assistito
all’accumularsi di vere e proprie catastrofi. Assistiamo oggi alla convergenza
su scala planetaria di crisi ecologica, crisi epidemiologica, crisi
economica a carattere permanente, instabilità egemonica globale e guerre.
La globalizzazione neoliberista ha riorganizzato le forme, gli spazi
e le gerarchie dello sfruttamento imperialista e le catene del valore,
ha svuotato le democrazie, smantellato i sistemi di protezione sociale,
ha aperto la strada al risorgere di fascismi e ideologie razziste, nazionaliste
e fondamentaliste.
Il virus SARS-CoV-2 ha la sua origine e si è diffuso nella realtà della
globalizzazione neoliberista. In particolare nell'agrobusiness globale,
che sta distruggendo foreste e aree rurali, compromettendo gli ecosistemi
e le specie viventi, creando monocolture industriali vettori di trasmissione
di malattie lungo i circuiti del capitale.
E’ emersa la contraddizione enorme tra la ricchezza dei Paesi capitalistici
occidentali, con i loro potentissimi arsenali militari, e la loro incapacità
di limitare gli effetti negativi sulla propria popolazione. L’impreparazione
e la stessa gestione dell’emergenza sanitaria rappresentano una chiara
prova del fallimento di un modello economico e sociale neoliberista
che non dà la priorità ai bisogni sociali e alla salute pubblica. Le
politiche di austerità, con i tagli e la privatizzazione della sanità,
insieme allo strapotere del padronato che ha impedito una chiusura efficace
delle attività non essenziali, hanno prodotto una strage evitabile in
tutti i Paesi capitalistici avanzati.
Anche il virus ha offerto l’occasione per la riproposizione della logica
di quello che Naomi Klein ha definito il “capitalismo dei disastri”,
la crisi come occasione di ulteriore dispiegamento delle capacità predatorie
del grande capitale. Lo si vede dalle forti resistenze delle multinazionali
del farmaco alla necessaria sospensione della proprietà intellettuale
sui brevetti per i vaccini e le cure anti-covid e dal cosiddetto “imperialismo
vaccinale”. I Paesi occidentali hanno messo i fondi e la potenza degli
Stati al servizio del profitto monopolistico di “Big Pharma”, impedendo
la concorrenza dei farmaci generici e limitando la produzione in tutto
il mondo. I profitti sono stati tutelati anche a costo di produrre milioni
di morti evitabili nei Paesi poveri.
Per usare un’espressione di Engels il capitalismo continua a commettere
“omicidi sociali” su scala planetaria. E anche nella pandemia si è manifestata
la tendenza all’apartheid globale che riguarda i rapporti economici,
come le questioni climatiche e il saccheggio di territori e oceani come
testimoniano le migrazioni in atto che peraltro ricadono in maniera
risibile sul continente europeo. Dal 2020 si è aggravata la catastrofe
umanitaria rimossa della fame e della malnutrizione che, secondo i dati
dell’ONU, colpivano nel 2018 una persona su nove – più di 821 milioni
di persone - nel mondo. La promessa di pace del libero mercato globale
è contraddetta dalle nuove forme di imperialismo, dal proliferare di
guerre e dalla crescita esponenziale delle spese militari.
La stessa emergenza ambientale - il cambiamento climatico e più in
generale il livello di inquinamento e devastazione del pianeta - è causata
dal sistema di accumulazione del capitale. La crisi ambientale nei suoi
molteplici aspetti (tra cui emissioni climalteranti, acidificazione
degli oceani, estinzioni di specie e riduzione della biodiversità, interruzioni
del ciclo dell'azoto e del fosforo, diminuzione della disponibilità
di acqua dolce, perdita di foreste e inquinamento chimico) non può essere
affrontata dentro una logica capitalistica che pone al primo posto una
folle ragione economica che costituisce una minaccia permanente per
l'ambiente. Il capitalismo, sistema di accumulazione del capitale basato
sullo sfruttamento del lavoro e della natura, non riconosce limiti alla
propria autoespansione. La ricerca senza limiti del profitto tende a
travolgere tutte le considerazioni di ordine sociale e ambientale.
La enorme crisi economica causata dalla pandemia non fa che accrescere
le tendenze alla polarizzazione sociale e alla crescita delle disuguaglianze,
che si sono accentuate a partire dagli anni ’80. La concentrazione di
capitale ha raggiunto livelli mai visti, la finanziarizzazione ha reso
il capitale sempre più forte nella lotta di classe dall’alto, l’alta
disoccupazione e una diffusa precarizzazione del lavoro caratterizzano
in grado diverso tutti i Paesi sviluppati. L’accrescimento della produttività
del lavoro nelle società a capitalismo avanzato si presenta, da un lato
come aumento della disoccupazione e della sottoccupazione e, dall’altro,
come maggior sfruttamento e perdita del potere contrattuale per gli
occupati e le occupate, come Marx aveva predetto. Non viene finalizzato
al conseguimento di obiettivi sociali, ma si traduce in crescita della
disuguaglianza e della concentrazione del capitale e della ricchezza
mentre si impoveriscono le società e si riduce il welfare.
L’accumulazione della ricchezza nelle mani dell’1%, resa popolare dal
movimento “Occupy Wall Street”, è conseguenza di una tendenza storica
nel processo di riproduzione del capitale non contrastata nell’ultimo
quarantennio: il tasso di rendimento del capitale è sistematicamente
più alto del tasso di crescita del reddito: i patrimoni ereditati subiscono
un incremento continuo rispetto ai redditi da lavoro, con un conseguente
aumento della disuguaglianza fra chi vive di ricchezza e chi vive di
lavoro. Il capitale tende, di conseguenza, a concentrarsi in sempre
meno mani, blindato nei fortificati templi della finanza, con il grande
capitale che divora i piccoli. Basti citare il dato reso noto dal World
Economic Forum di Davos: solo otto individui detengono la stessa ricchezza
posseduta da 3,6 miliardi di persone, ossia di circa la metà della popolazione
mondiale.
Alla concentrazione del capitale ha corrisposto una sempre più forte
concentrazione del potere, che erode alle basi la stessa democrazia,
così come l’abbiamo conosciuta nei decenni seguiti alla Seconda Guerra
Mondiale. Durante la sua storia, il capitale ha sempre avuto la tendenza
a produrre livelli sempre maggiori di disuguaglianza, ma nel corso del
Novecento la “minaccia comunista”, la forza dei movimenti operai e socialisti,
le lotte operaie e sociali, l’intervento redistributivo degli Stati
avevano svolto una funzione di riequilibrio. Il capitalismo neoliberista
ha usato tagli della spesa pubblica, tecnologie, disoccupazione, delocalizzazione
e precarizzazione per accrescere lo squilibrio di potere tra capitale
e forze del lavoro. Il neoliberismo ha prodotto oligarchie sempre più
antidemocratiche ed una trasformazione autoritaria dei sistemi politici,
sempre più impermeabili rispetto alle domande popolari e messi al servizio
del capitale, per i quali appare fondata la definizione di post-democrazie.
Mai così forte è stato lo strapotere delle multinazionali.
Per affrontare le crisi prodotte dal capitalismo in direzione della
giustizia sociale e ambientale, c’è bisogno non solo di redistribuire
la ricchezza, ma di mettere in discussione i rapporti di proprietà e
la logica del capitalismo globalizzato, a partire dalla rivendicazione
strategica di una drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità
di salario. Va recuperato il valore della pianificazione e della programmazione
democratica che, come la lotta di classe, sono state demonizzate durante
questi decenni di ubriacatura neoliberista.
Questa consapevolezza ci conferma con maggiore forza che è possibile
praticare e rilanciare la rifondazione comunista solo sul terreno di
un coerente anticapitalismo, inteso sia come sviluppo di pratiche sociali
e di movimenti in grado di evidenziare le contraddizioni e di modificare
i rapporti di forza, sia come capacità di prefigurare una concreta alternativa
di società, una prospettiva ecosocialista. La realtà drammatica che
si è determinata apre uno spazio ed evidenzia la necessità di un ampio
movimento anticapitalista ed antiliberista che porti avanti un’offensiva
sociale e culturale, contrastando l’egemonia di un capitalismo predatorio
e socialmente irresponsabile.
Come ci insegna la storia del movimento operaio, neanche le riforme
sono possibili senza lotte. Nessuna emergenza di per sé induce automaticamente
cambiamenti positivi senza conflitto sociale e lotta politica. La crisi
provocata dalla pandemia costringe i governi di tutto il mondo ad un
aumento fortissimo della spesa pubblica, ma questa non costituisce di
per sé un reale cambiamento delle coordinate di fondo delle politiche
dominanti da un trentennio.
L’attualità del comunismo è data dalla radicalità dei problemi che l’umanità
deve affrontare. La lotta per il socialismo del XXI secolo è l’alternativa
al riprodursi di scenari di scarsità, violenza, devastazione e “barbarie”,
mentre l’umanità avrebbe tutte le potenzialità per garantire la pace
tra i popoli, un’esistenza degna a tutte/i e per porre le basi per un
rapporto con la natura non autodistruttivo.
TESI 2 - La fase internazionale
“... Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più
« dirigente », ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza
coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate
dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano
ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo
non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi
più svariati”. (A. Gramsci)
Dal nostro ultimo congresso la situazione internazionale è mutata profondamente.
Alle diverse espressioni della crisi del capitalismo e della globalizzazione,
se n'è aggiunta una senza precedenti: la crisi sanitaria, come conseguenza
della pandemia globale del Covid-19. Faremmo un grave errore se pensassimo
che la crisi sia il risultato della pandemia di coronavirus: già da
prima, tutti gli indicatori avvertivano dell’approssimarsi di una crisi,
che il COVID-19 fa solo precipitare e generalizzare.
La fase politica internazionale è caratterizzata da uno scontro aperto
tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese, e tra Stati Uniti
e Russia, individuati come “minacce strategiche”. Continua la crisi
del neoliberismo, con il ristagno della domanda interna sia nei centri,
che nelle periferie dell’economia globale, aggravato dalla pandemia;
il relativo declino dell’egemonia dell’imperialismo statunitense e del
dollaro (che gode ancora del privilegio di essere la principale valuta
delle transazioni internazionali) e l’apparizione delle “monete digitali”;
continua l’ aggressività degli Stati Uniti per riaffermare il proprio
dominio e contrastare il passaggio verso Est dell’economia planetaria;
è in corso il ridisegno degli equilibri globali, con la ristrutturazione
del mondo per aree di influenza geopolitiche e l’emersione di altri
poli (BRICS), nonostante le loro importanti differenze economiche, politiche,
militari.
Questa competizione non è solo tesa a modificare le ragioni di scambio
tra Paesi, ma si gioca anche sull’estensione delle aree assoggettate
a politiche neo-imperialiste in altre parti del mondo. Contro i disegni
unipolari degli Stati Uniti, il multilaterialismo è positivo e va sostenuto
(anche attraverso l’azione dei BRICS). Ma questo polo, nel suo insieme,
non propone una diversa idea di modello economico e sociale su scala
globale. Non è questo l’obiettivo del nazionalismo russo di Putin, nè
del protagonismo diplomatico ed economico del governo cinese. Non c’è
nessun “campo” progressivo o tantomeno socialista, che rimetta in discussione
le logiche del dominio neo-liberiste.
Questa competizione non è solo tesa a modificare le ragioni di scambio
tra Paesi, ma si gioca anche sull’estensione delle aree assoggettate
a politiche neo-imperialiste in altre parti del mondo mentre, allo stesso
tempo, in diversi Paesi vi sono tentativi di costruzione di esperienze
socialiste, con caratteristiche differenziate e i cui caratteri è importante
approfondire.
Le politiche interne di Biden, che alludono a un disegno neo-keynesiano,
si infrangono su una politica internazionale che rilancia la sfida economica
e la superiorità militare, uscendo dall’autoreferenzialità praticata
dall’amministrazione Trump e cercando di incamerare l’Unione Europea
nel proprio blocco.
Al declino relativo del proprio ruolo egemonico, gli Stati Uniti hanno
finora risposto con la forza militare e con l’espansionismo della NATO
in Europa orientale in funzione anti-russa. Al recente vertice di Bruxelles
(giugno 2021), la NATO ha ribadito la decisione presa al vertice di
Bucarest del 2008 sull’entrata dell’Ucraina nell'Alleanza, con il Piano
d'azione per l'adesione (MAP), con gravi rischi di approfondire il conflitto
contro le auto-proclamate repubbliche indipendenti in Doneck e Lugansk.
La NATO si espande anche in America Latina con l’ingresso della Colombia
come “socio globale”.
La strategia “NATO 2030” conferma un’alleanza di guerra che serve gli
interessi del complesso militare-industriale, e non dei popoli, che
in nessun modo garantirà la sicurezza.
Una delle grandi debolezze della Cina deriva dalla necessità di soddisfare
le proprie esigenze commerciali, in particolare quelle energetiche,
via mare: ciò ha da tempo trasformato le acque adiacenti alla Cina,
in particolare il Mar Cinese Meridionale, nell'epicentro del conflitto
globale del XXI secolo.
Il preteso dominio unipolare occidentale si contrappone aggressivamente
alla Cina, che rifiuta il ruolo di puro mercato, con la crescita vigorosa
della sua capacità produttiva e tecnologica, l’offensiva attorno alla
Nuova via della seta” (One Belt, One Road) e la “diplomazia dei vaccini”.
La "Dottrina del dominio permanente" (DDP) lanciata nel 1992,
che non stabiliva chiaramente quali sarebbero stati i rivali della potenza
imperialista una volta eclissato il mondo bipolare, ha lasciato il posto
alla "teoria del caos costruttivo" durante l'amministrazione
di George W. Bush, con cui Washington ha cercato di affermare la sua
egemonia dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001. Già
allora, era stata enunciata la necessità di "accerchiare"
la Cina.
Ma la crisi provocata dalla diffusione della pandemia ha messo in
discussione i principi ideologici del capitalismo, ha indebolito il
potere degli USA e la loro capacità di egemonia sul resto del pianeta.
Quasi nessuno Stato vede negli Stati Uniti un riferimento per le misure
da prendere per affrontare l'emergenza, nè si è rivolto a loro per ottenere
aiuti economici o sanitari, come in altri tempi. Viceversa, decine di
Paesi si sono rivolti alla Cina, che appare come un esempio di come
superare la crisi sanitaria. La stessa Italia ha chiesto aiuto alla
Russia e a Cuba.
Crescono le tensioni fra le potenze, insieme ai conflitti “commerciali”
sempre più acuti, così come la competizione per garantirsi accesso a
risorse e mercati, con l’esplodere di nuove guerre e conflitti, più
o meno di “bassa intensità”. La fase mondiale è quindi segnata dal rilancio
di una logica da guerra fredda, sia sul terreno economico, che su quello
politico-militare, dall’instabilità, dall’approfondimento della concorrenza,
dalla crescente tendenza alla guerra. Il rischio che la guerra “a pezzi”
(come ricordato anche da Papa Bergoglio) diventi “organica” è una tragica
e concreta possibilità.
D’altra parte, la pandemia ha squadernato le contraddizioni del modello
neo-liberista, che ha mercantilizzato i bisogni urgenti delle popolazioni.
Non mancano le risorse e i mezzi per soddisfare i bisogni sociali e
preservare il pianeta, ma questo sistema è incapace di utilizzarli a
beneficio della maggioranza della società.
Lo Stato di eccezione planetario
La pandemia ha accentuato una tendenza già in atto, ma già eravamo
immersi in uno Stato di eccezione planetaria, con il drastico restringimento
degli spazi democratici la crisi sociale irrompe nella politica nelle
società diseguali e insicure del neoliberismo, ma con rapporti di forza
globali sfavorevoli alle forze comuniste e di trasformazione.
Negli ultimi quattro anni la minaccia reazionaria si è diffusa in tutto
il mondo: è sempre più chiara la incompatibilità tra capitalismo neoliberista
e democrazia, con un preoccupante risorgere del pericolo fascista. Non
si tratta solo di esperienze geograficamente lontane come quelle degli
Stati Uniti, del Brasile o delle Filippine. Anche nell'Unione Europea
ci sono già governi esplicitamente autoritari, come in Ungheria o in
Polonia, e formazioni di estrema destra fascista hanno un preoccupante
consenso, come in Francia o in Italia.
Oggi, la globalizzazione neo-liberista ha cambiato profondamente le
sue antiche caratteristiche di un mondo egemonizzato dall’occidente
ed unificato dal mercato. Siamo immersi in una gigantesca transizione
verso un Nuovo Ordine Mondiale, con una ristrutturazione del capitale
a comando oligarchico su scala globale. Questo comando ha le caratteristiche
del “cesarismo-populismo tecnocratico”.
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) nelle sue prospettive economiche
per il 2021 ha evidenziato gli effetti di una recessione più grave di
quella del 2009 ed il rischio di crollo del sistema. Lo stesso FMI,
insieme alla Segretaria di Stato al tesoro USA Janet Yellen, tra gli
altri, raccomandano un maggior prelevo fiscale ai ceti più abbienti,
per trovare le risorse necessarie ad affrontare la crisi.
Nella fase post-pandemia, le politiche di austerità sono sostituite
dall’intervento di spesa pubblica, non omogeneo nei vari Paesi, mentre
si riorganizzano le catene globali della fornitura, che si accorciano
e si fanno più spesse.
Allo stesso tempo, assistiamo a una maggiore concentrazione e centralizzazione
del capitale e della ricchezza attraverso la distruzione di forze produttive
e intensificando lo sfruttamento delle lavoratrici dei lavoratori, per
recuperare la caduta del saggio di profitto. Nei primi tre mesi di quest’anno
le fusioni fra imprese nel mondo hanno mosso circa 1.300 miliardi di
dollari, cifra record degli utimi quarant’anni. Lungi dal favorire politiche
di cooperazione tra Stati, la pandemia ha acuito la concorrenza intercapitalista
per guadagnare nuovi mercati di sbocco alle produzioni, così come la
concorrenza tra territori per attrarre capitali. Il neoliberismo ridefinisce
il ruolo dello Stato, anche attraverso la ragnatela planetaria dei trattati
(dapprima TTIP, CETA, TISA... e, ultimo in ordine di tempo, il Trattato
di libero commercio tra la UE ed il Mercosur): sono trattati disegnati
dalle imprese multinazionali per garantire la remunerazione del capitale
(ponendo in secondo piano le stesse regole del WTO), attraverso la privatizzazione
dei servizi pubblici, la deregolamentazione dei diritti del lavoro e
degli standard ambientali.
In questo quadro, è importante approfondire l’analisi e le relazioni
anche con il continente africano, in cui contemporaneamente agiscono
spinte neocoloniali, fondamentalismi e crescita di società civile organizzata
che non si rassegna ad un destino di precarietà, oppressione o migrazione.
Corsa agli armamenti
L’80,4% della produzione globale di armi e sistemi d’arma è controllata
da multinazionali di bandiera del blocco euro-atlantico e dei Paesi
che con questo hanno accordi strategici. Russia e Cina si contendono
il rimanente 19,6%. Le vendite complessive (quindi non solo le esportazioni)
rivelano implicitamente anche l’entità del riarmo interno, oltre alla
concreta minaccia verso l’esterno, nonché il ruolo economico trainante
della corsa agli armamenti. Le multinazionali occidentali coinvolgono
direttamente nella propria filiera industriale militare decine di Paesi
in ogni continente.
Questa internazionalizzazione della filiera bellica ha sostanzialmente
tre obiettivi: assicurarsi quote di mercato, veicolare accordi strategici,
stabilire alleanze militari.
In questo quadro si muove il pesante riarmo europeo dominato dall’asse
franco-tedesco, mentre il dibattito sulla così detta “Autonomia strategica”
si sviluppa attorno alle posizioni divergenti di due Paesi: la Francia
(con un budget militare che si avvicina a quello russo) si propone come
guida e piattaforma di proiezione dello scomposto neocolonialismo europeo,
mentre la Germania intende mantenere un rapporto di internità strumentale
nella NATO.
L’Italia rilancia il suo atlantismo appoggiando da un lato la posizione
della Germania e dall’altro stringendo importanti accordi industriali/militari
con la Francia (comprese missioni e basi in Mali e Niger), e cercando
di riacquisire un ruolo strategico in Libia dove si è espansa la Turchia
di Erdogan. In tali aree sarà dislocato il contingente militare italiano
precedentemente impegnato in Afghanistan, dove l’ennesima missione militare
ha lasciato il Paese nelle mani di una nuova alleanza fondamentalista,
in presenza di circa 16.000 mercenari (contractors).
Il nostro Paese (o meglio il complesso militare-industriale italiano)
ha messo a sistema la professionalizzazione delle FF.AA. e la loro trasformazione
in un corpo di spedizione, la conversione di Finmeccanica (oggi Leonardo)
in un asset dell’hi-tech militare globale e la presenza di basi strategiche
statunitensi sul proprio territorio, per aggiudicarsi la “terza posizione”
nella compagine militare-industriale europea. Proiezione di forza oltre
confine e industria bellica sono così diventati i capisaldi della trentennale
politica estera belligerante dell’Italia, mentre il ministero della
Difesa abbandona alla loro sorte migliaia di soldati colpiti da gravi
patologie contratte a causa dell’esposizione all’uranio impoverito in
Iraq e nei Balcani.
L’intero complesso militare-industriale è uno dei principali inquinatori
globali. Di conseguenza, la militarizzazione, i conflitti per l’accesso
alle risorse naturali e il cambiamento climatico hanno impatti devastanti
sulle condizioni di vita, soprattutto nel Sud del mondo. Entro il 2050,
saranno circa 200 milioni i rifugiati climatici alla ricerca di nuovi
luoghi più abitabili in cui vivere. Nel suo rapporto “NATO 2030”, ipocritamente
la NATO definisce l’aumento del numero di rifugiati climatici come una
minaccia da cui “proteggersi militarmente”.
Il nostro Paese si pone inoltre come avamposto di una possibile guerra
termonucleare partecipando al programma di Nuclear Sharing della NATO,
ossia ospitando decine di testate nucleari presso le basi di Ghedi ed
Aviano e dotandosi degli F35 da impiegare nel bombardamento nucleare.
In un mondo multipolare l’Italia continua ad essere una servitù militare
degli Stati Uniti: la battaglia per esigere la rimozione degli ordigni
nucleari statunitensi e l’uscita dell’Italia dalla Nato diventa quindi
centrale per una ricollocazione strategica del nostro Paese all’insegna
della neutralità, della distensione, del disarmo e della cooperazione.
Il socialismo del XXI° secolo
La prospettiva del socialismo del XXI° secolo è per noi l’alternativa
alla barbarie con l’esplosione di razzismi e xenofobia, la strage di
migranti che si continua a consumare nel Mediterraneo, il dilagare dei
conflitti e delle aggressioni armate.
E’ nostro compito lavorare per il rilancio dei movimenti contro la guerra
e per la pace, per la drastica riduzione delle spese militari, il disarmo
e la riconversione dell’industria bellica, l’uscita dalla Nato, contro
i Trattati di Libero Commercio. Riaffermiamo la solidarietà internazionalista
con i popoli in lotta per la propria liberazione: con il popolo curdo,
per la rimozione del PKK dalla lista UE delle organizzazioni terroriste
e la liberazione del suo presidente Ocalan (alle cui proposte sull’autogoverno
ed il confederalismo democratico guardiamo con attenzione), mentre rinnoviamo
la nostra solidarietà con l’ HDP; con il popolo palestinese contro l’occupazione,
per il riconoscimento dello Stato di Palestina e contro gli accordi
Italia-Israele per la liberazione di Marwan Barghouti e delle migliaia
di prigionieri politici, (tra cui 300 tra bambini e minori) rinchiusi
nelle carceri israeliane; con il popolo saharawi per la sua autodeterminazione
e la fine del conflitto con la potenza occupante del Marocco; contro
il bloqueo a Cuba per l’assegnazione del Premio Nobel alla brigata medica
cubana “Henry Reeve”; a fianco del Venezuela bolivariano contro il quale
è in atto la guerra di quarta generazione da parte dell’imperialismo
statunitense e della UE; a sostegno della mobilitazione del popolo Colombiano
repressa con ferocia omicida, in un silenzio complice che copre le nefandezze
del socio globale NATO; per la libertà di Julian Assange e di Patrick
Zaki.
Ci battiamo contro l’Europa di Frontex e dell’Esercito europeo, per
un diritto di asilo europeo, contro gli accordi con la Libia e la Turchia
che condannano alla morte e alla tortura milioni di donne e uomini.
Col pretesto del contrasto alle migrazioni considerate illegali, Ue
e Italia continuano a stringere accordi che in cambio di commesse militari
legittimano regimi autoritari nel Sahel come nel Medio Oriente e nei
Paesi del Golfo. Questo sta rendendo inesigibile il diritto d’asilo.
Oltre la solidarietà, siamo impegnati a rafforzare gli spazi di riflessione
e costruzione, per la costruzione di un’agenda comune con le sinistre
sia dell’ Europa, che di altri continenti (in particolare con il Foro
di Sao Paulo in America Latina) per essere all’altezza delle sfide dell’oggi.
A partire dall’Europa, la nostra priorità è quella di una battaglia
politica insieme alle altre forze della sinistra radicale, anticapitalista
ed antimperialista con una convergenza di obiettivi che potrà concretizzarsi
solo con la mobilitazione e pressione congiunta dei movimenti sociali
e delle forze politiche nei vari Paesi.
TESI 3 - Europa
Dopo la seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazifascismo vi
è stato un movimento che ha spinto per l’unità dell’Europa a partire
da ideali progressisti e dalla volontà di preservare la pace sul continente.
