Tesi alternativa su "30 anni di Rifondazione" Il trentesimo anniversario del Partito ella Rifondazione Comunista non può essere un atto puramente celebrativo, ma deve essere l’occasione per un bilancio critico della nostra esperienza. Tale bilancio è anzitutto necessario oggi, non solo per l’evidente ridimensionamento che ha conosciuto il nostro partito, rispetto alle speranze che esso aveva suscitato al suo avvio, ma anche perché senza tale bilancio, sarebbe impossibile quel rilancio cui tutti aspiriamo. Senza un bilancio condotto con rigore e obiettività non disporremo degli elementi essenziali da cui partire per correggere errori e per tracciare una nuova prospettiva. In primo luogo, va riconosciuto che la scelta compiuta trent’anni fa di rifiutare lo scioglimento del PCI nel PDS e di mantenere in vita una formazione comunista, fu una scelta corretta e lungimirante. La scelta di chiudere l’esperienza del PCI, compiuta dalla maggioranza del suo gruppo dirigente, fu un atto di omologazione: la rinuncia a considerarsi soggetto alternativo, a una prospettiva di superamento del sistema capitalista, per ottenere una legittimazione moderata, all’insegna dell’accettazione delle compatibilità del sistema, per aprirsi una via all’ingresso nel governo del paese. L’operazione, presentata come un’opportunità offerta dalla caduta del muro di Berlino e dalla crisi dell’URSS e dei paesi del blocco socialista, si rivelò da subito come una scelta disperata. Fra il primo e il secondo congresso in cui si compì, determinò l’abbandono di centinaia di migliaia d’iscritti. Ma i suoi effetti disastrosi li rivelò nel corso degli anni, con uno slittamento in senso moderato del nuovo partito che, senza un’identità definita e guidato essenzialmente dall’aspirazione a ricercare una collocazione di governo, non solo approdò a una scelta elettorale maggioritaria, ma dismise progressivamente ogni connotazione di sinistra, per mutare rapidamente identità passando attraverso l’esperienza dei DS e per approdare, con l’apporto di ciò che restava della Democrazia Cristiana, al PD, una formazione di centro liberale. Possiamo dire, senza tema di smentita, che senza la scelta del ‘91 di dar vita a Rifondazione comunista, prima come movimento e poi come partito, non solo l’esperienza comunista sarebbe definitivamente svanita nel paese, ma anche la presenza della sinistra. E’ per questo che dobbiamo essere giustamente orgogliosi del ruolo che abbiamo svolto come partito in questi anni, un presidio che ha continuato a sostenere le istanze di trasformazione sociale, incrociando nel suo cammino, grandi crisi del capitalismo e il formarsi di nuovi movimenti e sensibilità di massa. E, in effetti, nei suoi primi anni di vita, Rifondazione comunista rappresentò una speranza per centinaia di migliaia di perone che si avvicinarono al partito e che ne sostennero l’iniziativa. Poi iniziò una parabola che ci ha condotto allo stato attuale. Come ciò sia potuto avvenire è la domanda fondamentale alla quale dobbiamo tentare di dare una risposta. Le cause sono senz’altro più di una. E’ vero che in generale Rifondazione comunista si è via via impoverita a seguito di grandi e piccole scissioni, contribuendo a disseminare nel quadro politico nuove formazioni comuniste e non. Ed è vero pure che tali scissioni, e certamente le più importanti, si sono prodotte a partire da scelte riguardanti gli assetti istituzionali. Ma possiamo ragionevolmente considerare tali eventi come ineludibili, una sorta di maledizione che inevitabilmente era destinata a colpire un partito posto di fronte a problemi inediti? Non lo crediamo, per il semplice fatto che nella storia dei comunisti tante volte ci si è dovuti scontrare con difficoltà anche molto gravi e con scelte difficilissime. Ed è anzi vero che proprio quei partiti che riuscirono a mantenersi uniti in questi passaggi seppero costruirsi un futuro. Il punto fondamentale è che nelle fasi di passaggio si mette in luce la solidità di una base politico culturale e la qualità di un gruppo dirigente. Col senno di poi possiamo riconoscere un primo limite nell’esperienza di Rifondazione comunista che va ascritto in larga misura all’incapacità a promuovere un vero rinnovamento del proprio patrimonio politico culturale. Il punto è che Rifondazione comunista aveva alle