Non vi è però stata un’egemonia di questa ispirazione sulla concreta
costruzione dell’Unione Europea che ha visto l’ideologia ordoliberista
giocare un ruolo fondamentale nella definizione del suo profilo politico
ed istituzionale. Niente a che fare con i principi spinelliani del Manifesto
di Ventotene.
La costruzione unitaria ha avuto un deciso salto di qualità a partire
dalla gestione della riunificazione tedesca, nel cui contesto sono maturati
il trattato di Maastricht e la nascita dell’Euro. Lungi dal rappresentare
un bilanciamento del potere tedesco, questa strutturazione istituzionale
ed economica è stata da un lato plasmata attorno all’ideologia ordoliberista
e dall’altro ha garantito alla principale potenza economica del continente
una posizione di rendita destinata via via a rafforzarsi. Questa costruzione
ha così dato vita ad una Unione Europea liberista e costruita in modo
da essere irriformabile attraverso la normale dialettica politica.
Mentre le costituzioni nate dopo la Seconda guerra mondiale – segnatamente
quella italiana – nascevano incorporando la centralità dei diritti sociali
nell’azione dello stato, i trattati europei e la bozza di costituzione
di Lisbona sono nati per garantire il libero mercato, la centralità
dell’impresa e la stabilità dei prezzi, incorporando, costituzionalizzando
così il peggio dell’ideologia ordoliberista. Questa non è fondata sull’idea
dell’assenza dell’intervento dello stato nel mercato ma piuttosto su
una idea di intervento dello stato di natura opposta a quella keynesiana.
L’idea alla base della “economia sociale di mercato” è, infatti, non
solo che il mercato si debba autoregolare, ma sia esso stesso l’elemento
generativo e regolativo della società.
Questo progetto ha raggiunto il suo apice dopo la crisi del 2008. In
quella situazione, attraverso un vero e proprio colpo di stato monetario
attuato di concerto tra la Banca Centrale guidata da Draghi e la Commissione
Europea a guida tedesca, la politica del rigore, finalizzata alla distruzione
del welfare, al disciplinamento della forza lavoro e ad una ulteriore
gerarchizzazione dell’Europa è stata attuata in modo brutale. La lettera
Draghi- Trichet del 2011 detta le “le riforme strutturali” che saranno
poi attuate dal governo Monti: dalla liberalizzazione dei servizi pubblici,
alla riforma della contrattazione e del diritto del lavoro. Nel 2012
viene introdotto il pareggio di bilancio nella Costituzione italiana:
una ferita che resta l’emblema di quella fase e di cui tutti i partiti
italiani di centro destra e centro sinistra sono stati tragici protagonisti.
L’esempio più drammatico dell’uso del debito ai fini di gerarchizzazione
interna si è avuto con la Grecia. Le socialdemocrazie europee si resero
complici della Troika nello strangolare la possibilità di un’altra Europa
che il governo Tsipras aveva inizialmente aperto e che la vittoria dell’
“oxi” voleva mantenere aperta. Le conseguenze di quel ricatto sulla
società greca sono note: licenziamenti, devastazione del welfare, privatizzazioni
a vantaggio in primo luogo dei capitali tedeschi.
L’utilizzo della crisi finanziaria del 2008 a fini di disciplinamento
sociale non ha risolto i problemi di fondo della globalizzazione capitalistica
che è progressivamente entrata in crisi nel corso del decennio scorso.
Processi e contraddizioni di lungo periodo sono progressivamente emersi
e sono stati drasticamente accelerati dalla crisi sanitaria. Di fronte
alla pandemia i nodi di fondo sono emersi in modo plastico e la stessa
ideologia della globalizzazione neoliberista è andata in frantumi. Il
processo di addensamento dell’accumulazione del capitale attorno alle
aree continentali/macroregionali ha fatto un deciso salto in avanti.
Parallelamente, la crisi del Covid ha evidenziato le contraddizioni
dell’Europa liberista e la sua completa inadeguatezza dal punto di vista
istituzionale. Che un continente come l’Europa non abbia la struttura
sanitaria e non produca le mascherine e i prodotti di base necessari
per reagire alla sfida di una pandemia è indice di una crisi organica
che mette in discussione il sistema e le élite che lo hanno governato.
In questo contesto le classi dominanti europee hanno posto in essere
una strategia di governance assai diversa da quella attuata nella crisi
del 2008. La lotta di classe dall’alto prosegue non più come controriforma
neoliberista e dogma del pareggio di bilancio, ma come rivoluzione passiva,
che usa il debito pubblico per finanziare la ristrutturazione del capitale
privato e delle imprese e per prevenire il conflitto sociale, ridisegnando
i rapporti di forza tra le classi. Draghi è il garante italiano di questa
ristrutturazione capitalistica: il “debito pubblico buono” finanzia
la ristrutturazione green e digitale delle imprese europee per renderle
competitive sullo scenario globale, mentre si stigmatizza il debito
cattivo, quello del welfare state e della redistribuzione. In questo
modo, la Germania si garantisce non solo le esigenze di export, ma anche
che una parte significativa del sistema produttivo italiano resti agganciato
a quello tedesco.
I punti di fondo di questa nuova strategia delle classi dominanti europee
sono:
Il superamento della centralità assorbente della
concorrenza interna al fine di costruire un apparato industriale in
grado di competere in tutti i settori con i campioni degli altri continenti.
La scelta di sviluppare una grande spesa pubblica
in deficit al fine di far ripartire la crescita economica e di finanziare
il potenziamento dell’apparato produttivo ed infrastrutturale per
far fronte alla rivoluzione indotta dalla necessaria riconversione
ambientale e dalla digitalizzazione dell’economia e della società.
La scelta dell’intreccio pubblico privato come
modello privilegiato per affrontare questa fase di crisi e mobilitare
risorse sufficienti agli investimenti necessari.
La scelta di un salto di qualità nella centralizzazione
e nella dotazione dell’Unione Europea di strutture in grado di garantire
la sicurezza sul piano medico e un maggior ruolo sul piano militare.
Gli investimenti sul piano dell’autosufficienza dell’industria sanitaria
vanno così di pari passo con gli enormi aumenti di spese in armamenti
e con la spinta per la costruzione di un esercito europeo.
Questa strategia non avviene oggi attraverso la riscrittura di nuove
regole ma attraverso la sospensione delle vecchie che vengono aggirate
attraverso le concrete misure di governo. Siamo quindi in una fase di
transizione in cui la prosecuzione delle politiche liberiste non avviene
oggi attraverso politiche di austerità che però non è per nulla escluso
che possano tornare centrali nel medio periodo.
Il punto di fondo è che nella crisi della globalizzazione nessun paese
europeo è autosufficiente e può pensare di giocare e vincere la partita
da solo. Per questo le classi dominanti dei paesi centrali stanno guidando
questo percorso al fine di perpetuare il loro dominio senza pagare prezzi
per il fallimento delle politiche di austerità praticate negli ultimi
decenni. L’idea di un superstato europeo competitivo nello scenario
mondiale e a trazione franco-tedesca, dunque, non solo non è in contraddizione,
ma è rafforzata dalla scelta dello stanziamento del Next generation
Eu. In primo luogo, perché sulle tecnologie di riconversione le imprese
tedesche sono all’avanguardia. In secondo luogo, perché il MES (Meccanismo
Europeo di Stabilità) è stato solo sospeso, ma non modificato ed è pronto
a tornare in azione. In terzo luogo, perché le condizionalità del Next
e del Recovery hanno indotto meccanismi di commissariamento politico
ed economico, come dimostra il caso italiano. Lungi dal rappresentare
un meccanismo di reale solidarietà europea, i fondi del Next rappresentano
un cambio di strategia delle classi dominanti che non si può sottovalutare
e va analizzato, al di là degli impegni roboanti quanto inaffidabili
sulla riconversione ecologica.
La temporanea sospensione del Mes e delle politiche di austerità, imposta
dalla pandemia Covid, non modifica dunque la natura dell’UE e ne conferma
invece la irriformabilità.
Oggi è quanto mai necessario riprendere un’iniziativa su scala europea
di denuncia delle conseguenze sociali della pandemia Covid e di critica
alle condizioni con cui vengono erogati e utilizzati i fondi europei.
In primo luogo, occorre rivendicare la giustezza della campagna no profit
on pandemic, sostenuta di fatto anche dal voto del Parlamento europeo,
a fronte della vergognosa posizione della Commissione, complice di Big
Pharma. Bisogna ricordare che nessuna vera agenda ambientale sarà praticabile
finché l’Ue sarà promotrice di accordi di libero scambio, che rendono
non vincolanti gli standard ambientali e in materia di diritti umani
e del lavoro o finché saranno finanziate dalla BEI opere come la TAP.
Bisogna chiedere, senza se e senza ma, la fine del MES, a cui il PD
e le destre vergognosamente volevano fare ricorso durante i primi mesi
della pandemia.
Rifondazione Comunista si impegna quindi ad aprire una lotta politica
e costruire un movimento di massa contro le politiche dell’Unione Europea,
i trattati liberisti che la governano, le politiche monetarie e fiscali
ad essi collegate, il pareggio di bilancio in Costituzione. Il nostro
obiettivo è quello di costruire una strategia di fuoriuscita dalle politiche
neoliberiste dell’UE e di rompere la gabbia dei Trattati, condizioni
essenziali per dare concretezza ad una alternativa per l’Europa. Tempi
e modalità di questa prospettiva saranno determinati dallo sviluppo
di un movimento sia nazionale che europeo, dalle contraddizioni e dalle
rotture che si apriranno negli anelli deboli dello scenario europeo
e dalla capacità di portare avanti una strategia più generale basata
su un nuovo ruolo pubblico in economia, la riconversione sociale ed
ambientale, la nazionalizzazione delle banche e delle principali aziende
strategiche, la tutela dei salari e del potere di acquisto dei ceti
popolari.
Una vera e propria agenda europea dei conflitti insieme alle lotte per
la piena attuazione delle Costituzioni nate dalla Resistenza rappresentano
il migliore antidoto alla deriva dei “sovranismi nazionali”. Ci battiamo
per una diversa costruzione europea di tipo confederale tra popoli e
paesi che comprenda l’area euromediterranea ed i vari “meridioni”, sviluppando
il dialogo con altri partners internazionali non facenti parte del blocco
euroatlantico (BRICS). In questa prospettiva si evidenzia la necessità
della fine della subalternità atlantica, di uscita dalla NATO e della
costruzione di una politica estera europea non allineata e fondata sulla
ricerca della pace e sul disarmo, sulla cooperazione internazionale
e sul multipolarismo.
Contro un'Europa che mette al primo posto gli esecutivi e le tecnocrazia,
espropriando così i poteri delle rappresentanze, vogliamo rilanciare
il ruolo dei parlamenti, sia quello europeo che quelli nazionali, nel
controllo delle scelte sociali ed economiche come nella elezione e verifica
degli esecutivi.
Occorre evidenziare come le politiche di austerità sin qui praticate
siano non solo dannose ma del tutto arbitrarie perché se oggi vi sono
i soldi non si capisce perché abbiamo dovuto subire tagli draconiani
negli anni scorsi. Il nostro obiettivo è di spendere il denaro oggi
a disposizione per sviluppare il pubblico, i diritti delle lavoratrici
e dei lavoratori a partire dalla riduzione d’orario e dalla riconversione
ambientale delle produzioni. In questa prospettiva, il pubblico lungi
dall’essere l’ancella finanziatrice delle imprese private, deve essere
fondato sull’egualitarismo e sul controllo da parte dei lavoratori/trici
e dei cittadini/e in una pratica di radicale democratizzazione dell’economia.
In questo quadro:
Chiediamo che la BCE svolga strutturalmente la
funzione di prestatrice di ultima istanza nei confronti degli stati
e di una spesa pubblica europea finalizzata alla costruzione di un
reddito di base europeo, di un salario minimo europeo, alla lotta
contro il gender pay gap, ad una rapida riconversione ambientale e
sociale delle produzioni e dell’economia. Sosteniamo le iniziative
nazionali ed internazionali finalizzate a far pressione sulla BCE
affinché cancelli (o trasformi in debito perpetuo senza interessi)
quella parte dei debiti statali, contratti per far fronte all’emergenza
pandemica, che sono in suo possesso e ciò al fine di consentire ai
paesi europei nuovi margini di spesa per finalità pubbliche condivise.
Rivendichiamo che la riconversione ambientale
delle produzioni e dell’economia deve essere molto più rapida di quanto
previsto e non può seguire le strade sin qui ipotizzate. Non può cioè
essere dettata dai tempi delle convenienze delle imprese e dall’individuazione
prioritaria di nuove merci “compatibili” attorno a cui costruire un
mercato. Si tratta di praticare una riconversione ambientale guidata
dal pubblico e fondata sulla demercificazione e sulla riduzione del
mercato a favore di una estensione dei diritti.
Occorre affrontare la crisi del Covid proponendo un modello di sviluppo
alternativo a quello delineato dalle classi dominanti: un modello sociale
europeo fondato sulla drastica riduzione dell’orario di lavoro, sulla
giustizia sociale, sulla riconversione ambientale e sulla costruzione
di un welfare europeo integrale.
A tal fine è necessario potenziare il ruolo del Partito della Sinistra
Europea, rendendolo più efficace nella costruzione di una comune lotta
politica e sociale a livello continentale. Va valorizzato il ruolo di
transform! europa e transform! italia per il lavoro politico e culturale
e nella “battaglia delle idee” che svolgono. La campagna per la moratoria
sui brevetti e l’accesso a cure e vaccini anti-covid rappresenta un’esperienza
positiva di azione congiunta nello spazio politico europeo che ha visto
cooperare i partiti della sinistra europea, le organizzazioni sociali
e i movimenti di tutti i paesi con un ruolo centrale del gruppo parlamentare
europeo della Sinistra (Gue-Ngl).
Importante anche sviluppare l’esperienza delle/degli aderenti individuali
al Partito della Sinistra Europea.
TESI 4 - Costruire l’alternativa al governo
Draghi
Draghi è stato incoronato “salvatore della patria” e l’intero arco
parlamentare è accorso ad ingrossare le fila dei cortigiani. La forza
magnetica del banchiere è data dalla quantità di risorse che ha a disposizione
e dal fatto che le ricette che propone sul piano economico e sociale
sono condivise dal centrodestra e dal centrosinistra.
Non a caso, il voto fondamentale sul Recovery Plan ha visto anche l’astensione
di Fratelli d’Italia, che ha evidentemente partecipato all’azione di
spartizione delle risorse che premiano in forme inverosimili il complesso
delle imprese italiane, a partire da quelle più grandi. Va tenuto presente
che le decisioni assunte adesso sulla spesa non sono modificabili nei
prossimi anni. Si tratta quindi di un voto costituente, per quanto riguarda
il programma di ristrutturazione economico- sociale del paese.
Uno spettacolo simile si registrò di fronte al governo Monti. In quella
fase infatti, tutti assieme appassionatamente, dalla Meloni, alla Lega,
al PD, stravolsero la Costituzione inserendovi la norma sul pareggio
di bilancio. Così come l’ineffabile Meloni non ebbe dubbi nel convergere
con il PD per votare la distruzione del sistema pensionistico pubblico,
attuato dalla Fornero.
Molti ritengono che questa unità nazionale sia uno stato di eccezione,
di sospensione della politica, di interruzione del normale corso della
dialettica parlamentare.
Noi riteniamo sia vero il contrario. Come mostrano quasi tre decenni
di bipolarismo, è del tutto evidente che il nucleo centrale degli schieramenti
di centro destra e di centro sinistra è saldamente neoliberista. Salvo
rarissime eccezioni, la regola ferrea è stata che le norme di liberalizzazione
economica, di privatizzazione del welfare e di precarizzazione del mercato
del lavoro hanno avuto un carattere assolutamente bipartisan. Per quanto
riguarda le politiche economiche e sociali, se si guarda sotto la propaganda,
è del tutto evidente che i due principali schieramenti hanno tratti
assai omogenei. Sono diverse le culture politiche che caratterizzano
questi “liberali” di diverse tinte, ma l’asse è chiaramente neoliberista.
Se questo è vero, i governi di unità nazionale, lungi dal rappresentare
la sospensione della politica, costituiscono in realtà le fasi in cui
la politica dei maggiori partiti – dai 5 stelle al PD alla Lega - emerge
per quello che è: una larghissima condivisione dei punti fondamentali.
E’ piuttosto il bipolarismo e l’alternanza che si mostrano come una
sorta di danza immobile, che però occupa tutto il palcoscenico della
politica, scacciando chiunque la pensi diversamente. Il bipolarismo
e la logica del voto utile sono serviti unicamente a cacciare dal parlamento
i partiti – come Rifondazione Comunista - che si sono opposti alle politiche
liberiste.
Non è un caso che la partecipazione popolare al voto, dopo l’abolizione
del sistema proporzionale, sia crollata in modo drammatico. Nell’adagio
popolare “sono tutti uguali”, vi è certo un cattivo costume, ma che
si sorregge su un tratto di verità. Il diritto democratico viene esercitato
se si ha l’impressione di poter decidere qualcosa… La morte della politica
è quindi la fisiologica conseguenza del bipolarismo tra simili: una
gigantesca rappresentazione teatrale che occupa totalmente lo spazio
pubblico, in modo da evitare ogni alternativa, ogni cambiamento vero.
Siamo tornati all’800, quando in Italia esistevano una destra e una
sinistra, ma entrambe borghesi, antipopolari. Solo con l’ingresso sulla
scena politica del movimento operaio e contadino, dai sindacati ai partiti
socialisti, la musica è cambiata e la dialettica politica ha ricompreso
la “questione sociale”.
Vi è quindi un elemento di verità – negativa ma non per questo meno
vera - nel governo Draghi: evidenzia come la condivisione delle politiche
neoliberiste sia il punto di unificazione dell’intero arco parlamentare,
compresi coloro che si astengono più per calcoli elettorali che per
dissensi sui contenuti.
In questo quadro è evidente che l’alternativa al governo Draghi e alle
sue politiche dovranno essere costruite al di fuori del parlamento:
è questa la sfida che si trovano davanti coloro che non condividono
le politiche neoliberiste, che animano i movimenti sociali e ambientali,
che lottano sui posti di lavoro e contro la precarietà, che si riconoscono
in una idea di sinistra.
Costruire l’opposizione sociale, culturale e politica al governo Draghi
è quindi il primo compito di Rifondazione Comunista e non è altra cosa
dalla costruzione di una proposta politica di alternativa alle politiche
di Draghi.
Questo chiede la costruzione processuale e democratica di una soggettività
politica, sociale e culturale in grado di presentarsi come alternativa
ai neoliberisti di ogni colore. Se non ora quando?
TESI 5 - Siamo partigiane/i della Costituzione
nata dalla Resistenza
Perché siamo comuniste e comunisti, lottiamo per l'alternativa di sistema.
La Costituzione, infatti, rappresenta uno strumento di potenziale transizione,
ovviamente non priva di rotture, per un'uscita dalle politiche liberiste.
Crediamo nel "diritto diseguale" di Marx. Nella "Questione
ebraica", Marx denunciava il tentativo borghese di creare un'uguaglianza
astratta, rimuovendo la disuguaglianza sociale. Perciò pensiamo che
il fondamento della legalità costituzionale sia nel secondo comma dell'art.
3 della Costituzione: "è compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà
e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese".
Non crediamo ad una democrazia formale: la democrazia deve aggredire
le disuguaglianze economiche, altrimenti è pura finzione. Se il secondo
comma dell’articolo 3 della Costituzione afferma il carattere sostanziale,
cioè sociale e non soltanto formale, della democrazia, ricordiamo il
titolo III, e in esso gli articoli 41, 42 e 43, ove sono posti limiti
fondamentali all’esercizio dell’attività economica privata, sino a prevederne
l’esproprio e la consegna allo Stato o a comunità di lavoratori o di
cittadini. Non meno importante è la sottolineatura che “la legge determina
i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica
e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. L’elemento
della programmazione e del ruolo della mano pubblica è qui ben altra
cosa dal primato della “mano invisibile” del mercato, regolatore di
tutti i rapporti sociali.
La libertà politica è forte quando è forte il conflitto sociale.
La sfida democratica sarà, nei prossimi anni, oligarchia contro partecipazione
di massa, autorganizzazione, autogoverno. Sarà affermazione, anche nella
struttura istituzionale, del pensiero unico del mercato e delle compatibilità
dei processi di valorizzazione del capitale contro la nostra concezione
di esigibilità dei diritti sociali, come paradigma non comprimibile
e non alienabile (dal diritto al lavoro, al reddito, all'abitare, alla
sanità, alla formazione).
Il neoliberismo accresce il populismo penale. Si sta rafforzando una
vera e propria architettura globale di sorveglianza. Scrive giustamente
Shoshana Zuboff:" stiamo pagando per farci dominare. Va detto basta!".
Non a caso cresce una miriade di imprese specializzate nel mercato del
"controllo securitario": riconoscimento facciale, sorveglianza
biometrica, ecc. Perché "siamo in guerra", dicono i governanti
con una colossale mistificazione. La realtà è che la società securitaria
prospera nel contesto della pandemia. La pandemia diventa il "nemico
invisibile": attraverso questo passaggio di senso comune, lo "Stato
di eccezione" rischia di diventare norma. Il nostro avversario
principale è il "populismo tecnocratico", di cui il "governo
dei migliori" è emblema. Il "bonapartismo" dell'uomo
che incarna la moneta, solo al comando, non contrasta affatto il populismo
nazionalista, anzi alimenta sommosse vandeane. Il nostro antifascismo
è alternativo alla confusa sommatoria senza principi e valori del sistema
dei partiti di Stato, al nuovo arco istituzionale (incostituzionale)
costruito intorno ai processi di accumulazione del capitale. Esso, infatti,
cova nelle viscere dello sfruttamento, del patriarcato, dell’aggressione
all'ecosistema, nel sovversivismo fascista. Espelle dalla scena pubblica,
emargina il conflitto agito da movimenti sociali antiliberisti e anticapitalisti;
non tollera dissenso, opposizione radicale, pensieri alternativi. Si
indebolisce ed evapora lo Stato sociale, spesso sostituito dallo Stato
penale. Questo accentramento ordoliberista del dominio del capitale
convive (anzi è complementare) con l'articolazione territoriale, periferica,
nella quale si consolidano aggregazioni integrate di interessi, che
non configurano affatto "democrazia di prossimità", ma potentati
predatori locali.
Da questa dialettica distorta tra bonapartismo centrale e potentati
locali può crescere, nel senso comune, l'idea della necessità del presidenzialismo
come unico strumento per tenere unito, con strutture e piglio autoritari,
un paese frantumato, spaesato, frastornato. E' l'altra faccia della
crisi della democrazia costituzionale, che si intreccia con il venir
meno dei canali della rappresentanza (dai partiti, ai sindacati, ai
corpi intermedi); con l'adozione di sistemi elettorali maggioritari,
vere e proprie "leggi truffa", che cancellano la presenza
istituzionale delle minoranze critiche; con un sistema mediatico ridotto
a segmento organico alle strutture padronali; con il trasferimento del
potere decisionale reale al di fuori del Parlamento e delle assemblee
consiliari.
La legge costituzionale sulla riduzione lineare del numero dei parlamentari
è frutto di mera demagogia populista volgare. Anche il ruolo e la funzione
degli enti locali e territoriali sono indeboliti dalla riduzione del
numero dei componenti delle assemblee consiliari (una vera e propria
"riduzione di democrazia"), dalle giunte regionali e comunali
diventate "squadre" al servizio di presidenti e sindaci, da
sistemi elettorali non proporzionali, che non permettono l'accesso delle
minoranze critiche. Basti pensare al sistema elettorale regionale, ultramaggioritario
ed ultrapresidenzialista. Così come occorre intervenire sull'obbrobrio
istituzionale della “legge Del Rio”, ritornando all’elezione diretta
di province e città metropolitane. All'indebolimento delle assemblee
elettive, corrisponde l'abnorme proliferare di comitati tecnici, agenzie,
commissariamenti, rapporti decisionali tra esecutivi, scavalcando i
controlli parlamentari ed aggirando i controlli popolari. Il nostro
giudizio è netto: la "postdemocrazia" sta soppiantando , con
la svolta autoritaria, lo Stato di diritto. Ci poniamo, tra gli altri,
alcuni compiti immediati:
Innanzitutto, battersi per l'approvazione di una
legge proporzionale senza soglia di sbarramento. Costruiremo, insieme
ad ampi settori democratici, una "lega per il proporzionale",
che affianchi i Comitati per la Difesa della Costituzione e l'Associazione
dei Giuristi Democratici.
Il ripristino del testo originale della Costituzione,
nelle parti essenziali. Due innanzitutto: il ripristino del testo
originale dell'art. 81 (sfregiato dall'introduzione del cosiddetto
"pareggio di bilancio") e la lotta decisiva contro la cosiddetta
"autonomia differenziata". Essa è, infatti, malvagia derivazione
del pessimo nuovo Titolo Quinto della Costituzione, voluto dalle destre
secessioniste e dal centrosinistra, che ci ha visto fieri oppositori
sin dal primo voto parlamentare. La nostra è una battaglia non accentratrice,
di opposizione alle autonomie locali, ma di ripristino dello spirito
e della lettera dell'articolo 5 della Costituzione: "la Repubblica,
una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali...";
non quindi la secessione e la creazione di tanti piccoli staterelli
regionali guidati da "cacicchi" locali. Sarebbe una vera
e propria "secessione dei ricchi", come ha argomentato l'economista
Viesti. Il nostro impegno quotidiano all'interno dei Comitati contro
l'Autonomia Differenziata proseguirà con passione e forza di argomentazioni.
Anche perché è evidente la volontà delle destre e di parte del centrosinistra
di aprire la strada al presidenzialismo, adducendo che è l'unica struttura
costituzionale in grado di realizzare fittiziamente l'unità di un'Italia
smembrata e priva della sua architettura Repubblicana/Resistenziale.
Finalmente, occorre porre mano, anche in sede legislativa,
alla "riforma democratica dei partiti". In base all'articolo
49 della Costituzione: "tutti i cittadini hanno diritto di associarsi
liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare
la politica nazionale". Contro i "partiti del Capo"
e i "partiti di Stato".
La Costituzione italiana è portatrice di un sistema
di valori e di fondamenti giuridici ed economici che sono spesso incompatibili
con i Trattati europei, fondati su concorrenza e mercato. Riteniamo
che, ove esistano contraddizioni, prevalgano le disposizioni della
Costituzione italiana.
Ci batteremo per l'abrogazione di leggi che consideriamo
incostituzionali: a partire dalla legge Bossi/Fini contro i migranti,
alla legge Minniti/Orlando, alla legge Salvini, che va abrogata nella
sua totalità, quindi anche nella sezione che riguarda la prevenzione
e repressione del conflitto sociale. Rinnoviamo quindi la nostra radicale
opposizione all'esistenza di strutture di detenzione amministrativa
per migranti (Cpr), e a ogni forma di gestione della presenza migrante,
attraverso strumenti di polizia, uso di legislazioni speciali, normative
che di fatto non obbediscono all'Art 3 della Costituzione. Di fronte
ai drammi quotidiani, a cui il governo partecipa con demagogico cinismo,
riteniamo urgente l'applicazione dell'articolo 10 della Costituzione
sull'asilo, corredato da politiche congrue di accoglienza e non condannate,
come da sempre avviene, a gestioni emergenziali, spesso opache. E'
un atto di inciviltà xenofoba la non approvazione della legge sulla
cittadinanza (ius culturae), peraltro insufficiente e che garantisce
solo in parte chi è nato e cresciuto in Italia. In tal senso, va riproposta
la ratifica del capitolo C della Convenzione di Strasburgo, che garantisce
il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni amministrative:
la civiltà giuridica ed umana vive sotto il ricatto delle destre razziste,
ma anche della demagogia populista del M5S ("le ONG sono i taxi
del mare" secondo la vergognosa frase di Di Maio) e dell'opportunismo
del PD.
Ci battiamo per la laicità dello Stato in un paese
in cui pesa ancora l’eredità del clericalismo, dall’ora di religione
fino ai medici obiettori. L’unico articolo della Costituzione che
pare sia intoccabile è quello più obsoleto e figlio di un contesto
storico superato. I neoliberisti hanno manomesso molte parti della
carta ma non essendo liberali si sono guardati dal toccare l'articolo
7. “Quel cappello dell’articolo 7 impedisce all’Italia di essere un
Paese laico”, scriveva Lidia Menapace che spiegava: “Dei Concordati
non c’è più bisogno dopo il Concilio Vaticano II, sono un relitto
del passato. (…) il Concordato è davvero una pecca in una Costituzione
peraltro assai bella”.
Ci battiamo contro la corruzione, il clientelismo
e i privilegi. Nel nostro paese il giusto malcontento popolare è stato
depistato fin dagli anni ’90 verso la delegittimazione della democrazia
costituzionale e del pubblico, il populismo penale e il qualunquismo
antipolitico. Lo stesso “tsunami” del M5S non ha portato al promesso
taglio delle retribuzioni dei parlamentari ma a quello del parlamento.
Dobbiamo contrastare l’anticomunismo e il revisionismo
storico che erodono le basi stesse della democrazia costituzionale,
le sue radici nella storia del movimento operaio e nell’antifascismo.
Il senso comune anticomunista, imposto nell’ultimo trentennio per
celebrare la vittoria definitiva del capitalismo liberaldemocratico,
in realtà ha contribuito a rilegittimare l’estrema destra. La risoluzione
del parlamento europeo che ha equiparato comunismo e nazismo – votata
anche dai partiti di centrosinistra e dal PD – costituisce una pagina
assai grave di uso distorto e persino falso della storia. E’ questo
il clima in cui un partito che reca nel simbolo la fiamma del neofascismo
oggi si sente legittimato a depositare una proposta di legge per la
messa al bando del comunismo.
Effetto del neoliberismo, come forma accentuata e tendenzialmente assolutista
del capitalismo, è la repressione e il passaggio dallo Stato sociale
allo Stato penale. Da questo punto di vista, gli Stati Uniti rappresentano
un laboratorio avanzatissimo, entrato finalmente in crisi grazie al
movimento Black Lives Matter e alla rivolta contro gli abusi della polizia.
Nei Paesi della UE stiamo assistendo a un dispiegarsi massiccio e inedito
di incriminazioni penali e riduzione della libertà dei singoli. Libertà
universalmente riconosciute dalle Carte dei diritti dell’uomo, come
la libertà di autodeterminazione del singolo o di un popolo, il diritto
di manifestare o il diritto di non portare avanti una gravidanza. Libertà
conculcate doppiamente: come mancato esercizio di diritti soggettivi
e come punizione pubblica. In sintesi procede una “americanizzazione”
delle democrazie costituzionali. Uno dei laboratori più attivi dello
Stato autoritario è sicuramente la Val di Susa in Piemonte che, occupata
militarmente nel vano tentativo di fermare la trentennale lotta popolare
NO TAV, vede l'impunità della documentata e denunciata violenza delle
FFOO insieme alla crescita esponenziale del numero di militanti e attiviste/i
indagate /i colpite/i da verdetti, incarcerazioni e provvedimenti amministrativi
di ogni sorta.
Tra gli esempi paradigmatici, si possono citare: il divieto polacco
all’aborto, la norma ungherese, che punisce chiunque ostruisce l’applicazione
di norme eccezionali connesse alla pandemia o, in altro ambito, il divieto
a svolgere referendum consultivi per l’indipendenza catalana. Ad essi
conseguono condanne per i pacifici manifestanti in Ungheria o Polonia
e per le gravi accuse per i delitti di ribellione e sedizione a decine
di eletti nella Comunità autonoma e nei Comuni della Catalogna.
Altrettanto gravi sono la crescente criminalizzazione e la repressione
di ogni forma di sostegno, soccorso e solidarietà alle persone migranti
in transito che sulla loro pelle vivono la violenza e la pericolosità
dei confini militarizzati. Contro i solidali di ONG e associazioni si
ricorre a norme sull’immigrazione per colpire il diritto a difendere
diritti umani e a dissentire dalle politiche comunitarie in materia.
L’Italia si avvicina velocemente al crinale tra Stato democratico e
Stato autoritario. Ciò avviene aggravando l’afflittività delle pene
per i reati, aumentando le incriminazioni, atrofizzando il diritto alla
difesa, riducendo il sistema di punizione alla galera e favorendo la
diffusione delle armi da guerra tra i cittadini. Di certo, l’accelerazione
in questa direzione è stata impressa dal Governo Lega-M5S con la riforma
della legittima difesa che, contro la lettera della Costituzione, ha
ridimensionato tragicamente il diritto alla vita, trasformandolo in
elemento gerarchicamente inferiore al diritto alla proprietà privata.
Si è seguito l’abbrivio attraverso la criminalizzazione del blocco stradale
e ferroviario, la ‘caccia al terrorista latitante’ portando a esecuzione
sentenze vecchie di trent’anni, comminate in situazioni storicamente
e personalmente diversissime, nonché dilatando arbitrariamente la legislazione
antimafia e antiterrorismo a fatti per nulla connessi. Con la stessa
logica è stata abolita la prescrizione, accettando il processo perenne
anche per reati decisamente poco gravi.
Anche quando l’idea di giustizia non è far “marcire in galera i colpevoli”,
si confonde la certezza del diritto con la certezza della pena e, in
questo quadro, è accettato che l’ergastolo si trasformi in “fine pena
mai” per le persone che non collaborino con la giustizia, senza dare
la possibilità a un giudice di valutarne la risocializzazione. Anche
in settori sociali culturalmente non reazionari, la Giustizia diventa
punizione cieca.
Cieca al sovraffollamento degli istituti di reclusione, cieca alle condizioni
sanitarie e socio-culturali dei detenuti. La Corte europea e la Corte
Costituzionale si sono già pronunciate sull’aberrazione dell’ergastolo
ostativo. Pensiamo che non solo vada immediatamente abolito, ma che
vada esplicitamente riproposta la questione del superamento dell’ergastolo
e ripresa una prospettiva radicalmente abolizionista sul carcere. Come
ci insegna Angela Davis, il carcere è dispositivo della violenza del
capitale. I processi di “crimmigration” coinvolgono anche le sovraffollate
e indegne carceri italiane: le carceri sono uno dei luoghi in cui è
più visibile la questione meridionale e la segregazio
ne disciplinante della forza lavoro migrante. Chiediamo verità e
giustizia per i detenuti che hanno perso la vita durante le rivolte
carcerarie del 2020.
Con l’emergenza COVID, se possibile, la situazione si è ulteriormente
aggravata, perché si è inflitta la condanna aggiuntiva al supplizio
della malattia più infettiva degli ultimi decenni per le persone condannate
al carcere o per lavoratori e lavoratrici del carcere.
Ribadiamo la necessità di una amnistia per i reati sociali e, in
senso più ampio, il sostegno allo Stato sociale di diritto, in cui
i comportamenti illeciti si prevengono e, se necessario, si perseguono
con equità e spirito di umanità, sempre e solo da parte dello Stato.
Proponiamo: la depenalizzazione e la decriminalizzazione di una serie
di fattispecie di reato che intasano i Tribunali per processi bagattelari,
la estensione di sanzioni riparative volte alla massima riduzione
del carcere e una nuova politica carceraria. Un Paese che usa il diritto
penale come soluzione dei problemi sociali e delle diseguaglianze
economiche, mette in mora la Costituzione ed è un Paese senza civiltà
giuridica.
Investire sul diritto ad avere giustizia non significa incrementare
ancora il novero delle forze dell’ordine, ma specializzarle, formarle
diversamente, smilitarizzarle. Sottrarle dal rischio di renderle impunite,
come successo a Genova o come accaduto a Stefano Cucchi, a Federico
Aldrovandi, Serena Mollicone e tante/i altre/i. Investire sull’antimafia
significa permettere ai magistrati di utilizzare sequestri e confische,
ma, soprattutto, ricostruire i tessuti sociali di comunità devastate
dall’assenza di lavoro e istruzione, oltre che dall’omertà e dall’incultura.
Vanno abrogate le disposizioni proibizioniste che sono, nei fatti,
un regalo alle mafie, facendo crescere il prezzo della merce/droga,
e che portano ad un uso incontrollato delle sostanze. Al contrario,
sono necessarie disposizioni sulla legalizzazione e liberalizzazione,
con percorsi di riduzione del danno e di collettivi di "mutuo
aiuto", anche tenendo conto delle lodevoli esperienze nazionali
ed internazionali.
Oggi in Italia circa un terzo dei nuovi ingressi nelle carceri è
legato al consumo o alla vendita di sostanze stupefacenti. Le politiche
in vigore criminalizzano i consumatori e le consumatrici e impediscono
di autoprodurre cannabis, anche a scopo terapeutico. L’utilizzo di
cannabis terapeutica è sottoposto a complesse procedure, rendendo
inaccessibile il diritto alla cura per migliaia di malati, con una
sostanza meno dannosa di molti farmaci di comune utilizzo. Impedire
alle persone di coltivare cannabis o costringerle ad acquistare sostanze
in maniera illegale, costituisce un enorme regalo alla criminalità
organizzata che conta su un giro d’affari di oltre 30 miliardi di
euro l’anno. Migliaia di giovani finiscono in carcere, marchiati a
vita, per essere in possesso di qualche spinello. Alcuni di loro arrivano
al suicidio. Tutto questo, in un clima reazionario che rende impossibile
un dibattito laico su una delle maggiori questioni economiche e sociali
di questo secolo. Persino la “cannabis light”, che non è una sostanza
psicotropa, viene criminalizzata non solo dalle destre, ma anche da
forze che sono posizionate nell’ambito del centrosinistra. La propaganda
impedisce l’approvazione di una proposta di legge che giace in parlamento
dal 2015 e che consentirebbe la regolamentazione dell’uso e della
vendita di droghe leggere. In questo Paese non solo non viene garantito
l’accesso alla cannabis terapeutica ma si impedisce lo sviluppo di
un settore che potrebbe creare decine di migliaia di posti di lavoro,
ma finisce invece sotto processo il malato che coltiva qualche pianta.
Tra l’altro, la legalizzazione consentirebbe di affrontare la crisi
post pandemica con effetti positivi dal punto di vista fiscale, economico
e sanitario come dimostra l’esperienza dei Paesi che hanno imboccato
questa strada, permettendo anche l’utilizzo delle forze dell’ordine
e i tribunali per una più efficiente lotta alla criminalità e una
maggiore attenzione verso i reati ambientali e legati alla mancanza
di sicurezza sul lavoro. L’antiproibizionismo è una battaglia di libertà
e civiltà.
TESI 7 – Antimafia sociale
Le mafie sono parte integrante dell'autobiografia della nostra nazione.
Tanto più oggi, perché tutte le forme e le modalità dell'accumulazione
sono amplificate dalla pandemia, che pone scelte discriminanti. Le
mafie stanno crescendo, in questo contesto, perché riesce ad organizzare,
con i suoi mezzi finanziari e con le ingenti risorse da riciclare,
due processi criminali che incidono a fondo sia sulla ricostruzione
della catena del valore, sia sulla formazione sociale.
Infatti, oltre alle sue forme tradizionali di espressione, la mafia
agisce su due terreni: da un lato, con il "welfare sostitutivo"
di uno Stato sociale iniquo e sfibrato. In quanti quartieri metropolitani
impoveriti le mafie baratta soggezione di massa al malaffare, con
l'organizzazione del circuito della sopravvivenza?
In secondo luogo basta prestare attenzione (cosa che il governo non
fa) ai continui preoccupati rapporti della Guardia di Finanza e della
DIA, che ci segnalano che la mafia S.p.a. sta acquistando azioni di
aziende decotte da imprenditori che da proprietari diventano amministratori
di quelle aziende, il cui pacchetto azionario è detenuto dalle mafie.
Recenti rapporti scrivono del rischio concreto che, dopo la pandemia,
circa il quaranta per cento dell'economia italiana possa essere grigia,
nera, mafiosa. Le mafie stanno crescendo, anche se sparano meno. Per
combatterle occorre incidere, allora, su forme dello sviluppo, rapporti
di produzione e rapporti sociali. Anche lo smantellamento di tutto
il sistema dei controlli istituzionali su opere pubbliche, grandi
infrastrutture, ecc. che il sistema dei partiti di Stato sta portando
avanti, genera faglie molto lucrose in cui le mafie agevolmente si
insinuano. E' una vuota chiacchiera retorica parlare di lotta alla
mafia se il governo finge di non comprendere cosa sia oggi la "borghesia
mafiosa", "paradigma della complessità", come analizza
nei suoi studi Umberto Santino: organizzazione e sistema di rapporti,
intreccio tra criminalità, comando sul territorio, accumulazione capitalistica,
codice culturale e, insieme, consenso sociale. Il Fondo Monetario
Internazionale (FMI) ha stimato che ogni anno vengono immessi nei
circuiti finanziari globali capitali mafiosi per una cifra (sottostimata,
probabilmente) compresa tra il due e il cinque per cento del Prodotto
Interno Lordo mondiale. Con pandemia e PNRR, vi è il rischio che le
mafie facciano affari come mai dopo la ricostruzione successiva alla
seconda guerra mondiale.
Le mafie sono soggetti attivi del "sovversivismo reazionario"
delle classi dominanti (da Portella della Ginestra in poi) e ben conoscono
l'alternanza di potere, come tutti i sistemi di accumulazione. Non
è delinquenza ed illegalità terroristica, se non in alcune fasi. E
non è fuori dallo Stato, un "bubbone" in un corpo sano.
La mafia è dentro lo Stato. Pio La Torre affermava: "se non c'è
amministrazione, banca, corruzione politica, non c'è mafia. E' attività
criminale, non mafia". Pagando con il sacrificio della vita,
La Torre ci ha insegnato che la mafia si combatte certo con polizia
e magistratura (quando non sono corrotte), ma soprattutto colpendone
le ricchezze accumulate, con il sequestro e la confisca dei beni.
Dopo anni di esperienze, dopo migliaia di beni confiscati, è indispensabile
ed urgente mettere oggi a punto una normativa efficace e che sia da
supporto ad enti locali che sono in grave difficoltà nella gestione,
nell'indirizzo, nella destinazione dei beni stessi. Il fallimento
della "legge La Torre", con i beni che rientrano in possesso
dei mafiosi, sarebbe uno smacco definitivo per la lotta antimafia.
Abbiamo imparato da Peppino Impastato, la cui figura, pensiero ed
opere riteniamo di grande modernità ed insegnamento ancora oggi, che
l'antimafia non è apparato retorico di sindaci in fasce tricolori
o di politici che parlano di mafia solo nei comizi della domenica,
ma "antimafia sociale". Peppino ne è stato precursore ed
attore, capace di costruire un nesso tra lotte studentesche, contadine,
operaie. Fu ambientalista serio. Costruì spazi culturali e luoghi
di socializzazione. Con “Radio Aut” osò praticare il sarcasmo per
smantellare la sacralità del capomafia, per intaccare il suo comando
sul territorio. Una vera ed efficace critica del potere mafioso.
Peppino fu ucciso perché la mafia si accorse che a Cinisi tutte le
forze politiche, (dal MSI, alla DC, al PCI), lo consideravano un impaccio
per la concordia del sistema di relazioni mafiose in cui erano coinvolte.
Carabinieri e settori della magistratura "depistarono",
facendolo passare per un "suicida" o un “terrorista” saltato
sulla bomba che stava depositando sui binari ferroviari. Alle sue
esequie, nel 1978, giurammo che avremmo dimostrato la verità sull'uccisione
per mano di mafia. Ci si è riusciti 21 anni dopo. Le ragazze e i giovani
che oggi, tra mille difficoltà e repressione, praticano conflitto
e mutualismo, spesso hanno Peppino nella mente e nel cuore, come militante
comunista che lottò "per un altro mondo possibile".
TESI 8 – Per un blocco sociale antiliberista
Nell’ultimo trentennio, l’Italia ha subito un capitalismo fondato
sull’accumulazione per espropriazione: privatizzazioni, esternalizzazioni
e “riforme” di ogni genere hanno prodotto un gigantesco saccheggio,
che ha reso più povero e ingiusto il Paese. Persino l’acqua è finita
in borsa. La struttura sociale ha subito una forte polarizzazione
ed un processo di impoverimento che riguarda la maggioranza della
popolazione: il 5% più ricco degli italiani possiede più del 40% della
ricchezza, mentre il 60% più povero ne possiede poco più del 10%.
Questo processo di polarizzazione si accentua attorno ad alcune linee
di faglia assai precise: le donne i giovani e i migranti sono colpiti
in modo particolare ed è cresciuto il divario nord/sud. Il grande
aumento delle differenze sociali tra le classi si è intrecciato ad
un processo di differenziazione disgregante all’interno del proletariato
e delle classi lavoratrici.
La perdita di posti di lavoro, diritti, reddito e potere da parte
del mondo del lavoro non ha però prodotto un aumento della conflittualità
sociale. Viceversa, assistiamo ad un forte processo di passivizzazione.
La frantumazione sociale, un generalizzato senso di insicurezza sociale,
un profondo senso di solitudine e di impotenza, una rabbia sociale
che nell’incomprensione delle reali cause del disagio sfocia non di
rado nella guerra tra poveri e nel “si salvi chi può”: sono questi
gli elementi che – accentuati dalla sindemia del Covid - caratterizzano
maggiormente la condizione sociale proletaria.
Compito nostro è quindi analizzare le dinamiche oggettive ed indagare
quelle soggettive, al fine di individuare le strade per costruire
il blocco sociale per l’alternativa, unificando tutti i settori della
società penalizzati dalle politiche liberiste. L’unità della classe
lavoratrice e delle classi popolari non nasce spontaneamente dalla
condizione oggettiva di sfruttamento e/o esclusione, ma è il frutto
di un percorso di soggettivazione in cui ci si riconosce come appartenenti
ad una classe, con interessi contrapposti a quelli di un’altra classe.
Operiamo quindi per favorire l’identificazione di classe di tutte
e tutti le sfruttate e gli sfruttati, per contrastare i conflitti
orizzontali che dividono le classi popolari (italiani/stranieri, giovani/anziani,
lavoro pubblico/privato, lavoro dipendente/autonomo), perché solo
l’unità di tutti i settori popolari può darci la forza necessaria
per il cambiamento. In particolare lavoratrici e lavoratori migranti
costituiscono una componente essenziale della classe lavoratrice del
nostro paese.
Noi rifiutiamo sia il populismo reazionario della destra sia il “neoliberismo
progressista” del centrosinistra. La configurazione di un blocco popolare
antiliberista dovrebbe ricomprendere l’insieme della classe lavoratrice
(che non è composta maggioritariamente da bianchi, maschi, eterosessuali)
e i ceti colpiti e depauperati dal neoliberismo. Bisogna connettere
le lotte contro le varie forme di oppressione, sfruttamento e espropriazione
che si intrecciano nella società capitalista.
Alcuni elementi che contribuiscono alla frantumazione
della classe
La progressiva distruzione dei diritti del lavoro
- che si nutre di disoccupazione, appalti, lavoro precario e servile
ed assume talvolta la forma del lavoro autonomo - attraversa tutti
gli strati lavorativi: dai lavori agricoli ai settori pubblici e
delle “professioni”, fino a pochi anni fa considerati lavori privilegiati.
La parallela e crescente distruzione del welfare e il venir meno
dei diritti sociali, ha accentuato insicurezza, solitudine e frantumazione
sociale e peggiorato la condizione delle donne, con un aumento del
lavoro di cura che ricade sempre di più sulle loro spalle.
Con lo svanire dei diritti, cresce la pratica
del favore, della dipendenza personale, dei ricatti. La mentalità
mafiosa è diventata una modalità di gestione della dequalificazione
dell’apparato produttivo del Paese, intrecciando bassi salari e
super sfruttamento. In questo contesto, matura l’enorme quantità
di disoccupati intellettuali che caratterizza il nostro Paese: ci
impongono un sistema produttivo che non ha bisogno di intelligenze
e competenze.
L’ideologia dominante che giustifica questa situazione
è quella della scarsità, unita alla descrizione dell’Italia come
un Paese sull’orlo del fallimento. “Non ci sono i soldi” è stato
il refrain con cui da 30 anni le classi dominanti hanno obbligato
e convinto le classi lavoratrici a fare i sacrifici. L’assunzione
da parte dei sindacati confederali e del centro sinistra di questa
ideologia - e la conseguente complicità nella distruzione dei diritti
delle lavoratrici e dei lavoratori - hanno deteriorato i rapporti
del mondo del lavoro con sindacato e politica, e alimentato il senso
di impotenza individuale. Con l’abbandono della lotta di classe,
inizia la “guerra tra poveri” e il razzismo popolare, una sorta
di impotenza rabbiosa fatta di ricerca del capro espiatorio e di
subalternità concreta verso i potenti, in cui riemergono le subculture
maschiliste, omofobe, securitarie, propagandate a piene mani dalle
destre populiste.
Le classi dominanti, mentre si arricchivano a
dismisura e prendevano il controllo completo dell’informazione e
della formazione dell’immaginario, hanno propagandato scarsità e
operato per distruggere ogni possibile riferimento socialista e
di classe. La distruzione del PCI da parte del suo gruppo dirigente,
e la successiva campagna anticomunista, puntavano alla cancellazione
dell’identità comunista, ma anche all’archiviazione della lotta
di classe e dell’anticapitalismo, dipinti come elementi arcaici
e premoderni. Il contesto “concertativo” e la distruzione di ogni
identificazione di classe fanno addirittura mancare le “parole per
dirlo”, con la perdita della consapevolezza della propria condizione
di sfruttati-e. La colpevolizzazione del disagio sociale, la glorificazione
del ricco e dell’impresa, caratterizzano la situazione attuale,
che somiglia sempre più all’ancien regime. E’ in questa Italia che
crescono le lotterie e la dipendenza da gioco, ultima frontiera
di una possibile uscita dalla deprivazione, per accedere al miraggio
della ricchezza.
L’impoverimento dell’apparato produttivo ha un
corrispettivo nello sfruttamento intensivo del territorio: gasdotti,
TAV, inceneritori, discariche tossiche. L’Italia – ed in particolare
il mezzogiorno – tende a diventare il cortile di casa dell’apparato
produttivo mittel-europeo. L’aggressione ai beni comuni e al paesaggio
ha visto un’incessante cementificazione del territorio e il trionfo
dell’immobiliarismo, della completa deregulation urbanistica e dello
smantellamento, persino della tutela del patrimonio storico-architettonico.
Vi è quindi un tratto strutturale nella distruzione del territorio
dell’ambiente del belPaese.
In questo contesto, l’unità tra i proletari e le classi popolari
non deriva automaticamente dall’aggravarsi delle condizioni materiali,
anzi, il degrado sociale favorisce l’impoverimento culturale e il
conflitto tra gli sfruttati. Basti pensare allo stato in cui versano
larga parte delle periferie, ed ogni cittadina ha la sua periferia.
E’ quindi necessario individuare un percorso unitario che agisca a
tutti i livelli a cui avviene lo scontro di classe e la lotta per
l’egemonia. Occorre allargare la nostra concezione della lotta di
classe, a partire dalla condizione proletaria nella sua interezza
ed articolazione. Ci poniamo questo obiettivo, consapevoli che le
nostre sole forze non sono sufficienti. Ricerchiamo pertanto l’unità
d’azione con chiunque sia disponibile a lavorare su ogni singolo punto
di iniziativa che caratterizza la costruzione dell’alternativa.