sue spalle un retroterra di grande rilievo e cioè l’intuizione gramsciana sulla rivoluzione nell’occidente e sul modello di partito. Una concezione che conteneva in sé elementi preziosi, come l’idea di un partito profondamente immerso nella società, con l’ambizione a svolgere un ruolo egemone, il riconoscimento della grande articolazione delle contraddizioni sociali, ma inserita in un’analisi di classe lucida, una processualità dell’azione politica concepita come conquista di nuove casematte, l’attenzione spasmodica per l’elevamento politico e culturale degli iscritti e un’opera di educazione di massa, una duttilità tattica essenziale per cogliere le opportunità e individuare i compromessi necessari da assumere. La verità è che, in larga misura, questi temi non sono stati sviluppati. Giovandosi del grande lascito (anche in termini di consenso elettorale) del Partito Comunista, in presenza della crescente delusione del PDS-DS-PD, Rifondazione comunista ha potuto giovarsi di condizioni favorevoli, ma si è arenata di fronte ad una cultura istituzionale debole, a una concezione della militanza in larga parte ripiegata sulla propaganda, alla sottovalutazione dell’importanza della costruzione delle casematte, allo scarso impegno nella presenza nelle organizzazioni di massa. Vi è un punto, tuttavia, che non va dimenticato, ed è la concezione del partito, la sua centralità nella trasformazione sociale e la necessità della preservazione della sua unità. Qui davvero vi è stato un deficit. I gruppi dirigenti portano tutti una grave responsabilità. Un eccesso di protagonismo, la scarsa collegialità, la tendenza a rimuovere il dissenso in forme sbrigative e, soprattutto, l’aver sottovalutato la necessità di porre come prioritaria la tutela della sua unità. Di fronte a una serie di scissioni anche clamorose, scarsa è stata la consapevolezza della necessità di mantenere unito il corpo del partito, ricercando mediazioni su livelli più avanzati. Negli ultimi anni, di fronte a un indebolimento già avanzato, il partito ha ripiegato sulla ricerca tattica di alleanze per uscire dalla condizione di marginalità e superare gli ostacoli posti dalle leggi elettorali, per garantirsi una rappresentanza parlamentare. Anche qui, tuttavia. si è privilegiata la ricerca d’interlocutori, spesso ad ampio raggio, cui ha fatto seguito la ricerca di un minimo comun denominatore programmatico. Le sconfitte elettorali subite riflettono in questo caso la disomogeneità e la scarsa credibilità politica e programmatica degli esperimenti messi in pratica. Ciò che però ha danneggiato di più è stato il tentativo reiterato di superare le difficoltà partendo dalla cessione di sovranità a soggetti politici improvvisati che ha determinato non solo esiti negativi, come nel caso dell’esperienza di PAP, ma che ha lasciato dietro di sé uno strascico di delusioni. Il partito che oggi abbiamo in eredità ha bisogno di una svolta. La scelta dell’alternatività al PD e al centro sinistra non è in discussione. Quello che è in discussione è piuttosto una modalità insufficiente di esprimere tale alternatività, centrata più sulle sottolineature delle distanze che ci separano dal centro sinistra che sugli elementi fondamentali della nostra proposta. Da questa premessa si deve partire per fare tesoro di errori e assumere un nuovo approccio nella costruzione del polo alternativo. Non può essere quindi più quello del contenitore da riempire di contenuti, ma deve essere all’opposto quello del programma, come discrimine per la costruzione delle convergenze e deve esistere una prospettiva meno provvisoria di un’elezione politica, con la prospettazione dell’orizzonte di un nuovo socialismo come traguardo. Tutto ciò implica quel salto di cultura politica di cui si diceva. l’attenzione posta nella individuazione del blocco sociale di riferimento, i contenuti che aggreghino tale schieramento. Ma implica anche un’attenzione all’insediamento sociale del partito, a partire delle grandi organizzazioni di massa, a una concezione meno primitiva delle istituzioni che ne sappia rivalorizzare la funzione di nodi importanti dello scontro sociale, al recupero di una vocazione egemonica nell’impegno nei movimenti sociali e nella costruzione di alleanze. Gianluigi Pegolo
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