La nostra iniziativa:
A) sociale,
B) culturale,
C) politica
A) L’iniziativa sociale deve costruire conflitto e solidarietà.
Costruzione del conflitto nel mondo del lavoro
a tutti i livelli, puntando a riattivare un tessuto di sindacalismo
di classe e di unificazione tra i diversi settori produttivi. Lotta
per un “Piano per il lavoro” e lotta comune tra lavoratrici, lavoratori
ed utenti per l’allargamento e lo sviluppo di un welfare pubblico
– a partire dalla sanità - che ricostruisca una condizione di sicurezza
sociale come diritto esigibile e base per una maggior libertà delle
donne. Lotta alla frantumazione del mercato del lavoro, rivendicando
un reddito di base che garantisca il diritto all’esistenza a tutte/i,
un salario minimo orario per tutte/i le lavoratrici e i lavoratori,
la riunificazione anche giuridica delle diverse figure lavorative
subordinate ed il superamento delle normative che discriminano i
migranti.
Costruzione di forme comunitarie, mutualistiche,
solidaristiche, di alfabetizzazione sociale, che favoriscano la
rottura della solitudine proletaria, a partire dalle periferie metropolitane.
Costruire un tessuto popolare “denso”, costruire confederalità sociale
al fine di contrastare le politiche neoliberiste, che puntano alla
frantumazione della società.
Lotta generale per la riduzione dell’orario di
lavoro a parità di salario, a partire dall’abbassamento dell’età
per andare in pensione, finalizzata alla redistribuzione del lavoro
produttivo e riproduttivo. Lavorare meno, lavorare tutti e vivere
meglio deve valere nei luoghi di lavoro come dentro le mura di casa.
Come vogliamo superare le divisioni di classe vogliamo superare
le divisioni sociali e gli stereotipi legati all’appartenenza di
genere o al colore della pelle.
Lotta contro la devastazione del territorio e
per la sua valorizzazione come patrimonio comune, su cui costruire
un diverso modello di sviluppo per il nostro Paese. Lotta per la
riconversione ambientale e sociale delle produzioni, al fine di
instaurare una economia della cura delle persone e del territorio,
una economia che abbia al centro la riproduzione sociale e ambientale
e non la produzione infinita di merci in larga parte inutili e dannose.
Una economia pubblica fondata sulla valorizzazione e produzione
di valori d’uso, sulla demercificazione e sul comune.
Rovesciamento delle priorità fiscali: debbono
pagare grandi imprese e grandi ricchezze a partire dall’introduzione
della patrimoniale e della forte progressività sulle successioni
ereditarie. Riduzione della tassazione per tutti i redditi medio
bassi. Il fisco deve diventare elemento di unificazione popolare,
del 60% contro il 10%, del basso contro l’alto.
B) L’iniziativa culturale deve rovesciare l’ideologia dominante:
Il sistema capitalistico globalizzato, che distrugge
la natura e devasta le relazioni sociali, è il responsabile della
crisi. Non esiste nessuna scarsità economica: la ricchezza sociale
è enorme e multiforme e va redistribuito il lavoro come il denaro,
dai ricchi ai popoli e dal sistema finanziario agli Stati. Questa
redistribuzione è necessaria per sviluppare il welfare e praticare
la riconversione ambientale e sociale dell’economia: i soldi ci sono
e debbono essere redistribuiti, il lavoro è molto produttivo e deve
essere redistribuito, le risorse naturali sono scarse e la natura
deve essere rispettata.
Il conflitto di classe (finalizzato al superamento
della logica del profitto e della concorrenza, da sostituire con la
cooperazione, la solidarietà e il rispetto della natura) mostra la
strada maestra per uscire dalla crisi. La concorrenza porta alla guerra
e solo la cooperazione e la proprietà comune possono valorizzare positivamente
l’enorme potenziale di sapere, produttività e ricchezza sociale oggi
a disposizione dell’umanità. Le diseguaglianze di classe e lo sfruttamento
devono essere combattute e superate, mentre le differenze di genere,
religione, colore della pelle, generazione, fanno parte della varietà
e della ricchezza dell’esperienza umana. La lotta di classe costruisce
solidarietà laddove c’è ingiustizia, limitazione delle libertà, sfruttamento
e punta al superamento di ogni forma di oppressione sociale e per
questo si intreccia con la lotta al patriarcato, all’omolesbotransbifobia,
al razzismo e a ogni discriminazione.
C) L’iniziativa politica deve aggregare forze
Operare per il dialogo tra tutte le istanze e i
movimenti che contestano ogni singolo aspetto delle politiche liberiste,
evidenziando i nessi tra i diversi problemi e le potenzialità insite
nell’alleanza tra soggetti e nella costruzione di coalizioni sociali.
In alternativa ai poli politici esistenti, entrambi liberisti e subalterni
al grande capitale (uno a declinazione cosmopolita e progressista e
l’altro a declinazione populista e reazionaria), occorre costruire un
polo politico popolare antiliberista, che unisca la lotta per i diritti
di tutte/i, la difesa dell’ambiente, un modello sociale solidale e restituisca
voce alle classi lavoratrici. Un progetto politico finalizzato alla
riunificazione delle classi popolari, alla costruzione del blocco sociale
dell’alternativa.
TESI 9 - La nostra alternativa per un programma
di fase
Le classi dirigenti stanno mettendo in atto un progetto di ristrutturazione
del sistema capitalista, per affrontare le contraddizioni già emerse
dal 2008 ed esaltate dalla pandemia.
Tale disegno, sostenuto dai soldi del recovery plan, indirizzato, direttamente
o indirettamente alle imprese, può contare sull'omologazione di tutte
le forze presenti in Parlamento, comprese quelle fuori dal governo Draghi,
che non avanzano proposte alternative alle politiche decise in ambito
europeo.
Rifondazione Comunista ritiene, al contrario, che di fronte al carattere
distruttivo, assunto dal capitalismo, sia necessaria un'alternativa
e che le contraddizioni evidenziate dalla pandemia costituiscano il
terreno su cui costruire un movimento di massa, finalizzato alla riconversione
ambientale e sociale dell'economia, all’eguaglianza, all’affermazione
dei diritti universali. Un'alternativa che metta al centro la soddisfazione
dei bisogni fondamentali dell’umanità e non il profitto, in una situazione
in cui gli enormi finanziamenti stanziati, per salvare le imprese, rivelano
grande disponibilità di denaro: i soldi ci sono e devono essere utilizzati
per il bene comune!
a) Il pubblico va rilanciato, a partire dal ruolo
della Repubblica nella programmazione dell'economia, per assumere la
gestione diretta di settori strategici oggi privatizzati. In tale contesto,
fondamentale è una forte e rinnovata presenza pubblica nel sistema bancario,
assicurativo e finanziario. Ciò può avvenire attraverso una radicale
trasformazione delle prassi operative e della missione di tutte le attuali
partecipazioni pubbliche (Poste, CDP, Mediocredito, Invitalia), la cui
attività deve essere coordinata da un'unica strategia, antitetica a
quella basata sul profitto. Ciò significa superare l'attuale situazione,
che da un lato le rende indistinguibili dal privato nello stile manageriale,
nelle relazioni con la clientela/utenza, nei rapporti con le lavoratrici
e i lavoratori, dall'altro assegna loro un ruolo subordinato agli interessi
del grande capitale.
Debbono essere realizzati Piani di settore nazionali, caratterizzati
dalla sostenibilità ambientale, per energia, mobilità, infrastrutture,
riassetto idrogeologico.
Anche la Ricerca deve essere a guida pubblica, sia quella applicata
alle sfide della riconversione ecologica dell'economia, sia quella di
base, che oltre a soddisfare il libero sviluppo delle conoscenze, è
propedeutica alla ricerca applicata.
Un nuovo pubblico per garantire tutti gli aspetti della riproduzione
sociale, deve disporre delle risorse necessarie per essere ricostruito
quantitativamente e qualitativamente. Sono necessarie assunzioni di
centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici in tutti i settori,
attraverso meccanismi trasparenti. Vanno introdotte forme di partecipazione
delle lavoratrici e dei lavoratori e di controllo sociale, anche per
contrastare con forza il progetto di integrazione pubblico/privato su
cui sta lavorando l'attuale governo.
Tutto il sistema di istruzione è stato pesantemente colpito dalla pandemia,
stanti le condizioni di fragilità dovute ai tagli dei governi di centrodestra
e centrosinistra. A questo ha cercato di rispondere un nuovo movimento
di genitori, insegnanti, studenti, con richieste sostanzialmente in
linea con quelle da noi avanzate fin dall'aprile 2020. Il segno più
preoccupante di tale fragilità è la dispersione scolastica, in crescita
già dal 2017, soprattutto nel meridione, ma sicuramente incrementata
dalla didattica a distanza e la perdita del rapporto diretto tra scuola
e studenti. L'abbandono scolastico è da combattere prioritariamente
con l'elevamento dell'obbligo scolastico e l'accesso gratuito all'istruzione,
dagli asili nido all'Università, la quale necessita di un'equa distribuzione
delle risorse, contro la logica che premia le sedi che seguono le logiche
di mercato. E' tempo di abolire il numero chiuso e la creazione di un
forte organismo nazionale di indirizzo e controllo, eletto con modalità
democratiche dall'intero mondo universitario.
La sanità, che continua a subire l'aggressione del mercato nonostante
la pandemia, va rilanciata a partire dall'internalizzazione dei servizi
consegnati al mercato, in vari modi, sia attraverso convenzioni con
strutture private, sia appaltando servizi socio-sanitari a Cooperative
Sociali , le cui centrali costituiscono da tempo potenti lobbies fondate
sullo sfruttamento delle socie e dei soci lavoratori che lavorano con
salari e condizioni inferiori a quelle previste dai CCNL pubblici, ridisegnando
il sistema della medicina territoriale e della prevenzione e dotandoli
di comitati di partecipazione e indirizzo. Va ricostruita l'integrazione
tra servizi sanitari e socio-assistenziali, separati nel passaggio dalle
USSL alle ASL, con un processo di aziendalizzazione, che ha ridotto
l'assistenza domiciliare ai minimi termini, scaricandone il peso sulle
famiglie. E' necessario scardinare il “welfare familistico”, subordinato
alla regolazione dei rapporti di genere e alle leggi di mercato, per
riaffermare un sistema a carattere universalistico.
Crisi economica e pandemia, hanno gettato nella povertà assoluta più
di 7,5 ml di persone, alle quali lo Stato deve garantire un sostegno
con un reddito di base e servizi gratuiti. Anche il welfare sociale
è pesantemente sotto attacco da anni. I passaggi da “Welfare State”
a “Welfare Mix” a “secondo Welfare” decisi a livello europeo, hanno
portato a un sistema di “Mutualismo di Mercato”. Dobbiamo lavorare per
garantire un sistema pubblico di servizi per gli anziani, per le persone
disabili, per tutte le fragilità sociali e agire per il ripristino dei
consultori e dei centri antiviolenza, i servizi per l’infanzia e la
sua tutela.
Il pubblico deve assicurare il diritto all’abitare, sia utilizzando
il grande patrimonio sfitto esistente, sia rilanciando l’Edilizia Residenziale
Pubblica a consumo zero di suolo, con la riconversione ad alloggi popolari
del patrimonio pubblico (a qualunque titolo), unitamente a un nuovo
assetto delle città compatibile con la sostenibilità ambientale e fuori
dalle logiche speculative.
A dieci anni dal referendum sull'acqua, va sottolineato il carattere
emblematico di quella vittoria, ma anche che non ha dato luogo a una
vera gestione pubblica e rischia di essere totalmente vanificata dall'invasione
delle società a struttura privatistica da parte delle multinazionali
del settore. L’azione per ricostruire alleanze e movimenti di lotta,
che riportino l'acqua alla sua natura di bene comune, è preminente nel
nostro progetto politico.
b) La trasformazione del lavoro produttivo e riproduttivo,
svalorizzato in tutte le sue dimensioni – salariato, apparentemente
autonomo, di cura - con l'intensificazione dello sfruttamento e dell'alienazione,
è al centro della costruzione dell'alternativa.
Il dramma delle morti sul lavoro, che segnala quest'intensificazione,
richiede l'assunzione urgente di migliaia di ispettori, per i controlli
sulla sicurezza, praticamente scomparsi a seguito anche qui dei tagli
sul settore.
La riduzione del tempo di lavoro, rispetto all'orario settimanale e
all'età del pensionamento, è uno dei nostri obiettivi storici giunto
a maturazione per il livello di produttività raggiunto e più che mai
legato all'occupazione, per la quale oltre a un piano specifico nazionale
occorre un'articolazione di obiettivi a livello settoriale e territoriale,
a partire dalle stabilizzazioni di tutte le diffuse forme di precariato.
Il confronto con le nuove modalità di sfruttamento, dal lavoro in remoto
a quello sempre più diffuso nella logistica, richiede un'urgente attività
d'inchiesta, che deve tornare ad essere un impegno di tutti i settori
del partito, per rendere più puntuali ed efficaci i nostri obiettivi.
Il recupero e l'ampliamento dei diritti sul lavoro - a prescindere
dalla forma giuridica in cui viene prestato - vanno tenuti insieme per
la tenuta democratica, sempre più minacciata dall'espropriazione dei
livelli decisionali partecipati a favore di entità private. Per questo
va utilizzato a pieno il valore dei diritti universali sanciti dalla
Costituzione del 1948, anche contro l'autonomia regionale differenziata
e per la ricostituzione dei principi di unità e uguaglianza tra i diversi
territori.
E' anzi necessario un intervento dello Stato per superare la sperequazione
economica fra aree forti e quelle marginali, in particolare nel Mezzogiorno,
non solo nella dotazione infrastrutturale materiale ed immateriale e
nella regolamentazione dell’attività economica, ma anche con la costituzione
di imprese pubbliche per la produzione di beni e servizi o con l’acquisizione
di siti industriali non più produttivi da rigenerare. Tale intervento
diviene, inoltre, essenziale per poter incidere nel rapporto tra mafie,
economia e contesto sociale, smantellando il sistema relazionale transclassista,
costituito da soggetti illegali e legali, la cosiddetta “borghesia mafiosa”.
c) La lettura intersezionale di condizioni di discriminazione,
marginalizzazione, oppressione culturale e sociale di classi lavoratrici,
donne, comunità lgbtqi, migranti, richiede politiche che non si limitino
a contrastare questi fenomeni separatamente, ma puntino a riconnetterne
i legami in un progetto di trasformazione.
Anche per questi obiettivi è necessario un partito che sia “sociale”,
in grado di ricostruire senso comune, capace di aiutare a ritrovare
identità nell'individuazione del nemico comune.
A fronte del feroce attacco alle condizioni di vita e di lavoro, è centrale
l’obiettivo della gestione pubblica per garantire i diritti esigibili
previsti dalla nostra Costituzione, ma tale pesantissimo attacco crea
bisogni emergenti e drammatici a cui bisogna far fronte. Per questo
è necessario passare da una difesa “elementare” individuale o di piccolo
gruppo ad una difesa di livello “sociale organizzato”. Oggi in Italia
ci sono esperienze, lotte, pratiche sociali, spesso isolate, emergenziali,
autoreferenziali che devono essere unite, integrate. Dobbiamo creare
una difesa il più possibile complessiva ed organica come elemento di
ricomposizione della classe proletaria. Possiamo chiamarla “Confederalità
Sociale”. Abbiamo quindi bisogno di contrastare l’attuale sistema di
“Mutualismo di Mercato”, cioè la sempre più ampia privatizzazione di
settori pubblici palesata con la riforma del “Terzo Settore”, con un
“Mutualismo Vertenziale/Conflittuale” per dare risposte ai tanti e drammatici
bisogni sociali e materiali. Un mutualismo che, attraverso l’autorganizzazione
e l’autoproduzione, alimenta la presa di coscienza attraverso l’esercizio
della vertenzialità per la costruzione dell’alternativa.
Aiutano, nella ricomposizione sociale, vertenze territoriali come quella
esemplare e di forte valore simbolico dei “No Tav” e delle molteplici
questioni ecologiche, sulle quali è possibile inserire obiettivi di
riconversione produttiva, di una nuova relazione con l'ambiente e il
clima.
A dieci anni dal referendum sull'acqua, quella vittoria non solo non
ha dato luogo ad una gestione pubblica, ma rischia di essere vanificata
per l'invasione delle società a struttura privatistica da parte delle
multinazionali del settore. E' nostro impegno prioritario costruire
su questo terreno alleanze e movimenti che riportino l'acqua alla sua
natura di bene comune.
d) Il governo Draghi ha portato all’esasperazione
l’evidenza di un appiattimento sociale, politico e culturale su un pensiero
unico dominante. Se l’espressione e la circolazione delle idee sono
il fondamento d’ogni conoscenza e coscienza critica della realtà e se
è vero che l’immensa proposta culturale e mediatica, oggi vincente,
favorisce un senso comune fatto di adeguamento all’esistente e di sostanziale
passività, noi dobbiamo riaffermare con forza che la cultura è un diritto,
un “servizio essenziale” non monetizzabile, che, come dice la Costituzione,
solo la Repubblica può garantire per il “pieno sviluppo della persona
umana”. Un nuovo immaginario e una informazione diversa e plurale non
nasceranno da soli o per volontà di qualcuno. L’intervento dello Stato
nella cultura e negli apparati di produzione di senso è fondamentale
per garantire la possibilità di “tanti immaginari”, di tante culture
diverse, dei tanti punti di vista, sottraendoli alla logica del profitto.
Serve una profonda e radicale riforma del servizio pubblico radiotelevisivo,
che riporti la più grande azienda pubblica produttrice di senso fuori
dal controllo del governo, liberandola anche “dalla subordinazione ai
dettami del mercato”. Una azienda democratizzata e gestita dalle forze
sociali, professionali e culturali, decentrata e partecipata, radicata
sui territori, che possa diventare volano di tutta l’industria culturale
del paese. Va rimesso al centro il ruolo dello Stato per favorire la
ricerca e la sperimentazione, la possibilità di una produzione culturale
indipendente e plurale, liberata dalle logiche di mercato. Servono riforme
strutturali per un ruolo dello Stato che riaffermi l'utile culturale
e dunque sociale della produzione artistica, a prescindere dall'utile
economico. L'intervento pubblico deve sostenere un'editoria indipendente,
giornali cooperativi, di partito, riviste culturali e dell'associazionismo,
per permettere un reale pluralismo.
TESI 10 - Nuovo pubblico per un'altra
società
I nodi delle politiche liberiste, unite in questi anni all'austerità,
stanno venendo al pettine. La pandemia ha evidenziato come abbiano prodotto
pesanti conseguenze sulla gran parte della popolazione, con la ridistribuzione
della ricchezza a favore di rendite e profitti, la riduzione dei diritti
e dell'occupazione, il ridimensionamento del pubblico, la subordinazione
ai vincoli europei, l'attacco progressivo alle forme di partecipazione
e ai diritti conquistati negli anni '70, la trasformazione della democrazia
in una direzione sempre più formale.
In nome del primato dell'impresa e del mercato si è minimizzato il ruolo
dello Stato nell'economia, privatizzando le aziende a controllo pubblico,
cedute nonostante i bilanci in positivo, mentre nei casi di sofferenza
economica sono state lasciate gestire da manager strapagati, esperti
più di finanza che di politica industriale, che le hanno mandate in
rovina ed esposte a vere e proprie svendite.
L'assenza di indirizzo e controllo ha fatto scomparire intere filiere
produttive, insieme a competenze e professionalità di persone consapevoli
e rispettose degli interessi generali del Paese. Le privatizzazioni
hanno investito settori strategici come i trasporti, le autostrade,
le telecomunicazioni, i servizi pubblici locali e persino l'acqua.
La giustificazione delle privatizzazioni o della trasformazione in Società
per azioni è sempre stata giustificata con la necessità di pareggiare
i bilanci e di sostituire la “cattiva” gestione pubblica con quella
privata più efficiente ed efficace, ma il risanamento dei bilanci è
avvenuto in realtà solo attraverso l'aumento delle tariffe, come testimoniato
dalla Corte dei Conti.
Le gestioni dei servizi pubblici attraverso le S.p.a. hanno prodotto
gradualità nelle privatizzazioni, creando assuefazione nell'opinione
diffusa, inizialmente rassicurata dalla presenza di quote pubbliche,
rispetto a quelle di privati, in aziende sottoposte però a diritto privato,
scalabili persino da capitali stranieri. Campioni di queste mistificazioni
e processi sono stati prevalentemente i governi di centro sinistra.
La pandemia ha reso eclatanti le conseguenze dei tagli operati nei settori
pubblici, a partire dalla Sanità, drammaticamente ridimensionata nelle
strutture, nel personale medico e infermieristico, nella prevenzione
e nella medicina territoriale. L'introduzione della forma aziendale
nella Sanità pubblica ha consentito di sollevare questioni di bilancio
e restituire al mercato e ai profitti ciò che ne stava fuori: tra il
2010 e il 2020, sono stati tagliati circa 37 miliardi, portando l'Italia
a spendere quasi la metà della Francia e circa un terzo della Germania.
Alla stessa stregua è stata trattata l'istruzione, dalla Scuola all'Università,
portando l'Italia tra gli ultimi Paesi europei per il numero di diplomati
e laureati e tra i primi per l'abbandono scolastico.
In questi settori, dove grazie alle lotte passate e recenti è più
sedimentata la consapevolezza che solo il pubblico garantisce i diritti
fondamentali, è ancora presente una certa resistenza alla mercificazione,
rendendo più difficile far digerire l'ideologia dello “Stato minimo”.
La pandemia ha evidenziato anche nei trasporti, nei beni culturali e
in tanti altri settori, che solo il pubblico può tutelare gli aspetti
essenziali della vita delle persone, mentre il mercato non riesce a
garantire nemmeno la riproduzione sociale.
“Privato è bello” sta mostrando tutti i suoi limiti, già emersi prima
della pandemia e ormai a livelli tali che solo il sostegno dello Stato
può contemperare. Alla faccia del mercato, che non è in grado di autoregolarsi
e sostenere autonomamente la ripresa, tanto meno rispondere ai bisogni
fondamentali delle persone.
Il diverso tasso di difficoltà dei territori, dovuto all'assenza di
programmazione economica e allo storico saccheggio delle risorse del
Sud da parte di settori finanziari e produttivi del Nord, è emerso ancora
di più, riproponendo la “questione meridionale” come problema centrale
per tutto il Paese.
Questione destinata ad aggravarsi ulteriormente, con l'Autonomia regionale
differenziata, alla quale ha aperto la strada la modifica del titolo
V della Costituzione, altro “regalo” del centrosinistra. Gli effetti
si sono già visti sulla Sanità, con il caos dell'applicazione delle
misure di contrasto al Covid, e nella pratica delle vaccinazioni.
L'attuale situazione potrebbe favorire un rilancio del pubblico, sia
per mezzo del “Recovery plan”, che attraverso le risorse ordinarie e,
attraverso una reale programmazione pubblica, costituire un importante
contributo per riequilibrare gli investimenti verso il Mezzogiorno e
i territori più deprivati, oltre a ripristinare i diritti costituzionali
alla salute, al lavoro, all'istruzione, all'abitare, alla mobilità,
all'informazione.
Il pubblico assume pertanto, in questa fase, un ruolo strategico per
la costruzione dell'alternativa di società, nella riproduzione, nella
cura e nella produzione.
E' necessario però un pubblico profondamente rinnovato, depurato dalle
degenerazioni prodotte da clientelismi e corruzione nelle assunzioni,
nella gestione del personale e nelle gare d'appalto. Un pubblico finalizzato
a dare risposte ai bisogni sociali e produttivi della collettività.
Un vero rinnovamento richiede una formazione ricorrente centrata sull'innovazione,
ma anche su una diversa organizzazione del lavoro, che garantisca qualità
alle prestazioni ed ai servizi offerti, valorizzi il personale e dia
consapevolezza dell'importanza del proprio ruolo in coerenza con le
funzioni sociali di una nuova funzione pubblica. Per questo è fondamentale
ripristinare o introdurre, dove non esistevano, strutture democratiche
di partecipazione e di controllo, anche conflittuale, dei cittadini
e delle cittadine, delle lavoratrici e dei lavoratori. Vanno aboliti
i codici di fedeltà aziendale, che hanno limitato il diritto/dovere
di denunciare disservizi da parte di lavoratrici e lavoratori, dalle
Asl alle ferrovie.
Dalle lotte degli anni '70 si sono concretizzati diritti costituzionali
rimasti fino ad allora sulla carta, nella sanità, nella psichiatria,
nella scuola, nella giurisdizione, che hanno diffuso senso di responsabilità
verso il ruolo pubblico e la partecipazione, in alcuni settori, di lavoratrici
e lavoratori alla gestione della “cosa pubblica”, diventata poi un ostacolo
per le politiche liberiste e l'occupazione di aree pubbliche da parte
del mercato.
Nella Scuola ad esempio vanno rilanciati gli Organi Collegiali, con
una rivitalizzata partecipazione basata su un'effettiva funzione decisionale
del personale, degli studenti, dei territori, la cancellazione del “dirigente
manager”, sul quale si è tentato d'incardinare inedite forme di gerarchizzazione
tra i docenti, la cui condizione paritaria è stata a lungo l'elemento
principale della resistenza della scuola ai processi di subordinazione
alle logiche di mercato.
Anche nella Sanità, va rilanciato l'essenziale sistema della medicina
territoriale e della prevenzione, possibile barriera anche di future
pandemie, insieme a strumenti democratici, come si realizzò con i consultori.
Anche negli Enti Locali è essenziale ricostruire partecipazione e democrazia,
restituendo alle assemblee elettive i poteri trasferiti agli organi
esecutivi dalle riforme elettorali degli anni'90.
Sono queste le condizioni per la riappropriazione delle scelte collettive
sui territori, il ripristino dei beni comuni, il ritorno all'interno
del pubblico dei servizi appaltati ed esternalizzati. Per recuperare
la capacità, anche a questo livello, di effettuare la programmazione
necessaria per affrontare gli effetti della crisi. Così come a livello
centrale è indispensabile il ruolo pubblico nei settori strategici dell'economia,
che né il mercato, né la proprietà privata hanno saputo salvaguardare.
Il declino di molte attività, non solo produttive, è dipeso anche dalla
forte penalizzazione della Ricerca pubblica, che va rilanciata e sostenuta
con forti investimenti, riallineandoli almeno al livello europeo.
Il rilancio di un nuovo pubblico, a livello periferico e centrale,
richiede nuove assunzioni anche per riportare nei vari settori le competenze
perse con il blocco delle assunzioni, nonché quelle legate a processi
innovativi, necessarie per rendere le prestazioni utili ai bisogni dei
cittadini e delle cittadine, oltre che alla ripresa occupazionale.
Perché tutto ciò sia realizzabile è necessaria la ricostruzione di un
senso comune sul pubblico, a partire dal personale, della sua funzione
di garanzia dei diritti. Sono necessarie mobilitazioni e lotte che intreccino
gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici, con quelli
dei cittadini/e e dell’insieme del mondo del lavoro, per superare la
strumentale contrapposizione tra dipendenti pubblici e privati, costruendo
una nuova alleanza.
TESI 11 - La classe conta
Dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori
Decenni di feroce attacco neoliberista ai salari, alla contrattazione,
all’occupazione e di precarizzazione ci consegnano un mondo del lavoro
indebolito e diviso in un’infinità di figure lavorative e profili contrattuali.
In questo scenario, segnato dall’anomia e dalla frammentazione sociale,
le classi dominanti sono riuscite a veicolare la convinzione che il
paradigma economico-sociale esistente non abbia alternative, che vi
sia una sorta di naturalità del capitalismo, proposto come epilogo conclusivo
della storia umana. Ciò spiega il senso d’impotenza e la passivizzazione
che rendono difficile una ripresa delle lotte.
Paradossalmente, ciò avviene proprio mentre la pandemia da Covid ha
provocato il più repentino tracollo economico nella storia del capitalismo.
Si determina un’ulteriore concentrazione del capitale, che produce un
ancor più profondo aumento delle diseguaglianze ed un attentato ai fondamentali
diritti di cittadinanza. L’ambizione europea di giocare un ruolo da
protagonista negli assetti futuri, le urgenze legate al cambiamento
climatico e la necessità di recuperare il ritardo tecnologico rispetto
a Stati Uniti e Cina, sono alla base della spinta di Francia e Germania
a riorganizzare l’intero sistema economico e produttivo europeo, accentuando
processi di concentrazione e centralizzazione capitalistici. Nella dimensione
europea a trazione franco-tedesca, in una condizione in cui l’Italia
ha perso quasi tutte le grandi filiere strategiche, i processi d’integrazione
economica e finanziaria favoriranno una periferizzazione delle nostre
produzioni, riservando per il centro Europa le attività a maggior valore
aggiunto.
Il livello europeo è, e sarà in misura sempre maggiore, l’ambito in
cui si realizza l’accumulazione capitalistica ed è quindi questa l’altezza
che devono scalare le lotte per incidere sul capitale e metterne in
discussione il dominio. Per questo l’intreccio del conflitto tra dimensione
nazionale ed europea disegna il campo da gioco imprescindibile dello
scontro di classe.
In queste condizioni non diminuirà la consolidata attitudine di ampi
settori del capitalismo italiano a mantenere spazi di competitività
a scapito di salari e diritti, e ad utilizzare tutti gli strumenti legali
e normativi per accrescere i profitti, intensificare lo sfruttamento,
la flessibilità, la precarietà e il controllo coercitivo sul lavoro.
Da questo punto di vista, una cartina di tornasole è costituita dal
lavoro migrante, sia da quello contrattualizzato quanto e più da quello
informe e spesso non regolarizzato, che si traduce sovente in lavoro
nero. Da sempre, e in particolare con la legge Bossi Fini, le normative
sull’immigrazione sono nient’altro che interventi legislativi sul mercato
del lavoro. La presenza regolare nel territorio nazionale è subordinata
ad un contratto di assunzione, col risultato che è il datore di lavoro
a poter decidere totalmente sulle condizioni di vita di chi è da lui
assunta/o. Tutto si traduce in salari più bassi, buste paga spesso non
corrispondenti alle mansioni svolte, lavori usuranti e in cui non vengono
rispettate le norme di sicurezza, forme intensive di sfruttamento, che
vanno da un caporalato a volte legalizzato – finte cooperative – a volte
illegale, nonostante rappresenti un reato grave.
Non solo la fragilità occupazionale si traduce in salari più bassi
rispetto agli autoctoni, in difficoltà alloggiative, nelle difficoltà
del ricongiungimento familiare e nell’esigibilità dei diritti al welfare.
In molti comparti, questa situazione viene utilizzata come arma di ricatto
verso i lavoratori e le lavoratrici autoctoni, al punto tale che chi
non accetta tali condizioni perde il lavoro e considera, erroneamente,
il/la collega con background migratorio, come responsabile di tale stato
di cose. Va considerata cartina di tornasole, in quanto le/i prime/i
ad essere colpite/i sono i soggetti più vulnerabili che spesso vengono
posti nelle identiche situazioni di ricatto, avendo in meno unicamente
il diritto di cittadinanza. Costruire, come in molti casi riusciamo
a fare, azioni di ricomposizione di classe, non solo sul terreno sindacale,
ma dei diritti, è il solo modo per intervenire su tale disastro. In
tal senso e non in nome delle esigenze del capitale, la regolarizzazione
delle donne e degli uomini che vivono e lavorano in Italia, senza condizioni,
va posto sul piano delle rivendicazioni e sul tavolo del governo e dell’UE.
L’intreccio di una connettività sempre più diffusa con la digitalizzazione
delle produzioni e delle filiere, lo sviluppo impetuoso del capitalismo
delle piattaforme (ben 7 multinazionali delle piattaforme sono tra le
prime 10 società al mondo per capitalizzazione e due di loro tra le
prime 10 per utili) sta già producendo sia nel lavoro elettronico, che
nella logistica, forme di sfruttamento pre-novecentesche. Nelle fabbriche
digitalizzate, sofisticata modernità e coercizione sociale si saldano
perfettamente: anticipazione di un futuro prossimo fatto di centralizzazione
del comando d’impresa, risparmio dei costi, aumento dello sfruttamento
e individualizzazione del rapporto di lavoro. L’accelerata transizione
tecnologica impone di prestare attenzione alla centralità assunta da
big data, Internet delle cose, algoritmi di intelligenza artificiale.
In questo contesto la governance del pubblico assume un'importanza strategica
per costruire strategie di lungo periodo. Vanno respinte le fascinazioni
tecnologiche che impediscono di leggere la realtà. Industria 4.0 non
produce più autonomia del lavoro e dei lavoratori, quanto piuttosto
un salto nel controllo e nella pressione su chi lavora. Le piattaforme
sono in mano a grandi imprese con uno strapotere enorme nei confronti
dei lavoratori. L'innovazione tecnologica determina evoluzioni significative
sulla qualità e sulla quantità di lavoro, sul concetto di ore lavorate,
sull’approccio alla partecipazione e al luogo fisico di lavoro e di
conseguenza sull'interezza della vita delle persone. Dobbiamo analizzare
i cambiamenti per proporre un modello di società nel quale non siano
le lavoratrici e i lavoratori a pagare il prezzo della transizione digitale.
Lo stesso lavoro da remoto, generalizzatosi durante la pandemia, presenta
caratteri di ambivalenza. Il lavoro rischia di diventare ancor più totalizzante
e estraniante, più forte l'atomizzazione del singolo lavoratore rispetto
ai colleghi, con l'aumento degli orari di lavoro effettivi e l'esternalizzazione
dei costi su chi lavora. Il diritto alla disconnessione diventa fondamentale
quindi affinché l'assenza di orari di lavoro definiti costituisca un
vantaggio e non un danno. Altrimenti lo smart working diventa un incubo
in cui si è a disposizione e attivabili per lavorare 24 ore su 24 e
7 giorni su 7. Per le donne il lavoro agile diviene la modalità per
combinare lavoro subordinato e lavoro di cura in un ciclo continuo che
si interrompe solo nelle ore del sonno. Perché il lavoro da remoto non
si traduca solo nell’ennesima modalità per le aziende di massimizzare
i profitti sulla pelle delle lavoratrici e dei lavoratori c’è bisogno
non solo di lotta e contrattazione sindacale ma anche di interventi
normativi adeguati.
Il Recovery Plan, che doveva essere l’occasione per una riconversione
ecologica dell’economia e per un rilancio del pubblico all’insegna del
primato della cura delle persone, dei diritti e dell’ambiente, rischia
di diventare, sotto il governo Draghi, lo strumento per modernizzare
l’economia in direzione neoliberista. Tutte le funzioni pubbliche diverranno
ancor più rispondenti agli interessi del mercato e del profitto, saranno
ridotti controlli e vincoli, accentuati i poteri dei ruoli dirigenziali,
sviluppati i processi di aziendalizzazione, gerarchizzate le funzioni
e la competitività tra lavoratrici e lavoratori, ridotta la quota di
salario a vantaggio di sistemi di incentivi.
È nell’incrocio tra distruzione del welfare, ridimensionamento dei servizi
e funzioni pubbliche, precarizzazione estrema, persistenza di un rilevante
gap occupazionale e salariale tra i generi, che va letta la condizione
materiale delle donne nel nostro Paese. Esse pagano perché costrette
a sopperire col lavoro di cura gratuito prestato nelle mura domestiche
ai tagli sui costi della riproduzione sociale; pagano con rapporti di
lavoro in cui, specialmente nel mondo dei servizi esternalizzati e appaltati,
tutte le forme di precarietà, i part time obbligati, i sottosalari,
l’assenza di tutele sono la norma; infine subiscono in prima persona
l’impoverimento e la svalorizzazione del lavoro pubblico, proprio per
questo sempre più femminilizzato. Su 4,3 milioni di persone impegnate
in questo rapporto di lavoro, i tre quarti sono donne e di queste il
60% sono part time involontari, cioè imposti; il tasso di occupazione
femminile è 20 punti sotto quello maschile, le differenze salariali
a parità di mansione di circa il 10,5%.
Senza la ripresa di una grande stagione di lotte, capace di dilatare
e unificare i conflitti isolati oggi esistenti in un grande, nuovo movimento
delle lavoratrici e dei lavoratori, non sarà possibile rimontare la
deriva in atto e aprire la possibilità del cambiamento. Occorre ricostruire
l’unità e il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori, riunificare
le figure lavorative e i profili contrattuali che l’offensiva neoliberista
ha diviso e messo in concorrenza tra di loro: lavoratori/lavoratrici
stabili e precari, pubblici e privati, uomini e donne, nativi e migranti,
giovani e meno giovani.
Serve una piattaforma che abbia al centro l’occupazione, il salario
e la precarietà.
Sono battaglie fondamentali quelle per la piena occupazione e per la
riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, per il salario
orario minimo legale di dieci euro netti; la lotta a tutte le forme
di precarizzazione dei rapporti di lavoro sedimentatesi lungo decenni
di manomissione del diritto del lavoro, l’eliminazione di tutti gli
ostacoli alla parità di genere, il reinserimento dell’articolo 18, vale
a dire della “tutela reale” dei lavoratori e delle lavoratrici in caso
di licenziamento ingiustificato, l’abolizione della legge 30 e del jobs
act.
Le lotte per il salario, le tutele e i diritti e contro le mille forme
di precarietà non possono prescindere da una guerra senza quartiere
sindacale, giuridica, politica e culturale contro il sistema che unisce
esternalizzazioni, appalti e subappalti diffuso come una piaga in tutti
i settori pubblici, specie nei servizi che rappresentano il 40% di tutti
gli appalti pubblici, nelle catene produttive frammentate, nella cantieristica,
nella logistica, nella grande distribuzione.
Alle lotte per la liberazione del lavoro produttivo e riproduttivo dallo
sfruttamento e dall’alienazione, occorre anche saldare in un unico fronte
unitario tutti i proletari che oggi soffrono per la mancanza di un reddito,
di un lavoro, di un salario e di una pensione dignitosi. Un fronte che
sappia tenere insieme i tanti e le tante che la mancanza di protezioni
sociali relega in condizioni di povertà e di marginalità sociale, tutte-i
coloro che la distruzione del welfare ha privato dei diritti fondamentali,
alla casa, alla salute, all’istruzione.
Obiettivi: un reddito di base, un piano nazionale per la casa e un
sostegno affitti, pensioni a 60 anni di età o dopo 40 di lavoro coperto
da contributi. Il principio dell’universalità e della gratuità dei diritti,
violato da decenni di compressione del sistema di protezione sociale
e del welfare, deve tornare ad essere la stella polare di una generale
sollevazione popolare.
Sosteniamo la necessità di introdurre in Italia un vero reddito di base
a fronte della crescita della povertà e della precarietà. Siamo stati
tra i promotori nel 2013 di una legge di iniziativa popolare per il
reddito minimo garantito, abbiamo criticato il “reddito di cittadinanza”
introdotto dal M5S perché troppo limitato nella platea dei beneficiari
e con troppe condizionalità. Il reddito di base costituisce non solo
uno strumento di lotta contro la povertà e l’esclusione, di garanzia
del diritto all’esistenza degna per tutte e tutti, ma anche di maggiore
forza contrattuale e libertà rispetto al ricatto della disoccupazione
e al regime di bassi salari, lavoro nero e precarietà. L’introduzione
di un reddito di base non contrasta e non va contrapposta alla rivendicazione
di politiche economiche per la piena occupazione, di riduzione dell’orario
di lavoro, di abbassamento dell’età pensionabile, di lotta contro la
precarizzazione del lavoro.
Il primo compito delle lavoratrici e dei lavoratori comunisti è quello
di stare dentro i conflitti per promuoverli, unificarli ed affermare
al loro interno un punto di vista di classe; lavorare alla creazione
di tutte le forme di autorganizzazione democratica che promuovano il
protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori nelle lotte e nelle
iniziative di carattere politico, sindacale, solidale e mutualistico:
coordinamenti, comitati di lotta, di scopo, sportelli sociali, gruppi
di acquisto solidale.
L’intervento nei sindacati rappresenta uno degli aspetti centrali del
lavoro delle comuniste e dei comunisti, in un quadro segnato da una
pesante afasia strategica e da estesi fenomeni di burocratizzazione.
Alle conseguenze della globalizzazione liberista, all’offensiva dell’avversario
di classe, alle sconfitte subite e alla conseguente perdita di potere
contrattuale sono corrisposte scelte strategiche delle organizzazioni
sindacali maggioritarie - ivi compresa purtroppo la CGIL - che hanno
progressivamente determinato una torsione rinunciataria del ruolo del
sindacato e hanno favorito l’erosione e persino la cancellazione di
conquiste storiche del movimento operaio italiano. La naturale propensione
conflittuale è stata via via ingabbiata dentro logiche e schemi concertativi,
che hanno compromesso l’autonomia e l’indipendenza del sindacato. Le
stesse regole democratiche, che nel rapporto sindacato-lavoratori dovevano
preservare la sovranità delle assemblee, sono state ampiamente compromesse
dal prevalere di logiche verticistiche. Con il risultato che non c’è
più traccia visibile della più grande soggettivazione politica del lavoro,
frutto della grande stagione di lotte degli anni Settanta.
Esiste oggi una miriade di sigle sindacali, talvolta veri e propri settori
di classe organizzati, i cui limiti principali sono la scarsa rappresentatività,
accentuata da una inveterata tendenza alla scissione e alla frammentazione,
e la conflittualità che spesso li divide.
Sappiamo bene che un sindacato non si costruisce dall’alto e dall’esterno
né, tanto meno, può nascere come cinghia di trasmissione di qualsivoglia
forza politica. In secondo luogo, un partito comunista non seleziona
i suoi iscritti sulla base del sindacato in cui essi militano. Si parte
dalla realtà data. Come diceva Lenin, i comunisti devono “lavorare assolutamente
dove sono le masse”, per far crescere, con la tenacia e la pazienza
necessarie, l’autonomia e l’unità della classe. Quindi, le comuniste
e i comunisti operano nei sindacati e nelle realtà che meglio permettono
un positivo rapporto con le lavoratrici e i lavoratori e dove ritengono
siano maggiormente presenti le condizioni per sviluppare la lotta di
classe. Rispetto alle passate esperienze, riteniamo non più rinviabile
affrontare su basi nuove la questione sindacale. Abbiamo il compito
di indicare nel rispetto della reciproca autonomia contenuti e linee
di lavoro unificanti, al di là delle appartenenze sindacali, da verificare
costantemente nel rapporto con le lavoratrici ed i lavoratori.
Sgombriamo il campo da equivoci sottolineando che, fatta salva l’autonomia
del sindacato nella rappresentanza negoziale dei lavoratori e delle
lavoratrici e nella contrattazione collettiva, su tutto il resto come
partito esprimeremo il nostro punto di vista, senza reticenze o autocensure.
Per dirla in breve, all’autonomia del sindacato corrisponde anche quella
del partito.
Nei sindacati confederali e nella Cgil dobbiamo operare per ricostruire
un sindacato di classe, democratico e conflittuale, per recuperare un
patrimonio storico fondamentale, sulla base di una chiara linea di opposizione
alla logica concertativa, alle tendenze alla moderazione salariale e
all’illusione nefasta che alla cessione di salario e di diritti possano
corrispondere maggiore occupazione e sicurezza.
Alle/ai tante/i compagne/i che militano nei sindacati di base indichiamo
come prioritaria l’iniziativa per l’unità contro la frammentazione delle
sigle, indispensabile anche per contrastare con qualche efficacia le
regole escludenti sulla rappresentanza e la crescente tendenza, specie
nei settori pubblici, a limitare il diritto di sciopero.
Va proseguito lo sforzo del partito per ricostruire le condizioni organizzative
e politiche per rilanciare l’intervento sui temi e nei luoghi di lavoro,
con l’obiettivo centrale di costituire gruppi di lavoro e intervento,
in prospettiva circoli, a tutti i livelli in cui si abbia un sufficiente
nucleo di iscritti e simpatizzanti, indipendentemente dal sindacato
di appartenenza, a livello regionale, di federazione, di settore o di
grandi aziende; organismi politici di riferimento per il partito con
il compito di indagare in profondità la “condizione lavorativa”, produrre
analisi sul nuovo mondo del lavoro, costruire le campagne e verificare
le proprie proposte. In questo contesto acquista particolare importanza
l’obiettivo di realizzare forme di coordinamento degli iscritti che
operano dentro i sindacati al fine di delineare e assumere, nel rispetto
della reciproca autonomia, contenuti e linee di lavoro unificanti, su
cui costruire interlocuzioni politiche non episodiche con i movimenti
sindacali.
TESI 12 - Contro la finzione ecologica
La crisi climatica è la dimostrazione della violenza e dell’insostenibilità
dell’economia capitalistica. Il modello economico lineare, estrattivo
e ad alto consumo di risorse e di energia, non è più sostenibile, nè
sono più sufficienti misure di contenimento. Dopo anni di negazionismo,
anche grazie ai Fridays For Future e alle evidenze scientifiche, la
transizione ecologica è divenuta centrale. Una vera ri-conversione ecologica
richiede una profonda trasformazione generale che investa tutti i settori
della vita e dell’economia, cambiando il paradigma del nostro modello
di sviluppo in modo da ridurne l’impatto. Il governo Draghi ha istituito
un ministero per la transizione ecologica - già ribattezzato dagli ambientalisti
della ”finzione ecologica”- e apparentemente il PNRR dedica una quantità
ingente di risorse allo scopo. Quella del governo Draghi è una finzione
al servizio dei gruppi economici dominanti, la transizione non può essere
affidata a Eni, Confindustria e multinazionali. Il PNRR non indica chiare
priorità per lo sviluppo delle rinnovabili, lascia poche briciole alla
mobilità urbana e sostenibile, non comprende le necessarie misure per
la promozione dell’agroecologia e la riconversione degli allevamenti
intensivi e declassa l’economia circolare a una mera questione di gestione
dei rifiuti. Infine, apre di fatto la porta all’idrogeno blu di Eni,
riconoscendolo “necessario” nel breve e medio termine ”allo scopo di
ridurre più rapidamente le emissioni rispetto ai sistemi attuali di
produzione di idrogeno dalle fonti fossili”. Le ragioni che aprono all’idrogeno
“blu” sono quelle del rilancio del mercato del gas per mettere in subordine
l’azzeramento dei climalteranti.
Lo stesso Green New Deal Europeo, che dichiara l’obiettivo di emissioni
zero entro il 2050, afferma senza ambiguità che la priorità va data
all’idrogeno verde (ossia quello prodotto unicamente da fonti rinnovabili),
tuttavia non esclude la produzione di idrogeno blu (prodotto dal metano
e con CO2 come scarto da stoccare). La transizione ecologica a livello
nazionale, in linea purtroppo con quelli europeo e mondiale, si configura
come una diluizione temporale, come la necessità di prendere altro tempo,
come se la transizione fosse un intermezzo, e non un processo da percorrere,
assegnando obiettivi e tempistiche inderogabili. Ovvero non mette sufficientemente
in discussione il tradizionale modello di sviluppo: estrazione-produzione-consumo-scarto.
Occorre accelerare sullo sviluppo delle rinnovabili, per arrivare alla
chiusura delle centrali a carbone entro il 2025 e all’abbandono del
gas entro il 2040. In questo Paese si investe ancora in turbogas e biomasse.
È importante sottolineare anche come le emissioni climalteranti vengono
prodotte tra le diverse fasce di reddito, come ha fatto Oxfam nel report
intitolato L’era della disuguaglianza del carbonio, dimostrando che
il 10% più ricco del pianeta è stato responsabile di oltre la metà delle
emissioni di CO2 in atmosfera e l’1% più ricco è stato responsabile
del 15%.
Anche le fonti di energia rinnovabile non sono totalmente a impatto
zero, occorre quindi un’attenta analisi dei diversi contesti. Mentre
siamo alle prese con la gestione della pesante eredità lasciata dalle
centrali e dai depositi nucleari collocati in siti inidonei, pericolosi
e spesso a rischio di esondazione, il “nuovo” nucleare a fusione cerca
il suo spazio all’interno delle politiche sull’energia, con l’accoglienza
del ministro per la transizione ecologica.
Non possiamo non ricordare che l’estrazione delle risorse naturali da
parte dell’industria infligge regolarmente delle gravi violazioni dei
diritti umani alle minoranze razziali ed etniche, ai popoli autoctoni
e ad altri gruppi marginalizzati, come il diritto alla salute, a un
ambiente sano, a condizioni di lavoro giuste e favorevoli, all’eguaglianza
razziale e alla non discriminazione, alla partecipazione ai processi
politici ed economici nel loro paese.
La conversione ecologica deve passare per lo stop al consumo di suolo
ed alle grandi opere inutili, dannose, clima-alteranti, devastanti dal
punto di vista ambientale e tra le cause del dissesto idrogeologico,
e per questo osteggiate dalle comunità territoriali coinvolte. Negli
ultimi decenni il consumo di suolo ed il dissesto idrogeologico ci sono
costati l’equivalente di oltre 50 miliardi e l’Italia è meno sicura
di prima. Servono politiche di ampio raggio, che intervengano su tutto
il ciclo del rischio, rilanciando la pianificazione di bacino per contrastare
il rischio idrogeologico e in particolare le alluvioni. Rivedere in
questa ottica il Piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico,
il ripristino e la tutela della risorsa ambientale del 2019 che prevede
risorse per soli 315 milioni di euro destinati a 263 progetti esecutivi
“tutti caratterizzati da urgenza e indifferibilità”. Invece di discutere
di grandi opere inutili bisognerebbe investire creando lavoro buono
nella messa in sicurezza del territorio dal rischio sismico, idrogeologico
e dalle frane nonché nella valorizzazione del nostro patrimonio storico-architettonico.
In merito allo smaltimento dei rifiuti, è evidente che la soluzione
a medio/lungo termine possa solo partire dalla loro minor produzione.
Sono necessarie normative di contrasto all’obsolescenza programmata
e che impongano ai produttori di ridurre gli imballaggi, l’omogeneità
dei materiali utilizzati negli stessi e l’indicazione chiara sul corretto
conferimento del rifiuto.
Non servono nuove discariche, termovalorizzatori o impianti di TMB ma
la realizzazione di nuovi impianti per la valorizzazione delle frazioni
organiche, la semplificazione della normativa end of waste per la cessazione
della qualifica di rifiuto e la costruzione di una chiara visione del
percorso verso una piena applicazione della teoria “Rifiuti zero” che
impone di realizzare 1000 nuovi impianti di riciclo; realizzazione di
una rete di impianti per trattare le filiere dei rifiuti oggi inviati
all’estero per recuperare materiali preziosi e terre rare; promozione
dei distretti dell’economia civile con impianti di riciclo e riuso perché
per tendere all’opzione “rifiuti zero” a smaltimento, occorre realizzare
tanti impianti industriali con cui recuperare materia. Infine promuovere
la ricerca di materiali, imballaggi, combustibili e di altre sostanze
che possano sostituire quelle oggi utilizzate e la cui produzione o
smaltimento risulta insostenibile da un punto di vista ambientale oltre
che sociale. La strategia “rifiuti zero” è l’unica ecologica e sostenibile,
occorre perseguire il modello di economia circolare che estende il ciclo
di vita dei prodotti.
In merito agli allevamenti intensivi, è noto che siano tra le cause
primarie del riscaldamento globale, delle emissioni e della deforestazione.
Attualmente circa il 37% delle emissioni di gas serra sono legate alla
produzione di cibo e, secondo Greenpeace, la produzione zootecnia europea
ne produce 704 milioni di tonnellate (molte più delle auto). Inoltre,
come è stato ampiamente dimostrato e comunicato da organizzazioni internazionali
come l'OMS, ad un'alimentazione ricca di prodotti di origine animali,
soprattutto se altamente processati, sono legate patologie gravi. A
quest'ultimo aspetto, oltre alle gravi conseguenze causate alla salute
delle persone, sono legati alti costi di ospedalizzazione per le persone
che si ammalano a causa di un eccessivo consumo di prodotti animali.
Pertanto è necessario intervenire nella produzione di alimenti di origine
animale, in quanto ad oggi insostenibile da un punto di vista ambientale,
sociale, oltre che etico. In particolar modo si fa riferimento a quei
sistemi di allevamento intensivi o super-intensivi che, oltre a contribuire
costantemente agli squilibri causati dai cambiamenti climatici, non
tengono conto della vita, del benessere e della dignità degli animali.
É inoltre indispensabile indirizzare i finanziamenti verso un piano
di transizione agricola in grado di favorire l'implementazione di sistemi
colturali e zootecnici che operino rispettando l'ambiente e gli animali,
anche per prevenire future epidemie/pandemie e il sostegno ad attività
agricole ad economia circolare, o comunque attività che operano riducendo
drasticamente l'impatto negativo su atmosfera, suolo, acqua, lavoratori
e lavoratrici. La decrescita della produzione di carne non può essere
affidata esclusivamente alle buone abitudini alimentari dei consumatori.
Una riconversione ecologica che sia reale non può che passare da una
gestione della risorsa idrica pubblica ed accessibile a tutte e tutti,
diametralmente opposta alla riforma del settore idrico presente nel
recovery plan che prevede una vera e propria strategia di rilancio dei
processi di privatizzazione, incentrata sul ruolo di alcune grandi aziende
multiservizi quotate in Borsa che gestiscono i fondamentali servizi
pubblici a rete, compreso il servizio idrico. Sosteniamo la proposta
del Forum Italiano dei movimenti per l’acqua, ovvero di un intervento
che, nell’arco dei prossimi 5 anni, costruisca investimenti pubblici
per la ripubblicizzazione del servizio idrico, per la ristrutturazione
delle reti idriche; l’applicazione più onerosa del principio “chi inquina
paga”, la patrimoniale e l’eliminazione dei SAD (sussidi ambientalmente
dannosi), per realizzare nei comuni cantieri per il ciclo idrico integrato,
con l’ammodernamento della rete di distribuzione dell’acqua e la costruzione
di fognature e nuovi depuratori e la messa a norma di quelli esistenti.
Fondamentale l’approvazione della proposta di legge per la ripubblicizzazione.
Per una reale ri-conversione ecologica occorre scardinare la visione
antropocentrico/capitalistica che subordina il pianeta e i suoi viventi
al profitto e allo sfruttamento, abbattendo ogni forma di oppressione,
di genere, di classe, di razza e di specie e la narrazione dominante,
che ogni giorno si intensifica nel marketing aziendale, e che concentra
l’attenzione dei consumatori-cittadini soltanto sulla propria impronta
ambientale individuale, distogliendola dai processi più profondi, dalle
responsabilità del capitalismo stesso.
Le soluzioni esistono, tra queste un posto di primo piano hanno la transizione
verso le energie rinnovabili e l’abbandono delle auto con motore a combustione
interna, puntando sul trasporto pubblico e su forme di mobilità meno
impattanti. Necessita lo stanziamento di fondi per un trasporto pubblico
ecosostenibile, pulito, sicuro e di qualità, finalizzato al rinnovo
del parco mezzi, alla costruzione di ciclovie, tramvie e metropolitane
e all'assunzione del personale necessario, il potenziamento dei Piani
Urbani per la Mobilità Sostenibile, aumentando i km di piste ciclabili
cittadine ed una visione che metta al centro dell’accesso alla nuova
mobilità le periferie delle città. Senza bus ecologici e biciclette
niente ecosocialismo.
I combustibili fossili costano, non solo in termini di emergenza climatica,
ma anche per la salute delle persone. Occorre abrogare da subito i sussidi
diretti alle fonti fossili e per lo sfruttamento dei beni comuni, con
un risparmio previsto di 23,5 miliardi da spostare sulla riconversione
produttiva, sull’innovazione e sulle tecnologie pulite. A sostegno dell’abolizione
dei SAD serve una riforma fiscale che preveda la revisione del sistema
degli incentivi, dei canoni oggi ridicoli di concessione di cave, stabilimenti
balneari e lacustri e dell’acqua in bottiglia.
Ci sarebbe bisogno di un Green New Deal radicale che in una prospettiva
ecosocialista si fondi sulla pianificazione democratica delle risposte
alla crisi ecologica come a quella sociale e il controllo pubblico sulle
scelte economiche strategiche. Per avere la forza di imporre la trasformazione
di cui c’è bisogno dei modi di vita e di consumo bisogna coniugare la
riconversione ecologica con la lotta alle disuguaglianze e la risposta
ai bisogni sociali.
Va recuperata per intero la tradizione dell’ecologia politica italiana
- dentro la quale si è sviluppato anche l’elaborazione rossoverde del
nostro partito - che in particolare con Giorgio Nebbia, Laura Conti
e Virginio Bettini, ha anticipato dagli anni ‘70 le attuali correnti
ecosocialiste internazionali e la riscoperta dell’ecologia di Marx.
Analogamente va valorizzata l’eredità dell’urbanistica e della medicina
democratica che hanno concretamente sviluppato in Italia il nesso tra
lotte sociali e critica anticapitalista.
TESI 13 - Mezzogiorno
Ancora oggi parlare di Mezzogiorno d’ Italia, rimanda ad affrontare
“la questione meridionale”, una questione irrisolta, che racconta la
lunga storia del Mezzogiorno d’Italia, nella narrazione della cultura
dominante e del revisionismo storico e contemporaneo. Una questione
che affonda le proprie radici all’indomani della nascita del regno e
dello stato liberale.
Da quella rivoluzione mancata, nel corso dei secoli il sud è divenuto
zavorra per lo sviluppo del Paese, ciò ha profondamente condizionato
da un lato l’approccio antropologico della popolazione nella gestione
del territorio e del quotidiano, dall’altro la messa in discussione
di uno stato di accettazione che ha dato vita a focolai di lotta e di
conquista.
Le lotte contadine, i movimenti di occupazione delle terre, per il salario,
per il diritto al lavoro e alla casa, i movimenti femministi e le conflittualità
urbane lungo tutto il 900, sono la chiara manifestazione di lotta per
la dignità all’esistenza.
Le lotte del sud, difatti, hanno contribuito alla formazione e alla
difesa della democrazia nel Paese, ma la mancata connessione con le
lotte operaie del nord ne ha determinato, poi, l’arretramento storico
sul terreno strategico di un nuovo sviluppo del Paese e la riforma dello
Stato, venendo meno, così, la prospettiva del cambiamento.
Il venir meno della tensione trasformatrice del Sud ha generato una
crisi di democrazia causata anche dalle deboli protezioni sociali.
Nella dialettica del controllo consensuale/consenso controllato si
sono annidati richiami clientelari speculativi, lo sviluppo assistito,
in modo, spesso parassitario, determinando una vera e propria caduta
di civiltà, nel mantenimento di una “democrazia blindata”. La corruzione
nella gestione della cosa pubblica, l’antistato come risposta al disagio,
la carenza di classe dirigente capace di investire sullo sviluppo del
territorio, e non nel clientelismo e nel familismo, come principi caratterizzanti
della gestione delle relazioni e dei territori e del ricatto sociale,
ne ha identificato una caduta di civiltà politica sociale ed economica.
Da qui l’impossibilità di definire le condizioni di volano per lo sviluppo
del Mezzogiorno e del Mediterraneo. Non a caso oggi, dentro le frequenti
adulterazioni storiche capeggiate da formazioni neoborboniche ed altri
movimenti sudisti, emergono posizioni secessioniste ed autonomiste,
facendo così sponda ai desiderata leghisti.
Oggi, gli effetti della crudele gestione e valorizzazione di un territorio
sono tutti venuti al pettine con il termine biocidio; da qui, siamo
chiamati ad una nuova elaborazione, scrivere una nuova pagina della
questione meridionale; un nuovo linguaggio di lotta biopolitica, ove
temi come salvaguardia del territorio, inquinamento industriale, riconversione
ecologica, valorizzazione delle risorse agricole declinano in modo nuovo
il tema della salute e della cura, della difesa dell'ambiente e dei
beni comuni, del lavoro/non lavoro, delle migrazioni, dell’esistenza
con una ancora più radicale critica al sistema capitalistico. Il conflitto
tra capitale e vita ha generato nuove forme di resistenza che rifiutano
il liberismo disumano, fondato sui vincoli economici e sugli strangolamenti
delle popolazioni locali e dell’area euromediterranea. Ed il sud che
per conformazione geografica è da sempre ponte tra Europa e Mediterraneo
necessita di una reale azione strategica euromediterranea. Una nuova
politica di Sviluppo che ha come capisaldi la centralità mediterranea,
l’ambiente, l’accoglienza e i diritti dei migranti, la cooperazione.
Una nuova strategia in controtendenza ai G20 ma che affermi l’importanza
di un’assemblea parlamentare euroafricana, il riconoscimento della cittadinanza
euromediterranea, la costruzione della sezione mediterranea della Bei.
Nella fatica del vivere quotidiano questo sud è suddiviso in diversi
sud, il sud delle resistenze, della coscienza della cittadinanza umana
che si oppone al soccombere sotto il macigno di un potere costituito
e l’altro sud, quello del paternalismo, del patriarcato, del plebeismo,
della jacquerie, di una identità smarrita che presta il fianco alla
sindrome del populismo proprio per la complessità della composizione
sociale meridionale, una sindrome maggiormente alimentata dall’antimeridionalismo
e dalla diseguaglianza. Dentro questa realtà è stato importante fondare
il laboratorio del Sud , arrivare alla stesura de “La carta dei diritti
per il sud”, entrare nelle contraddizioni socio - economiche, antropologiche
e culturali, riprendendo le file di una discussione di cambiamento e
di riscatto, con protagoniste e protagonisti di lotte in difesa della
Terra e dei diritti per il lavoro, del reddito di cittadinanza e dei
beni comuni, sull’antimafia sociale, con accademici, intellettuali,
una sinergia di sapere e di proposta.
Può sembrare paradossale, ma l’affanno a cui è sottoposto il sud ad
inseguire il modello di sviluppo capitalistico moderno che esige aree
di marcescenza, spazzando via la valorizzazione della particolarità
di una intera area, ci consegna una “eutanasia del Mezzogiorno”.
Una condizione determinata dal calo degli investimenti pubblici, del
credito, del Pil, dal drammatico fenomeno di emigrazione, spopolamento
e recessione del Mezzogiorno, una situazione aggravatasi nella pandemia.
Gli emigrati dal Sud sono, negli ultimi anni, sono oltre 2 milioni,
la metà sono giovani, il 33% laureati, in sostanza, sono di più i meridionali
che emigrano per lavoro o studio al Centro Nord e all’estero che gli
stranieri migranti che scelgono di vivere nelle regioni meridionali,
tale perdita di popolazione indica una prospettiva demografica assai
preoccupante di spopolamento, che riguarda in particolare i piccoli
centri.
Come è noto il motore dello sviluppo economico del Mezzogiorno è stato
ed è la spesa pubblica, non perché sia maggiore rispetto al Centro-Nord
(come spesa pro-capite), ma per debolezza degli altri settori, rispetto
al resto del paese. Ed è scandaloso pensare che la parte più ricca del
paese che gode già di una maggiore spesa pubblica punti ad aumentarla
ancora attraverso l’autonomia differenziata.
Relativamente alla dinamica del lavoro il gap occupazionale del Sud
rispetto al Centro-Nord è in costante crescita e l’indebolimento delle
politiche pubbliche nel Sud, incide significativamente sulla qualità
dei servizi erogati, preoccupanti anche i dati sulla disoccupazione
giovanile, nonché il record europeo di Neet (tre milioni e mezzo di
giovani che non studiano più e non lavorano).
Il livello di povertà assoluta, le problematiche ambientali e sanitarie,
l’evasione scolastica, il sistema universitario messo alle strette per
effetto di criteri "folli" nella ripartizione dei fondi che
premiano le Università del nord, i comuni in default, a causa delle
politiche del pareggio di bilancio con conseguenti politiche socio-sanitarie
quasi azzerate e trasporti locali ai minimi storici, porta la popolazione
del sud non solo a maggiore precarietà esistenziale ma ad un'aspettativa
di vita più bassa di 5 anni rispetto alla media nazionale e la natalità
in forte. Il divario nei servizi dovuto soprattutto ad una minore quantità
e qualità delle infrastrutture sociali, riguarda i diritti fondamentali
di cittadinanza in termini di adeguati standard di istruzione, di idoneità
di servizi sanitari e di cura. Ancor più drammatici sono i dati che
riguardano l’edilizia dei plessi scolastici, la conseguente agibilità
e abitabilità.
Con la pandemia, la “prima emergenza” sanitaria si è subito tradotta
in crisi economico – sociale, con maggiori perdite in termini di PIL
al nord e di occupazione al sud. Le difficoltà sono aumentate, poi,
nelle regioni meridionali, al secondo lockdown, in termini di attività
lavorative e reddito disponibile per le famiglie. I cinque provvedimenti
presi nel corso del 2020: di cura, di liquidità, di rilancio, di agosto,
di ristori sono stati rigorosamente concentrati nel centro – nord, solo
il 30% nel Mezzogiorno, mentre quanto si parla del PNRR la previsione
di investimenti ammonta al 34% delle risorse per le regioni meridionali,
nella individuazione di fornitori di tecnologia e soggetti industriali
affidabili. Il mancato approccio sindemico alla crisi dilagata con la
pandemia ha visto non solo l’aumento del disagio sociale, ma anche perdita
di posti di lavoro nei settori del lavoro stagionale e sommerso, oltre
poi, la cancellazione quasi dell’80% del lavoro femminile, a causa dell’assenza
di politiche occupazionali e di welfare. Una carenza sostituita da altre
forme di welfare, sia familiare che mafioso nel dilagare di nuove forme
di povertà che sempre più colpiscono le nuove generazioni.
Di fronte alla grande crisi del Sud non si potrà uscire con piccoli
aggiustamenti, ma solamente con un surplus di radicalità, a partire
dall’opposizione alla autonomia differenziata, che comporterà ulteriore
povertà culturale economica e sociale. Il Mezzogiorno d’Italia necessita
di un progetto globale di sviluppo dei servizi e infrastrutture per
il miglioramento della qualità della vita al fine di rendere meno gravoso
lo sforzo di chi ha il coraggio di rimanere, senza essere relegati e
marginali nel contesto italiano. Un Piano di Sviluppo che incarni la
vocazione di una intera area, che veda nella riconversione e nell’innovazione
ambientale, che punti a far crescere il lavoro in modo ecosostenibile,
nell’agricoltura e nel turismo, settori di crescita ed occupazione,
di sperimentazione per la valorizzazione delle risorse umane e materiali,
capace di stabilire un nesso tra modernità e trasformazione, affinché
il sud sia sempre più risorsa e non marginalizzato a solo mercato di
sfruttamento e consumo.
Tuttavia, questo Sud, può rappresentare un terreno di sperimentazione
politica straordinaria con la messa in discussione delle caratteristiche
di fondo del capitalismo contemporaneo, Non si tratta più di ragionare
dello schema, ormai anacronistico, del binomio arretratezza/sviluppo,
non c'è un deficit di modernità al Sud; esso è segnato, invece, dalla
modernità nel suo versante della svalorizzazione sociale della ricchezza,
la qual cosa è appunto l’altra faccia della valorizzazione produttiva.
Oggi è necessario culturalmente e politicamente avanzare sulla cartografia
della questione meridionale e rovesciare il senso comune della passività
di cui il sud è oggetto. Elaborare l’altra narrazione, in connessione
tra i Sud del mondo. Rompere la gabbia di un’eredità fatta di stereotipi
e pensieri che negano i rapporti asimmetrici di poteri che hanno tradotto
processi storici e politici in rapporti geografici, creando i Sud dei
subalterni, inferiori al nord del pianeta. Un salto critico e culturale
di saperi e comunità che impone la decostruzione di quel dispositivo
nazionale che sostiene e richiede un sud come alterità subordinata alla
modernità, da incorporare, nella complessità odierna del capitale e
nella sua moltiplicazione dello sfruttamento.
TESI 14 - Enti Locali e lotta per i diritti
delle cittadine e dei cittadini
Alla crisi del 2008 si è risposto con l’austerity neoliberista cominciata
con i governi Berlusconi- Tremonti, e proseguita con Monti e i governi
successivi, che ha comportato massicci tagli dei trasferimenti agli
Enti Locali (oltre al welfare e alla spesa pensionistica) e una forte
pressione verso l’ulteriore privatizzazione dei servizi. Solo fra il
2009 ed il 2011 sono stati tagliati 40 miliardi di trasferimenti.
Gli Enti Locali hanno sempre più difficoltà a chiudere i bilanci mentre
l’aumento delle tariffe dei servizi a domanda individuale pesa fortemente
sui redditi della classi popolari. La riduzione dei trasferimenti, l’aumento
fisiologico dei costi ed i maggiori impegni procurati dal rinnovo dei
contratti del pubblico impiego, porranno i Comuni nel prossimo triennio
con bilanci ridotti assolutamente non sostenuti adeguatamente dallo
stato (per il 2020 meno di 5 miliardi di euro). Oggi circa un comune
su otto è sull’orlo di dichiarare il dissesto non essendo in condizioni
di approvare un bilancio. La stessa deregulation urbanistica nel corso
degli anni ha arricchito gli interessi forti mentre sugli enti locali
e le comunità sono ricaduti i costi in termini di dotazioni e servizi.
Il blocco del turnover ha portato a una fortissima carenza di personale
anche negli enti locali e a un mancato aggiornamento delle competenze
riducendo ulteriormente la capacità di rispondere alle esigenze della
cittadinanza.
Il calo della produzione e dell’occupazione rende più drammatico il
costo sociale di una politica di risanamento solo monetaria dei conti
pubblici, rispetto all’esigenza di equità sociale e di rilancio dei
consumi interni accentuando gli errori della politica economica già
portata avanti dai tecnocrati come Padoa Schioppa durante il governo
Prodi ed poi rilanciata da Tremonti.
Pur avendo consapevolezza di questa situazione vanno sviluppate vertenze
che assumano anche gli enti locali e le regioni come riferimento/controparte
per affermare dal basso i propri diritti, per incrementare la spesa
sociale e rivendicare spazi di partecipazione, chiarendo che il raggiungimento
di questi obiettivi e in genere l’efficacia delle lotte per il potenziamento
del welfare sono strettamente collegati col superamento dei vincoli
del patto di stabilità che quindi è un nostro obiettivo strategico.
La sospensione da parte della Commissione Europea del patto di stabilità
a livello comunitario, pur con i suoi aspetti contraddittori, è un’occasione
per battersi a livello nazionale per un formale prolungamento della
sospensione del patto, almeno fino a dicembre 2023, costruendo in questi
mesi una mobilitazione, con l’ ANCI e soprattutto con la Rete delle
Città in Comune, tesa ad imporre una nuova strategia che ne definisca
il superamento definitivo puntando su una reale autonomia finanziaria
degli Enti Locali.
Gli Enti Locali, comuni, province e città metropolitane, sono stati
oggetto in questi anni di profonde trasformazioni legislative, dalla
elezione diretta dei sindaci alla modifica del titolo V della Costituzione,
che ne hanno depotenziato il ruolo, variandone in senso fortemente negativo
le funzioni dei propri organi di governo, accentrando il livello decisionale
sul sindaco e le giunte ed indebolendo le funzioni del Consiglio, organo
istituzionale centrale per la gestione democratica, rappresentativo
della collettività locale. Il taglio del numero dei componenti dei consigli
abbinato alla legge maggioritaria, con l’innalzamento di fatto della
soglia di sbarramento ha determinato anche una riduzione della rappresentatività
dei consigli che si accompagna allo svuotamento delle materie di competenza
dei consigli e alla riduzione anche del loro potere di controllo. Il
taglio della democrazia è andato di pari passo con la riduzione dei
trasferimenti e l’esternalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici
essenziali.
L’analisi sullo stato dei Comuni non può prescindere dalla considerazione
sulle controriforme che ne hanno fortemente ridotto la rappresentanza
e ridisegnato il ruolo.
Anche l’abolizione del suffragio universale per le elezioni dei consigli
provinciali raffigura un’ulteriore riduzione della democrazia. La finta
e demagogica abolizione delle Province si è tradotta in realtà nell’abolizione
dell’elezione popolare dei consigli, declassandoli in assemblee elette
con sistema di secondo livello. La sconfitta nel 2016 del referendum
costituzionale proposto da Renzi imporrebbe di restituire a cittadine/i
il diritto di voto.
Il declassamento delle Province ha, di fatto, determinato un grave
vuoto istituzionale rispetto alle funzioni precedentemente esercitate
da questi enti territoriali di area vasta, in ambiti centrali quali:
edilizia scolastica e diritto allo studio, infrastrutture stradali,
pianificazione territoriale, tutela dell’ambiente e del territorio ecc.
Occorre aprire una nuova stagione di lotte per il ripristino della centralità
delle assemblee elettive nei comuni e nelle città metropolitane e per
la ricostituzione delle province, nelle quali gli organismi istituzionali
ritornino ad essere eletti direttamente dai cittadini.
Il Prc, a partire dalla propria presenza negli EELL, deve costruire
iniziativa politica volta ad accentuare il carattere di centralità dei
consigli evidenziando l’incongruenza democratica dell’attuale assetto
istituzionale.
Oggi l’Ente Locale, soprattutto dove non è presente una rappresentanza
della sinistra di alternativa, schiacciato dalla mancanza di risorse,
troppo spesso vede il suo ruolo ridotto a mera cinghia di trasmissione
e attuazione delle scelte dei governi centrali: si pensi agli interventi
sulla casa (fondi nazionali), sulla sanità (potestà regionale) e a strumento
al servizio degli interessi forti locali.
La privatizzazione dei servizi pubblici essenziali (acqua, rifiuti,
trasporto pubblico) non solo ha comportato un rincaro generalizzato
delle tariffe, ma ha privatizzato anche le scelte di sviluppo e di controllo
della gestione.
Il Comune rimane l’istanza più vicina al cittadino e per questo è prioritario
renderlo nuovamente permeabile ai conflitti e ai bisogni popolari. L’azione
che riguarda gli enti locali non può mai essere fine a se stessa ma
deve essere uno dei livelli della ricostruzione del nostro radicamento
sociale, per dare voce ai bisogni popolari, costruire comunità, difendere
ambiente e beni comuni. Gli enti locali e le regioni prima che luogo
della rappresentanza sono terreni di lotta e della sperimentazione e
costruzione di alternative.
Nella realtà, le istituzioni locali, per quanto compromesse dall’insufficienza
delle risorse messe a disposizione continuano a svolgere una funzione
nella determinazione degli standard di vita (servizi sociali, diritto
all’ abitare, ambiente, scuola), nella costruzione del consenso politico
e nella lotta fra le classi sociali.
Per un Partito che fra i suoi compiti voglia inoltre articolare, in
chiave di lotta, pratiche sociali e di mutualità solidaristica vertenziale,
per dare risposte concrete ai bisogni effettivi di cittadine/i, gli
enti locali possono diventare strumenti utili per dare visibilità a
vertenze e ottenere obiettivi concreti. Laddove siamo presenti i nostri
eletti debbono essere punto di riferimento conflittuale, laddove non
abbiamo eletti dobbiamo attrezzarci dal punto di vista vertenziale e
propositivo.
In questo contesto, positiva è stata l’esperienza della Rete delle
Città in Comune, che come PRC-SE abbiamo contribuito a costruire e a
rafforzare sviluppando campagne nazionali (ultimamente ad es. contro
ogni tipo di autonomia differenziata). In molte realtà comunali liste
di sinistra, civiche ed ambientaliste, costruendo dal basso programmi
legati alle lotte sociali locali di comitati e di movimento, hanno trovato
nella Rete delle Città in Comune l’unità d’azione nell’agire. Spesso
tali liste nelle amministrative degli ultimi anni sono riuscite a ottenere
risultati utili. Su questa strada il PRC SE deve continuare a lavorare.
All’interno e nei confronti degli Enti Locali Rifondazione Comunista
deve sempre svolgere una iniziativa antifascista e antirazzista contestualmente
alla sua battaglia contro i governi e le politiche neoliberiste.
Le difficoltà del nostro partito e della sinistra radicale e le leggi
elettorali maggioritarie non implicano che si debba rinunciare a costruire
le condizioni per partecipare alla competizione elettorale. Bisogna
lavorare, come partito, per contribuire a processi che - a partire da
un programma condiviso e partecipato dal mondo dell’associazionismo,
dai movimenti, dall’ambientalismo, dal sindacalismo di classe e dalle
forze politiche della sinistra - anche a dimensione civica pongano le
basi per costruire aggregazioni di alternativa capaci di diventare punto
di riferimento per settori sociali larghi.
DEMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE
La partecipazione e il controllo dei cittadini e dei lavoratori nella
determinazione dei bilanci, nella pianificazione urbanistica e territoriale,
nell’organizzazione dei servizi e nella gestione dei beni comuni sono
insieme alla ripristino della centralità delle assemblee elettive e
di una legge elettorale proporzionale richieste imprescindibili per
la democratizzazione degli enti locali e l’avvio di processi di socializzazione.
Occorre però prendere atto che le pratiche partecipative sperimentate
in passato, nate dalla grande esperienza del bilancio partecipative
di Porto Alegre, sono state spesso cancellate o svuotate da “finte”
pratiche calate dall’alto. La crisi dei movimenti e della sinistra radicale
non ha permesso il rafforzamento di queste importanti esperienze che
pur rimangono strategiche per la democratizzazione degli enti locali.
La trasparenza, come il coinvolgimento della cittadinanza e la tutela
degli interessi collettivi, è sempre più limitata da pratiche e procedure
di governance che sostituiscono i percorsi democratici. Il diritto alla
città si afferma attraverso la partecipazione e il conflitto.
Bisogna porre al centro delle nostre piattaforme programmatiche forme
di bilancio partecipativo, di partecipazione dei cittadini alle scelte
urbanistiche e ambientali, di controllo sulla qualità delle opere pubbliche,
di consultazione popolare.
In conclusione le nostre priorità strategiche per una politica di sinistra
antiliberista negli Enti Locali si possono così riassumere:
reinternalizzare, ripubblicizzare, trasformare
le società partecipate da spa in aziende speciali pubbliche (l’esperienza
di Napoli sull’acqua è esemplare in tal senso). Difendere la gestione
pubblica, in particolare dei servizi e dei settori strategici come
quelli dell’acqua pubblica, dell’energia, dei trasporti e della gestione
dei rifiuti, preservandoli dalla logica della privatizzazione finalizzata
al profitto, sostenuta dai governi centrali.
Ripubblicizzare ove possibile, acquisendone in
pieno la gestione, le attività nel settore dei servizi sociali, oggi
in gran parte esternalizzate e svolte dagli operatori del privato
sociale e comunque battersi per la qualità del lavoro e dei servizi.
Realizzare forme di partecipazione e controllo sui servizi erogati.
Attuare una svolta ambientalista e di valorizzazione
urbanistica ecocompatibile del territorio nella riorganizzazione delle
città a consumo di suolo zero, che intervenga per la riqualificazione
dei quartieri e delle aree periferiche. Piano nazionale di finanziamenti
per la riqualificazione degli aggregati urbani sperimentando programmi
di partecipazione per l’individuazione di piccoli interventi di verde
di prossimità con le “oasi del verde per l’incontro e la socialità”
Creare localmente un ambiente economico e sociale
che favorisca la realizzazione di posti di lavoro buono, nel welfare
di prossimità e nei servizi, a partire da modelli gestionali che favoriscono
l’occupazione rispetto agli investimenti in grandi impianti (esempio
la raccolta porta a porta).
Diritto alla casa significa garantire il passaggio
da casa a casa con un piano straordinario di implementazione degli
alloggi riconvertendo il patrimonio a qualunque titolo pubblico compatibile
con la residenza; realizzare un piano di solidarietà nazionale con
grandi enti pubblici e privati (banche, Inps) per la messa a disposizione
dei Comuni di appartamenti in affitto a prezzi popolari, -per fronteggiare
l’emergenza abitativa e il dramma sfratti- e prevederne anche la requisizione
per motivi di ordine sociale; avviare programmi di rigenerazione urbana
prevedendo il riuso del patrimonio pubblico per il diritto alla casa
e il diritto all’abitare che significa spazi per servizi sociali e
attività di quartiere, e luoghi di aggregazione sociale e di comunità.
Promuovere l’economia circolare ed affermando un
modello di sviluppo di produzione ecologica, che valorizzi le risorse
locali, tuteli l’ambiente e la salute dei cittadini-fruitori.
Realizzare un nuovo modo di vivere e di organizzare
la vita collettiva che parta dalla necessità di affermare la differenza
di genere e dal contrasto di ogni discriminazione.
Realizzare una città aperta a lavoratrici e lavoratori
provenienti da altri contesti culturali e spesso ormai stabilmente
presenti nel paese che sappia offrire politiche sociali inclusive,
secondo il principio che ogni persona è migrante e ogni migrante è
cittadino/a.
Per restituire agli enti locali capacità di rispondere ai bisogni
collettivi dobbiamo rilanciare la lotta per l’abrogazione del pareggio
di bilancio in Costituzione imposto con il novellato art 81, contro
cui vanno costruite le condizioni favorevoli per un referendum abrogativo.
La lotta per un rinnovato ruolo degli enti locali e un nuovo municipalismo
è per noi strategica sul piano democratico, sociale e ambientale.
TESI 15 - Diritti lgbtqi. Un approccio
materialista
A 52 anni dai Moti di Stonewall e dall’irruzione sulla scena politica
del movimento di massa LGBTQI, sono tanti i nodi vecchi e nuovi che
ci interrogano come partito comunista.
Il movimento LGBTQI è forse l’unico a vedere dei passi in avanti tangibili
in termini di visibilità delle soggettività che rappresenta e in termini
legislativi, in decenni caratterizzati da un forte arretramento dei
diritti conquistati nel ‘900 in ogni ambito.
Quelle stesse persone che per secoli sono state trattate come malate,
devianti, degenerate, quelle stesse persone che decisero, stanche dell’invisibilizzazione
e della violenza istituzionale, di portare in piazza i loro corpi e
le loro rivendicazioni a partire dalle rivolte, inclusa quella di Stonewall,
stanno conquistando, con una cavalcata apparentemente inarrestabile,
i loro diritti e la loro presa di parola a macchia di leopardo in tutto
il mondo.
Si moltiplicano i paesi in cui l’omosessualità è finalmente decriminalizzata,
in cui le coppie formate da persone dello stesso genere sono in varie
forme riconosciute, in cui si sanziona l’omolesbobitransfobia o si vietano
le terapie riparative, in cui si promuove l’autodeterminazione delle
persone LGBTQI. Tutto questo, però, avviene in maniera tutt’altro che
lineare. Ancora oggi 71 paesi, metà dei quali appartenenti al Commonwealth
con le sue leggi coloniali, puniscono l’omosessualità (di questi, 43
hanno norme specifiche contro il lesbismo) con pene che arrivano fino
all’ergastolo e, in 11 paesi, alla pena di morte. 15 paesi prevedono
norme esplicitamente repressive per le persone trans, molti altri le
colpiscono per vie traverse.
Il cammino è accidentato anche nelle liberaldemocrazie occidentali,
attraversate dal conflitto, nonostante vogliano offrire un’immagine
pacificata. Lo scenario è ben diverso da quello descritto dalla destra
che parla di “dittatura del pensiero unico”. In Occidente il pensiero
unico è quello della distruzione dei diritti sociali o del dominio imperialista,
mentre i temi LGBTQI sono un terreno di scontro. Questo è particolarmente
evidente in Italia, dove la destra reazionaria e fascistoide e la sinistra
liberal non hanno esitato a scontrarsi duramente sul ddl Zan che, al
momento della scrittura di questa tesi, è bloccato in commissione al
Senato e rischia di essere accantonato o completamente svuotato di senso
e efficacia, sacrificato sull’altare delle larghe intese. Non sarebbe
un fallimento isolato: diversi tentativi (il primo, nel 1996, fu del
Partito della Rifondazione Comunista) di approvare una legge contro
l’omolesbobitransfobia sono andati a vuoto per le infiltrazioni clericali
nelle fila del centrosinistra. La stessa legge sulle unioni civili,
approvata mentre nel nord come nel sud del mondo si legiferava sul matrimonio
egualitario, ha di fatto sancito la discriminazione tra famiglie (eterosessuali)
di serie A e “formazioni sociali specifiche” (omosessuali) di serie
B.
L’Italia, secondo l’ultimo report “Rainbow Europe 2021” dell’ILGA,
ha completato solo il 22% degli obiettivi verso la piena uguaglianza
e il rispetto dei diritti umani delle persone LGBTQI, con un punteggio
inferiore persino a quello dell’Ungheria di Viktor Orbàn. Sulla pelle
delle persone, sulla loro incolumità, sul loro diritto ad autodeterminarsi
si gioca una partita istituzionale indegna.
Le partite istituzionali, però, non vengono dal nulla, sono ramificazioni
di conflitti più ampi. La destra reazionaria e la sinistra liberal rappresentano,
infatti, rispettivamente il capitalismo conservatore e quello neoliberista,
col loro scontro a tutto campo sul modello di produzione e consumo del
futuro. L’orientamento sessuale e l’identità di genere non sono fatti
privati, perché non esiste capitalismo senza patriarcato, che è eteropatriarcato.
Il diverso approccio ai diritti LGBTQI ha quindi un ruolo chiave nello
scontro intercapitalistico e corrisponde a due diversi paradigmi. Da
un lato il capitalismo conservatore basa il suo modello sulla difesa
dei ruoli di genere e della famiglia tradizionale con la funzione che
essi hanno avuto nel modo di produzione fordista attraverso la divisione
sessuata del lavoro, tra produzione e riproduzione, dall’altro il capitalismo
neoliberista vuole “femminilizzare” il lavoro di tutti e tutte, tra
precarietà e globalizzazione. Se il capitalismo conservatore propone
esclusione e omolesbobitransfobia, quello neoliberista propone un’inclusione
che somiglia molto all’assimilazione dentro un sistema di dominio in
cui l'eterosessualità è la norma e le eccezioni sono “tollerate”,
stando ben attento a depotenziarle: usa la rappresentazione “rainbow”
per far in modo che i processi di identificazione con una comunità si
sovrappongono alla logica del mercato e delle sue nicchie, usa il diversity
management per illudere che sia il capitale a salvare dalle discriminazioni
i lavoratori e le lavoratrici LGBTQI, si autoassolve e si incorona come
salvatore.
Entrambi i paradigmi, però, hanno due cose in comune: usano l’”eccezionalismo
occidentale” sui diritti civili e l’omonazionalismo per rafforzare l’imperialismo
e sono consapevoli del potenziale trasformativo delle lotte LGBTQI (uno
lo teme e lo contrasta, l’altro lo attenua e lo sussume).
I comunisti e le comuniste non devono esitare a leggere e sostenere
quel potenziale trasformativo: il nostro partito da anni prova ad avere
familiarità con il nesso tra capitalismo e patriarcato, ma fatica a
riconoscere la natura intrinsecamente eterosessuale di questi due sistemi.
Dobbiamo avere, dunque, un approccio tanto autenticamente intersezionale
quanto materialista. “I diritti civili devono andare di pari passo con
i diritti sociali” è una formula giusta ma, se rituale, non ci aiuta
a individuare l’intreccio tra oppressioni e tra strumenti di liberazione.
Come diceva Audre Lorde: “Non esistono battaglie monotematiche perché
non viviamo vite monotematiche”.
Sappiamo bene che un diritto civile, il diritto di sciopero, ha dato
gli strumenti al movimento operaio per ribaltare i rapporti di forza
e conquistare i diritti sociali. I diritti civili per le persone LGBTQI
hanno un valore intrinseco, ma possono fare molto di più.
Viviamo in un paese in cui l’orario di lavoro è modellato attorno
alla divisione sessuata fordista del lavoro di cura, in cui l’accesso
allo stato sociale è su base familiare e così via: le persone LGBTQI,
in un quadro di contrazione dei diritti per tutti e tutte, restano sempre
un passo indietro.
Il matrimonio egualitario, la riforma del diritto di famiglia, una legge
contro l’omolesbobitransfobia capace di fornire strumenti di autonomia
e difesa attiva dalla violenza avrebbero ricadute su svariati diritti
sociali. Il diritto alla salute per le persone LGBTQI avrebbe bisogno
di attenzioni precise, come il divieto di terapie riparative fisiche
(si pensi agli interventi chirurgici su* neonat* intresex) e psicologiche,
la semplificazione della corsa a ostacoli verso la transizione dopo
la depatologizzazione dell’incongruenza di genere operata dall’OMS,
la formazione del personale medico, il rimborso da parte del SSN di
diversi farmaci. L’elenco di diritti potrebbe essere sterminato, se
adottassimo collettivamente questo approccio. I diritti civili vanno
già di pari passo con i diritti sociali, in un intreccio inestricabile
che sembra invisibile a chi gode pienamente dei primi.
Sosteniamo con forza le lotte LGBTQI non solo perché non sarà possibile
sconfiggere il sistema capitalistico in qualsiasi sua incarnazione senza
demolire le sovrastrutture su cui si regge, ma anche perché vogliamo
una società basata sulla libertà e l’autodeterminazione di tutti e tutte.
Lo facciamo perché siamo comunisti e comuniste, perché siamo femministe
e perché siamo anche persone LGBTQI. Il nostro femminismo non è essenzialista,
non nega la durissima oppressione subita dalle persone trans né la loro
identità di genere, rifiuta ogni tentativo di esclusione e divisione,
soprattutto quando rafforza esplicitamente il fronte reazionario usando
le sue stesse argomentazioni. Libertà e autodeterminazione per tutti
e tutte, perché la coperta dei diritti non è mai troppo corta.
TESI 16 - Rifondazione Comunista 30 anni
dopo
Il 2021 è un anno carico di anniversari che riguardano la nostra storia.
Il centenario della nascita del PCI, nonostante le ricostruzioni ingenerose
di gran parte della pubblicistica, ha fatto riemergere nella memoria
collettiva il ruolo avuto dai comunisti nel nostro Paese, durante il
Novecento. Ma il 2021 segna anche l’anniversario dello scioglimento
del PCI, del suo mutare definitivo di nome e ragione sociale, a seguito
di una svolta che fu sostenuta dalla maggioranza del suo gruppo dirigente.
Il più grande partito comunista del mondo occidentale assunse quella
decisione nel corso del biennio che vide l’implosione dei regimi del
cosiddetto “socialismo reale” nell’Europa dell’Est, la repressione di
Piazza Tien An Men in Cina e successivamente la fine dell’Urss. Di fronte
a quegli avvenimenti, la maggioranza del partito decise di liberarsi
della “zavorra” di un nome e di una storia, per dare vita a una formazione
politica che non avesse più neanche vagamente un profilo antagonista
e anticapitalista. L’approdo al Partito Socialista Europeo non rappresentò
la trasformazione in una forza socialdemocratica classica. Infatti,
da tempo era già parallelamente in corso una mutazione che aveva trasformato
progressivamente quei partiti riformisti, ma ancora espressione della
classe lavoratrice e di ispirazione socialista, in formazioni neoliberiste
di centro. Sostanzialmente, gli ex-comunisti (come già prima era accaduto
ai socialisti italiani) in pochi anni e con gran rapidità si separarono
dall’eredità del movimento operaio socialcomunista italiano. Il voto
per il trattato di Maastricht, l’abbandono della concezione della democrazia
progressiva costituzionale, della centralità del parlamento e l’assunzione
del modello elettorale bipolare anglosassone di alternanza con sistemi
elettorali maggioritari e presidenzialisti, impermeabili alla rappresentanza
degli interessi delle classi subalterne, segnò le coordinate di una
nuova storia, in cui l’eredità del passato è stata usata meramente per
conservare il consenso elettorale. L’esito di quel processo dopo 30
anni è che l’Italia è diventato un Paese senza sinistra.
Anche Rifondazione Comunista a fine anno compie 30 anni di vita. Il
nostro progetto cominciò a delinearsi prima come opposizione nel PCI
alla “svolta” e più in generale come movimento di settori popolari,
intellettuali e militanti che non accettarono la cosiddetta “morte del
comunismo” (in realtà di ogni socialismo), che si affermò come senso
comune nel 1989-1991 e la scelta di assecondarla sciogliendo il PCI.
Un’analisi obiettiva delle ragioni di chi si oppose a quella operazione
non può che confermarne la fondatezza. La svolta fu presentata come
necessaria innovazione e discontinuità anche simbolica, che avrebbe
però aperto la strada alla nascita di un grande e moderno partito di
sinistra che avrebbe proseguito le lotte che avevano caratterizzato
il PCI nel corso dei decenni. Chi si oppose, fuori e dentro il PCI,
colse che in discussione non era un nome, ma, con un nome, una identità
culturale e politica. Si eludevano la portata e profondità della sconfitta
del movimento operaio che si era consumata già negli anni ’80 in tutta
l’Europa occidentale, separando le sorti del partito da quello delle
classi di riferimento, indicando nel “governo” dell’esistente l’obiettivo
unico e finalistico della politica. La crisi del socialismo reale forniva
la giustificazione a un percorso iniziato molto prima, quando il tentativo
del secondo Berlinguer fu fortemente contrastato nel partito e nel sindacato.
Da anni era in corso una massiccia campagna mediatica che invitava i
comunisti (dopo che lo avevano fatto i socialisti) a liberarsi della
“zavorra” del riferimento al comunismo, per giungere attraverso l’omologazione
a legittimarsi come forza di governo. Chi disse no a quella scelta avvertì
che quel cambio significava liberarsi dagli ancoraggi ideali e dalle
radici sociali, per diventare facilmente preda di una deriva verso destra.
L’interrogativo centrale di quello scontro rimane attualissimo.
Lo si può riassumere con le parole di Lucio Libertini: “se la vicenda
di questo secolo, con il tragico fallimento dei regimi dell’Est, segni
la vittoria definitiva del capitalismo, che diviene un limite insuperabile
della storia umana, seppellendo la questione del socialismo; o se invece
la tragica degenerazione di un grande processo rivoluzionario, che comunque
ha inciso sulla storia del mondo, e le nuove gigantesche contraddizioni
del capitalismo, a scala planetaria, ripropongano in termini nuovi la
questione del socialismo e dell’orizzonte ideale, assai più lontano,
del comunismo”.
La risposta intorno a cui nacque la mozione che si intitolò Rifondazione
Comunista fu quella non solo di rifiutare la riduzione della storia,
degli ideali, del patrimonio culturale e teorico prodotti in quasi due
secoli di socialismo/comunismo allo stalinismo o ai regimi nati in determinate
congiunture storiche. Non fu neanche soltanto quella, pur fondamentale,
di rivendicare il valore e il peso delle lotte per la democrazia e la
giustizia sociale, portate avanti da comuniste e comunisti. Ma soprattutto
l’idea che senza “orizzonte comunista” non ci sarebbe stata neanche
la capacità di resistere, contrastare nel tempo presente il capitalismo
e di comprenderne le nuove contraddizioni e le nuove forme di oppressione,
devastazione, dispotismo, sfruttamento. Come scrisse Ingrao: “E’ questa
parola che ci permette di mettere in relazione le vecchie contraddizioni
con le nuove. Distogliere lo sguardo da un orizzonte comunista, accettare
che esso sia rimosso a causa del crollo del modello stalinista, vorrebbe
dire precludersi una componente essenziale della ricerca del nuovo”.
La rivendicazione di una storia non fu dunque nel segno del conservatorismo
identitario o della rimozione della crisi dei comunismi novecenteschi,
ma della continuità di una “tradizione di libertà” che insegnava, da
Marx a Gramsci, a porre sotto la lente della critica anche le ragioni
delle sconfitte e delle degenerazioni. Questo approccio critico non
riguardava soltanto la vicenda del “socialismo reale”, ma anche la stessa
tradizione del PCI nella cui lunga storia vi erano anche elementi di
cultura politica e costituzione materiale che avevano spinto a quegli
esiti moderati.
Questi 30 anni non hanno smentito le ragioni del progetto di Rifondazione
Comunista, che poi si sviluppò come movimento e poi rapidamente come
partito, in quanto confluenza tra una parte della sinistra del PCI e
formazioni politiche che venivano dalla storia della nuova sinistra
e del lungo sessantotto italiano, come Democrazia Proletaria, e tante
compagne e compagni che videro quel nuovo spazio unitario come occasione
per ricostruire e ripensare una presenza comunista in Italia. Non fu
casuale – proprio grazie a quell’approccio rifondativo – anche la partecipazione
diretta e la simpatia di intellettuali e militanti che provenivano da
altri filoni della sinistra italiana, da quello socialista a quello
di ispirazione cristiana, dai movimenti pacifisti all’ecologismo. Rifondazione
Comunista nacque e crebbe con un grande capitale simbolico che poi è
andato disperso, capace di coinvolgere elettori (raggiungemmo la punta
di 3,4 mln. di voti) e militanti vecchi e nuovi.
Arriviamo oggi a questo passaggio della nostra storia fortemente ridimensionati
come presenza nelle istituzioni e nel Paese, organizzazione, iscrizioni,
visibilità. Siamo da tredici anni fuori dal parlamento e progressivamente
siamo usciti da tutte le regioni e da larga parte degli enti locali.
Non siamo più in grado – come tutta la sinistra radicale – di determinare
scadenze di mobilitazione nazionale di massa. E’ una situazione che
dura da tempo, producendo disaffezione, perdita di senso della militanza,
scarso ricambio generazionale. La nostra crisi si inserisce nello scenario
ancor più drammatico di un Paese senza sinistra, in cui mai come oggi
domina quello che fu definito il “pensiero unico” e le classi lavoratrici
sono prive di rappresentanza politica. A 30 anni dalla nascita del nostro
partito, veniamo percepiti come un residuo resistente di una storia
conclusa e ci confrontiamo in uno spazio sempre più ristretto con altre
organizzazioni che fanno riferimento al comunismo e/o alla sinistra
radicale, oltre che con culture diffuse a sinistra e nei movimenti che
diffidano della forma partito e anche del riferimento al comunismo.
Più in generale, è fortissimo il peso dell’anticomunismo nella cultura,
nell’immaginario, nel senso comune.
Se sottoponiamo però a verifica il progetto che si delineò durante la
lotta contro la liquidazione del PCI e nella successiva nascita del
partito, quel che prevale è la conferma delle tesi di fondo in quel
che è accaduto nel Paese e nel mondo.
Si può scrivere in tanti modi la storia del nostro partito. Si possono
vederne tutti i limiti e le contraddizioni, le divisioni tra dirigenti,
lo stillicidio di scissioni, le sconfitte e le delusioni. Ma è possibile
anche leggerla in un’altra maniera, rivendicando di essere stati la
principale opposizione in Italia al neoliberismo e alla deriva del centrosinistra.
Certo siamo stati sconfitti dentro la logica del bipolarismo, ma questo
non cancella il valore delle nostre lotte.
Naturalmente non possiamo non confrontarci col bilancio di questo trentennio
in cui abbiamo avuto ragione su quasi tutto, ma abbiamo subito una sconfitta
di enormi dimensioni. Ma è bene farlo senza rinunciare al rispetto per
la resistenza controcorrente che abbiamo rappresentato in questo Paese
e di cui si sente oggi più bisogno forse che 30 anni fa. Siamo stati
in Italia “il cuore dell’opposizione”, fin dalle proteste operaie del
1991-1992 e dal “no al referendum” per il maggioritario.
Il primo tema da porsi è quello della rifondazione comunista, del nostro
profilo ideale, teorico, programmatico. Ha senso il tentativo (come
fanno altre formazioni comuniste) del ritorno a presunte ortodossie
spesso inventate e incolpare i percorsi innovativi della sconfitta?
Noi pensiamo di no, che si tratti una facile via di fuga dalla realtà,
che ha più a che fare con l’autorassicurazione di ristrette minoranze
che con il recupero di una capacità di incidere nella realtà. Rifondazione
Comunista ha costituito un’anomalia e un punto di riferimento positivo
per anni per la sinistra radicale di tutta Europa (e non solo), proprio
per la sua capacità di non conservare in maniera museale una storia,
ma di sviluppare l’incontro, la contaminazione, la discontinuità. Nel
ventennale di Genova 2001, ricordiamo che il nostro Paese fu attraversato
da un movimento di massa che per alcuni anni ha costituito l’autentica
opposizione. Se guardiamo alla stessa frantumazione che oggi affligge
l’area comunista e la sinistra radicale, appare figlia dello speculare
allontanarsi da due coordinate fondamentali del nostro progetto originario:
la rifondazione e la radicalità.
Rivendichiamo dunque il nostro comunismo democratico, libertario, verde,
femminista. Il superamento di una concezione “monoteista” del partito
- per usare l’espressione di Lidia Menapace – che ci ha predisposto
alla ricerca della convergenza, all’internità ai movimenti e all’apertura
alle culture critiche, l’aver tentato di coniugare la critica del capitalismo
a quella femminista del patriarcato e di ricostruire un punto di vista
di classe e internazionalista mettendoci in relazione con tante esperienze
su scala europea e internazionale, dal Chiapas al Kurdistan, da Seattle
e Porto Alegre alla Sinistra Europea.
Rifondazione Comunista riuscì a essere uno spazio unitario per le comuniste
e i comunisti proprio perché non si poneva su terreni escludenti, ma
nel comune impegno di ricerca su come lottare nel presente e ricostruire
una prospettiva. Oggi abbiamo un proliferare di sigle inversamente proporzionale
alla capacità di incidere. Lo diciamo con umiltà e senza pretese egemoniche,
ma semplicemente per aprire una riflessione sul necessario avvio di
una ricomposizione e riaggregazione di forze a sinistra nel nostro Paese.
A trenta anni dalla nascita di Rifondazione Comunista poniamo il tema
dell’unità, innanzitutto a chi condivise quel percorso.
Una questione che si pone è quella del rapporto con il centrosinistra,
per il peso che ha avuto in questo trentennio. E’ evidente che il bipolarismo
ha segnato la nostra vicenda, perché le caratteristiche del sistema
politico hanno determinato un campo assolutamente sfavorevole alle forze
che lottano per un’alternativa di società. Le spiegazioni semplicistiche
e speculari non aiutano. Siamo nati dentro la storia della sinistra
italiana e ne portiamo dentro le contraddizioni. Abbiamo pagato il prezzo
sia dell’unità, che della rottura. Da anni abbiamo scelto la strada
dell’alternatività al centrosinistra, prendendo atto della sua conversione
progressiva al neoliberismo. Una strada in salita che pur nella nostra
coerenza non è riuscita a produrre un recupero del rapporto di massa.
Non pensiamo però che vada abbandonata, perché si fonda non su giudizi
ideologici astratti, ma su dati reali. Non intendiamo rinunciare né
alla lotta, né alla rifondazione comunista e siamo convinti che servano
entrambe per ricostruire la sinistra nel nostro Paese.
TESI 17 - Formazione e autoformazione
“Studiare, studiare e ancora studiare” (V. Lenin)
Lo studio, il lavoro di formazione ed autoformazione non possono in
alcun modo essere considerati un lusso superfluo, un accessorio secondario
dell’impegno sociale e del lavoro politico. Per le/i comunisti, comprendere
come è fatto il mondo, “disvelarne l’arcano”, come fece Karl Marx nel
suo imponente lavoro teorico e rivoluzionario, è la condizione senza
la quale si resta inesorabilmente al di qua delle necessità, inesorabilmente
prigionieri dell’opacità della realtà data, consegnati alla subalternità,
malgrado tutta la generosità degli sforzi profusi. Lo avevano ben presente
tutti i grandi rivoluzionari. Rosa Luxemburg, che diresse la scuola
di partito della socialdemocrazia tedesca scrivendo dispense che sono
divenuti dei classici sul capitalismo, invitava i militanti "studiare
e imparare per il resto della loro vita": “per noi, come partito
in lotta, la storia del socialismo è scuola di vita. Ne ricaviamo sempre
nuovi stimoli”.
Proprio Gramsci sottolineava che “se è vero che la storia universale
è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi
e dai pregiudizi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato,
che un altro anello vuole aggiungere a quella catena, non debba sapere
come e perché e da chi sia stato preceduto e quale giovamento possa
trarre da questo sapere”.
Ma il lavoro a cui Gramsci ci invitava non è pura erudizione, vacuo
esercizio scolastico. “La cultura – egli affermava – è organizzazione,
disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria
personalità e conquista di una coscienza superiore, per la quale si
riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione
nella vita, i propri diritti, i propri doveri”.
Di qui l’appello appassionato con cui il fondatore del Partito Comunista
d’Italia si rivolgeva ai giovani: “Istruitevi, perché abbiamo bisogno
di tutta la vostra intelligenza; agitatevi, perché avremo bisogno di
tutto il vostro entusiasmo; organizzatevi, perché abbiamo bisogno di
tutta la vostra forza”.
Tema che riecheggiava potentemente nelle parole di Enrico Berlinguer
che proprio ai giovani si rivolgeva per spronarli all’azione consapevole,
la sola che può mettere fine allo stato di cose esistente: “Se i giovani
si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano
con i lavoratori e gli oppressi – scriveva in uno dei suoi ultimi articoli
– non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia”.
Nel suo ultimo libro, ad ogni effetto il suo testamento spirituale,
anche Luciano Gallino si rivolse in modo diretto ai giovani.
Gallino si chiedeva come sia possibile contrastare la rappresentazione
della società propinata dai giornali, dalla TV, dai discorsi dei politici,
dalle scienze economiche, dalla scuola, dall’università, dai maitre
a penser che operano incessantemente ad uso e consumo delle classi dominanti
e che vanno spiegando che “l’arricchimento dei ricchi solleva tutte
le barche, mentre un minimo di riguardo all’evidenza empirica mostra
che nel migliore dei casi, come ha scritto un economista americano,
esso solleva soltanto gli yacht”.
Ebbene, Gallino non proponeva ai giovani di affrontare di corsa i
monumenti del pensiero critico, ma di tenere presente che essi esistono,
e quando occorre sono un formidabile antidoto contro l’ottusità e la
piattezza delle rappresentazioni della società che ogni giorno si è
costretti a subire. E concludeva il suo dire con un messaggio molto
forte: “Nessuno è veramente sconfitto se riesce a tenere viva in se
stesso l’idea che tutto ciò che è può essere diversamente, e si adopera
per essere fedele a questo ideale”.
Ebbene, proprio per queste solide ragioni abbiamo con forte determinazione
voluto e costruito il programma di formazione politica del Prc, un programma
da aggiornare, da sviluppare e da connettere con le radici più profonde
della nostra storia e con i contributi più vitali del pensiero critico.
Ci diamo l’obiettivo di costruire una “scuola di partito” nazionale
utilizzando le possibilità offerte dalla rete che consente di allargare
la partecipazione. Dobbiamo implementare la formazione all’agire politico
e sociale per fornire strumenti di conoscenza e di azione concreta alle/ai
nostre/i militanti sui tanti temi di intervento (enti locali, ecologia,
urbanistica, vertenze, lavoro, mutualismo, ecc.) e la socializzazione
dei saperi e delle pratiche.
TESI 18 – Per un partito sociale
Siamo chiamati a un passaggio di trasformazione
reale di noi stessi. La nostra debolezza soggettiva - come partito
e come movimento per l’alternativa - e le discontinuità determinate
dalla tendenza disumana del capitalismo neoliberista, ci chiedono
una capacità di ripensare il nostro progetto e la nostra funzione
per uscire da una fase difensiva troppo lunga. Si tratta di intrecciare
compiti diversi, perché l’aggregazione del soggetto dell’alternativa
e il rilancio del Partito della Rifondazione Comunista sono facce
diverse di un unico processo politico, tra loro non separabili.
Conseguentemente, i nostri compiti di fase si possono così riassumere:
da un lato la costruzione di una critica di massa al capitalismo e
la proposizione del Socialismo del XXI secolo. Dall’altro, l’aggregazione
di blocco sociale antiliberista, a partire dalla ripresa di una politica
di classe nel nostro Paese, dove oggi non c’è più sinistra nelle istituzioni
e ormai anche nell’immaginario mentre le classi lavoratrici e popolari
sono prive di rappresentanza. Dobbiamo sempre più essere il partito
dell’unità delle e degli sfruttate/i, delle classi popolari, di chi
sta in basso e subisce le conseguenze delle politiche neoliberiste,
per superare la guerra tra poveri, favorire percorsi collettivi di
soggettivazione, aprire dialogo e unificazione tra i soggetti che
subiscono e contestano la ferocia capitalistica.
Su questa base dobbiamo quindi ridefinire il nostro progetto, innovare
la nostra forma organizzativa e lo stesso modo di essere del nostro
partito, mettendo al centro l’esigenza della trasformazione sociale,
il nostro essere un partito sociale.
Il partito sociale non è una delle articolazioni
della Rifondazione Comunista, ma in ogni epoca costituisce l’essenza
di un partito che voglia essere espressione e organizzazione delle
classi subalterne. È la ri-soggettivazione del nostro percorso storico,
che pone il “far da sè solidaristico” come principio e su tali basi,
opera per sviluppare il conflitto sociale e la lotta di classe. La
sfida sta nell’essere capaci di articolare le pratiche sociali e di
mutualità solidaristica in risposta ai bisogni effettivi, accompagnando
tali pratiche con la lotta e la concreta resistenza popolare. E questo
occorre farlo soprattutto intrecciando le lotte nel mondo del lavoro
con gli ambiti di vita quotidiana, al fine di sviluppare relazioni
sociali cooperative e contesti di solidarietà.
Questo lavoro deve essere sviluppato a vari livelli:
In primo luogo dobbiamo far perno sulle grandi potenzialità dell’essere
in comune, sul mutuo aiuto, sui sentimenti di solidarietà, di condivisione,
convergenza e cooperazione sociale, promuovendo luoghi di relazione
reciproca e circolare, di supporto alle lotte, di sostegno reale alle
situazioni di difficoltà delle persone, di riorganizzazione delle
lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi della produzione e della circolazione
delle merci. In sostanza: costruendo embrioni di “contropotere”. In
questo quadro dobbiamo costruire una "confederazione politica
dell'iniziativa sociale di prossimità" che aiuti a rompere, nell’immediato,
la frammentazione e l’isolamento che contraddistinguono il mondo contemporaneo
e che cominci a far argine vero, nella società contro l’individualismo
e la solitudine. La solidarietà non è solo una idea-forza delle pratiche
mutualistiche e dell’auto-organizzazione, ma è l’arma fondamentale
contro la disumanità.
Essere solidali, quindi, tra eguali e diversi, in alternativa alla
guerra tra poveri e al razzismo e al darwinismo sociale. In armonia
con la nostra Terra e nel rispetto della natura.
In secondo luogo, si tratta di contribuire a costruire dal basso una
vera e propria Confederalità sociale, in cui i momenti di solidarietà
e le pratiche vertenziali sui diversi aspetti della condizione popolare
possano entrare in relazione e rafforzarsi a vicenda. In altre tesi
abbiamo sviluppato gli obiettivi del nostro lavoro politico sul terreno
sindacale e più in generale su quello della ricomposizione di classe.
Dobbiamo fare questo con un obiettivo politico generale di ricomposizione
dal basso della società e delle pratiche popolari, solidali e conflittuali.
La costruzione di una confederalità sociale non implica solo l’individuazione
di obiettivi comuni. Si tratta di costruire un orizzonte di cambiamento
che, superando il senso di impotenza individuale, costruisca un nuovo
“noi”, nuove forme di aggregazione che permettano l’identificazione
dei proletari tra loro. E’ il tema della costruzione di una nuova
coscienza di classe, che sia in grado di declinare nei termini odierni
un senso di appartenenza popolare che diventi orgoglio e prassi di
solidarietà e conflitto. La confederalità sociale non è solo la sommatoria
di obiettivi rivendicativi economici, ma piuttosto la scoperta della
forza che può dare la messa in comune delle pratiche e il superamento
della guerra tra i poveri. In questo quadro, è decisivo il terreno
della proposta programmatica che deve essere identificante. Ma parimenti
decisiva è la costruzione di un immaginario e di un linguaggio che
esca dalla replica del linguaggio manipolatorio dei media e permetta
il dialogo e il riconoscimento reciproco tra i diversi settori popolari.
La pratica della cooperazione, contrapposta alla pratica della concorrenza
e della sopraffazione, è un punto decisivo della costruzione di questo
immaginario e di questa nuova antropologia comunista.
La costruzione di un blocco sociale dell’alternativa è fatto di pratiche
solidali, di lotte, di acquisizione di saperi sociali. Fondamentale
a questo riguardo, è la valorizzazione e la messa in rete in rapporto
con i movimenti sociali e le pratiche di autorganizzazione di quel
tessuto di intellettualità diffusa - sottoposta essa stessa ad un
generale processo di sfruttamento – che caratterizza il nostro Paese.
Oggi in Italia, la crescita culturale delle giovani generazioni viene
snobbata e disprezzata. Al contrario, noi dobbiamo far leva su questa
“eccedenza” di saperi sociali, per valorizzarli nella costruzione
di un percorso di trasformazione sociale in cui gli strati popolari
possano organizzarsi, lottare, emanciparsi.
Il tema dell’organizzazione degli intellettuali, nella piena valorizzazione
della loro autonomia in relazione con i movimenti di massa, è uno
dei grandi compiti su cui dobbiamo lavorare come partito.
La rottura dell’isolamento individuale, la costruzione di pratiche
di solidarietà, mutualismo, di conflitti sociali, la tessitura di
una confederalità tra queste diverse pratiche sociali, la costruzione
di un linguaggio e di una visione del mondo che motivi l’utilità di
questo percorso, è il nostro compito di fase.
Un compito che va ben al di là delle nostre forze, ma che proprio
nella chiarezza della sua individuazione può contribuire non poco
alla aggregazione di forze nuove. Non siamo oggi un partito di massa.
Vorremmo diventare un partito profondamente radicato nel tessuto sociale,
capace di costruire tessitura sociale, unità di classe, prospettive
di cambiamento radicali e di massa.
Nel contesto di un ripensamento delle forme della nostra strutturazione
di base, rilanciare con forza lo sforzo per il radicamento del partito
sui luoghi di lavoro e per il rilancio del nostro intervento politico
sul lavoro. Si tratta di potenziare un intervento politico, al di
là delle diverse appartenenze sindacali in cui il Partito svolga un
ruolo di unificazione, anche su questo terreno.
Il radicamento e l’intervento sociale sono inseparabili dal rilancio
dell’inchiesta “operaia” (della conoscenza del complesso delle condizioni
di vita a e di lavoro degli strati popolari) intesa come pratica quotidiana,
come modo di essere del partito.
A tal fine, è decisiva la formazione di un nuovo di tipo di militante
comunista, capace di agire nel concreto dei movimenti sociali culturali
e politici, al fine di unificare i soggetti dell’alternativa, smascherando
parimenti l’ideologia dominante e la sua funzione divisiva.
Un militante comunista che, a partire della propria situazione concreta,
sia in grado di padroneggiare e proporre l’orizzonte complessivo della
trasformazione sociale.
Un partito sociale non può che essere un partito rossoverde, un partito
di attiviste e attivisti ambientaliste/i che sia capace di prefigurare
trasformazioni del modello di sviluppo, promuovere vertenze in difesa
dell’ambiente e dei beni comuni, con alternative concrete, che sia
punto di riferimento per il popolo inquinato e per una ricostruzione
ecologica della società, che lotta per città vivibili e la tutela
del paesaggio e degli ecosistemi.
Sviluppare questo nostro progetto di partito sociale
significa anche uscire da ogni contrapposizione tra sociale e politico.
È ovvio che l'agire politico e vertenziale richiede continuamente
sbocchi normativi e istituzionali che devono far parte a pieno titolo
della nostra azione. La stessa azione sul terreno politico-elettorale
acquisterà forza se camminerà sulle gambe del radicamento sociale.
Le pratiche mutualiste, cooperative, politiche e sociali non sono
per noi di per sé neutre o passive, ma devono sapersi intrecciare
con la nostra proposta politica, così come con la costruzione di programmi
avanzati di governo di alternativa e autonomi dai poli liberisti.
Di fronte alla drammatica crisi della partecipazione democratica con
lo svuotamento autoritario delle istituzioni liberali, la nostra azione
deve riportare al protagonismo e alla conquista della rappresentanza
politica, i tanti frammenti e saperi dispersi nella società. Abbiamo
bisogno di mettere in campo una strategia del cambiamento, attraversare
in campo aperto la contraddizione capitale/vita. Agire sul piano dell’autorganizzazione
delle resistenze e sul piano della autorganizzazione della solidarietà
orizzontale significa, in effetti, praticare l’anticapitalismo e dar
vita ad elementi parziali di contropotere. Significa dare forma a
un embrione di “Paese nel Paese”, con un “fare società” alternativo
al senso comune dominante, che impatti per davvero i luoghi reali,
puntando a farli vivere come luoghi di convivialità, di resistenze
e di pratiche solidali. La resistenza promuove la lotta di classe
e rivendica specifici obiettivi verso l’alto; la pratica del mutuo
aiuto agisce come cooperazione orizzontale tra eguali. La comunità
diventa, così, un luogo di sperimentazione rivoluzionaria che si connette
e viene qualificata dall’azione di lotta; e l’approccio intersezionale
delle/dei comuniste/i diviene funzionale alla costruzione di nuove
soggettività.
Uno dei settori di attività, ricerca, valorizzazione
delle competenze presenti, su cui il Partito deve investire di più
e in maniera più strategica è quello della comunicazione. In un contesto
di pensiero dominante in cui i partiti neoliberisti impongono una
propria immagine fondata sulla personalizzazione di organizzazioni
inesistenti nei territori e in cui la proprietà dei mezzi di informazione
è detenuta da pochi gruppi privati, Rifondazione Comunista deve proseguire
un percorso già iniziato di potenziamento dei propri canali comunicativi,
ponendosi obiettivi ambiziosi. Negli ultimi anni stiamo riuscendo
ad affermare caratteristiche peculiari nell'uso dei social media e
nell'immagine che del partito diamo all'esterno. È un lavoro che va
implementato a livello nazionale e sui territori parallelamente alla
digitalizzazione del partito. Occorre anche concretizzare, nonostante
le scarse risorse economiche, il progetto di un nostro quotidiano
almeno on line dopo aver consolidato la rivista Su La Testa. Uno strumento
– da mettere a disposizione del complesso dell’area della sinistra
anticapitalista - che si ponga l'obiettivo di non rispettare la gerarchia
delle notizie comune a quasi tutto il panorama mediatico ma di ribaltarla
per dare priorità a temi spesso elusi o affrontati con l'ottica e
l’immaginario della classe dominante. Dobbiamo dotarci di una strategia
di lungo respiro per recuperare la capacità di rompere il conformismo
dilagante. Social, sito, comunicati stampa, podcast, brevi video,
tanti sono gli strumenti da utilizzare per far sentire voci che oggi
non hanno diritto a farsi sentire se non nei brevi momenti dedicati
alla mera vittimizzazione. Mai come adesso comunicazione è potere
ed in tal senso, con un approccio che privilegi il pluralismo antiliberista,
la radicalità non settaria, la volontà di mettere in dubbio le verità
delle classi dominanti, potremmo, soprattutto grazie al contributo
delle nuove generazioni, proporci come soggetto le cui parole riacquistino
ascolto, interesse, utilità sociale e vengano percepite come socialmente
e politicamente alternative. Fare comunicazione per ricostruire la
nostra parte.
L’accentuazione che poniamo sul tema del partito
sociale non sminuisce i compiti politici di un partito comunista.
I programmi e le pratiche sociali scaturiscono dalla elaborazione
dei contenuti più avanzati e delle esperienze più significative, rappresentano
la risposta alle contraddizioni prodotte dal liberismo, indicano obiettivi
raggiungibili e unificanti per un ampio blocco sociale e al tempo
stesso la necessità di una svolta eco-socialista all’altezza dei nostri
tempi: la riconversione ecologica e pacifista delle produzioni, il
primato del ruolo pubblico e della partecipazione popolare, la tutela
dei beni comuni e del territorio, i diritti sociali e del lavoro,
la lotta contro il patriarcato e qualsiasi discriminazione, il ripudio
della guerra. In particolare la questione migranti, ma anche quella
della emigrazione, va intrecciata sempre più con la lotta per i diritti
sociali e del lavoro contro qualsiasi forma di razzismo, discriminazione
e di guerra tra poveri. Dalla costruzione sui territori di esperienze
municipaliste avanzate, come quelle già nella Rete delle Città in
Comune, al rapporto con tutte le energie intellettuali critiche, dalla
relazione con le organizzazioni sociali democratiche e l’associazionismo
all’internità ai movimenti, dalla prefigurazione di un progetto di
Paese diverso alla costruzione di una proposta politica per un’uscita
dalla crisi che attraversa il nostro Paese.
Perché come diceva Marx nel Manifesto del partito comunista, “I comunisti
– e le comuniste – si distinguono dai restanti partiti proletari solo
perché da un lato, nelle diverse lotte nazionali dei proletari, essi
pongono in evidenza e affermano gli interessi comuni di tutto il proletariato,
indipendentemente dalla nazionalità; dall’altra perché essi esprimono
sempre l’interesse complessivo del movimento nelle diverse fasi in
cui si sviluppa la lotta fra proletariato e borghesia. I comunisti
– e le comuniste – sono pertanto nella pratica la parte più decisa
e più avanzata dei partiti operai di ogni Paese, e dal punto di vista
teorico essi sono anticipatamente consapevoli delle condizioni, del
corso e dei risultati complessivi del movimento proletario”.
TESI 19 - La rifondazione femminista
TESI 20 - La nostra proposta politica
Praticare l’opposizione, costruire l’alternativa. Il tempo
è ora.
Se il bipolarismo è un gioco truccato, occorre lavorare per la costruzione
di un’alternativa ai poli esistenti. La necessità della riapertura di
un ciclo di lotte e il tema della presenza della sinistra sul terreno
della rappresentanza istituzionale non vanno contrapposti. L’assenza
nello spazio della politica istituzionale di una sinistra anticapitalista
e antiliberista, femminista, ambientalista e pacifista pesa anche sulla
capacità di incidere dei movimenti sociali.
Non ci rassegniamo a vivere in un Paese senza sinistra e senza opposizione.
E’ il risultato della semplificazione della dialettica politica da anni
imprigionata dentro un bipolarismo truccato, che vede, da più di due
decenni, le forze politiche convergere sulle scelte fondamentali. Si
è compiuta nel nostro Paese – caso forse unico nell’Europa occidentale
– una vittoria senza precedenti sul piano politico del pensiero unico
neoliberista. Il bipolarismo è servito principalmente ad espungere la
rappresentanza delle classi popolari e dei loro interessi dal sistema
politico, a sostituire l’alternanza all’alternativa. La marginalizzazione
della sinistra di alternativa è l’altra faccia della cancellazione della
rappresentanza autonoma delle classi lavoratrici e, sul piano politico-culturale,
delle culture critiche e dei movimenti sociali. La conseguenza è una
crescita dell’ultra-destra che ha raggiunto dimensioni che mai ha avuto
durante la storia repubblicana.
La debolezza della sinistra di classe si rispecchia in quella dei
movimenti e pone a tutte le aree critiche del Paese la necessità di
una riflessione profonda e non consolatoria.
Innanzitutto occorre chiarezza: la scelta di fare “la sinistra” in alleanza
col PD non solo è del tutto inefficace (come dimostrato ormai da molteplici
esperienze), ma contraddice in modo evidente la costruzione e prefigurazione
di un’alternativa sociale e politica. Inoltre, viene praticata ritagliandosi
uno spazio subalterno e ornamentale come dimostrano le “liste coraggiose”.
La costruzione dell’alternativa richiede per essere credibile scelte
rigorose e coerenti.
Non ci convince neanche la semplice esaltazione del conflitto, dell’intervento
sociale, dell’azione locale che non riescono quasi mai ad avere un impatto
sulle grandi scelte, in assenza di una capacità di confluenza e di una
proposta più generale. Da questo punto di vista va recuperata la lezione
del movimento dei movimenti, oltre che la grande storia dei movimenti
operai.
Se il governo Draghi segna l’ennesima puntata dell’egemonia del capitale
sulla politica e le istituzioni, emerge chiaramente la necessità di
un lavoro di lunga lena: pensiamo che tutte le energie vadano concentrate
nella promozione di una nuova stagione di movimento e opposizione, capace
di aggregare un blocco sociale popolare su un programma di attuazione
della Costituzione, di radicale alternativa per il nostro Paese, per
un eco-socialismo del XXI secolo.
Per questo riteniamo sia fondamentale un’ispirazione unitaria a livello
sociale e politico, per costruire la più ampia opposizione e riaggregare
le forze, mettere in connessione le soggettività critiche e i conflitti,
dare vita a campagne di massa. La frantumazione e le identità chiuse
non aiutano alla costruzione di spazi di iniziativa unitaria capaci
di parlare al Paese e, soprattutto, a chi subisce le conseguenze della
crisi e delle politiche delle classi dominanti.
Come Partito della Rifondazione Comunista riteniamo urgente aprire una
fase di dialogo e di ascolto reciproco fra tutte le donne e gli uomini,
fra tutte le realtà organizzate che condividono l’urgenza della costruzione
dell’alternativa.
Sappiamo bene che nel nostro Paese vi sono energie ed esperienze che
vanno in controtendenza rispetto all’omologazione della politica e all’abbrutimento
della società. Ci riferiamo al diffuso tessuto di pratiche sociali,
culturali e politiche (in cui siamo quotidianamente impegnate/i anche
noi di Rifondazione Comunista) che alimenta dall’esterno del parlamento
il conflitto di classe e ambientale, la dialettica sociale e democratica,
il mutualismo e la solidarietà, le pratiche femministe e le campagne
per la pace, i diritti e contro ogni discriminazione e razzismo. Vi
sono reti, intelligenze e soggettività (associazioni, comitati, settori
sindacali conflittuali, movimenti, partiti, liste ed esperienze civiche
legate al territorio) che operano positivamente, senza però avere quel
profilo politico comune necessario al fine di costituire uno stabile
punto di riferimento per le classi popolari e per larga parte del Paese.
Dall’opposizione al governo Draghi, vogliamo contribuire allo sviluppo
di un movimento che, a partire dalle questioni sociali, sindacali, ambientali,
democratiche, da quelle legate alla differenza di genere, porti alla
costruzione, tanto difficile quanto necessaria, di un ampio schieramento,
di un fronte diffuso, di una confederalità sociale che da sinistra,
insieme a forze ambientaliste e civiche, si batta per l’alternativa
alla brutalità neoliberista e ai poli politici oggi esistenti. Si tratta
di socializzare la politica e politicizzare il sociale, superando steccati
e diffidenze che da tempo ostacolano la costruzione di un vasto movimento
politico e sociale per l’alternativa. Si tratta anche di saper leggere
politicamente la nuova fase storica post pandemia, che vede in profonda
crisi il blocco sociale che si era aggregato intorno al nuovismo del
M5S, così come il pensiero neo liberale progressista sorpreso dalle
forme espansive e di spesa proveniente da oltre atlantico. Esiste un
evidente vuoto di proposta politica, che va riempito non inseguendo
temi e agende politiche dei fronti in crisi, ma di aprirne una nuova
popolare e autonoma. Una proposta ambiziosa e di governo del paese,
tale da poter essere percepita come necessaria da larghe masse.
Rifondazione Comunista propone di aprire un nuovo percorso da costruire
insieme, anche con forme inedite, con lo scopo di costruire una soggettività,
un’aggregazione che, per dimensioni e credibilità, possa rappresentare
una alternativa allo stato di cose presente. Allo stesso tempo, abbiamo
la consapevolezza che non si possa ricondurre ad uno la pluralità delle
diverse esperienze e che nessuna delle formazioni della sinistra di
alternativa abbia oggi la forza e l’autorevolezza per realizzare questo
obiettivo.
In tutta Europa c’è una sinistra antiliberista e anticapitalista rosso-verde
che fa riferimento al Partito della Sinistra Europea e al gruppo parlamentare
“La Sinistra”, che rappresenta lo spazio politico in cui si colloca
la nostra proposta.