Partito della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 6 ottobre 2013

Ricostruire la sinistra, per la rivoluzione democratica e il socialismo del XXI secolo

Noi siamo oggi, all’indomani di gravi e cocenti sconfitte, nella straordinarietà di una fase contrassegnata da una gigantesca crisi capitalistica, a ripensare il senso e il progetto della rifondazione comunista, consapevoli della nostra debolezza, così come delle nostre ragioni. Sentiamo, di fronte alle barbarie prodotte dal neoliberismo, ancora più vivo il bisogno di comunismo e la responsabilità di non arrenderci. Ecco allora la necessità di una riflessione profonda, di una elaborazione collettiva al tempo stesso autocritica e propositiva, sul nodo della nostra efficacia nel produrre una modifica dei rapporti di forza, un cambiamento. Alla generosità di questa nostra comunità politica, alla passione di tante compagne e tanti compagni, dobbiamo lo sforzo di una proposta che restituisca senso all'agire politico e metta le basi per un profondo rinnovamento del Partito e dei suoi gruppi dirigenti. Qui si colloca la sfida della rifondazione comunista, della elaborazione di un pensiero dell'alternativa in grado di confliggere con questo capitalismo, con le sue attuali forme di sfruttamento e dominio. Il nostro partito ha una risorsa preziosa che, nonostante le sconfitte e gli abbandoni, è la nostra vera ricchezza. È quella rappresentata da decine di migliaia di compagne e compagne, moltissimi/e dei /delle quali interne/i a movimenti e realtà di lotta. Su questo corpo di militanti non si possono più sperimentare lotte intestine e congressi basati sullo scontro muscolare tra gruppi dirigenti, correnti e personalismi. I/le sottoscrittori/trici di questo documento si impegnano solennemente ad evitare che questo nostro congresso straordinario si trasformi in una conta interna, in emarginazione di compagni e compagne, in ricerca di capri espiatori sui quali scaricare le responsabilità di tutto il gruppo dirigente. Ci impegniamo ad un dibattito libero, non ingabbiato da appartenenze di tendenze o correnti, consapevoli della necessità di cominciare da questo punto l’innovazione del partito.

1 La crisi capitalista e il socialismo del XXI secolo

Rana Plaza è il nome del palazzo crollato su se stesso a Dhaka, nell’aprile del 2013. Oltre mille morti, la più grande strage di lavoratori/trici di sempre. Lavoravano per meno di trenta euro al mese. Non producevano merci per i mercati del terzo mondo, ma per i grandi marchi della moda mondiale, inclusi gruppi italiani. Questo è oggi il capitalismo, la sua faccia reale, nascosta dalla pubblicità. Questa è la delocalizzazione produttiva e la libertà di sfruttamento derivante dal processo di globalizzazione capitalista. Nel mezzo della più grande crisi capitalista dal ‘29 in poi, e nella “vecchia” Europa, si continua a morire nei luoghi di lavoro, ma anche di non lavoro e precarietà. In Grecia come in Italia, aumentano i suicidi dovuti a cause economiche. Crescono disoccupazione e povertà, infelicità e depressione. Sono gli effetti collaterali dell’austerità, delle ricette imposte dalla Trojka europea, che autorizzano i Greci a consumare merci scadute per non morire di fame, pur di continuare a pagare gli interessi sul debito alle banche e agli speculatori della finanza internazionale. Sull’altare del capitalismo-casinò, in Europa si sta pezzo per pezzo smontando il sistema di welfare e di civiltà costruito dopo la seconda guerra mondiale. Eppure l’umanità, per la prima volta nella sua storia, sarebbe nella condizione di poter uscire dallo stato di necessità. Lo sviluppo della scienza, della tecnica, della produttività del lavoro, ci consegnano una realtà in cui sarebbe possibile affrontare positivamente i principali problemi degli uomini e delle donne del pianeta in termini di diritto universale all’alimentazione, all’abitare, alla salute e all’istruzione, al lavoro. Il diritto di tutti e tutte a poter vivere liberi dal bisogno e dignitosamente. Il sistema capitalista non è però in grado di realizzare questo passaggio. La crisi non è che il manifestarsi del carattere regressivo dei rapporti sociali capitalistici, che determinano una gabbia che impedisce al genere umano di uscire dalla condizione di schiavitù dal bisogno. L’enorme ricchezza sociale, invece che essere utilizzata per il soddisfacimento dei bisogni dell’umanità, è imprigionata in relazioni sociali basate sulla ricerca del massimo profitto a breve. Assistiamo così a inedite diseguaglianze sociali, alla distruzione crescente della natura, alla tendenza permanente alla guerra. Negli stessi paesi occidentali assistiamo ad una regressione della civiltà, con la messa in discussione della stessa democrazia, del welfare, del diritto al lavoro e nel lavoro, con l’aumento dell’emarginazione sociale e delle povertà. La crisi non è quindi un incidente di percorso, ma è il frutto del pieno dispiegarsi della vittoria del capitale su scala globale. Contro questa regressione sociale vi sono vari movimenti di lotta, che sono emersi e cresciuti, anche se la consapevolezza del carattere regressivo del capitale è oggi assai diversificata. In queste contraddizioni si ripropone l’attualità del marxismo al fine di spiegare i meccanismi strutturali del sistema capitalistico che sono alla base della crisi, di interpretarne le cause e indicare possibili alternative. Parimenti il comunismo acquista piena attualità, perché solo la fuoriuscita dai rapporti sociali capitalistici può evitare la barbarie sociale, la regressione dell’umanità e la devastazione dell’ambiente. Per questo siamo per la rifondazione comunista. Perché vogliamo apprendere dal fallimento dei primi tentativi di fuoriuscita dal capitalismo, per continuare nella lotta per una società di libere/i e di eguali, che superi il patriarcato e attui il pieno rispetto della natura. Chiamiamo questo nostro rinnovato progetto di trasformazione sociale Socialismo del XXI secolo. L’egemonia neoliberista e del pensiero unico ha fondato la sua forza anche sul progressivo presentare qualsiasi scelta di carattere politico, sociale ed economica come neutrale, di natura essenzialmente tecnica e senza alternative. Non è un caso che le forze apparentemente antisistemiche ne riprendano il tema di fondo, individuando la soluzione alla crisi attraverso la sostituzione della “politica corrotta” con indistinte capacità tecniche fondate sui curriculum e sulle competenze. È invece la centralità data al mercato, la cessione della sovranità popolare ai suoi presunti meccanismi equilibratori e neutri che va messa in discussione, riportando al centro la questione della giustizia sociale, della piena realizzazione del diritto di tutti gli esseri umani alla libertà, alla felicità e all’uguaglianza. La necessità quindi di porre la tecnica e le grandi capacità scientifiche al servizio del benessere collettivo e non solo del profitto. È il capitalismo il sistema da cambiare, non semplicemente i “suoi procuratori”. Un sistema, quello capitalista, intrinsecamente instabile e portato alla crisi, alla crescita delle disuguaglianze e alla guerra: alla contraddizione insanabile fra capitale e lavoro, si connette la contraddizione di genere e quella tra capitale e natura. In questo senso, l’attualità della proposta del socialismo del XXI secolo ricomprende la lotta al patriarcato e la questione ecologica e ambientale. Senza mettere in discussione i rapporti sociali e di riproduzione alla base dell’accumulazione capitalista non è possibile immaginare una riconversione ecologica della produzione e dell’economia, un processo di demercificazione che liberi l’umanità dall’alienazione e dallo sfruttamento. Affrontiamo questa battaglia per il Socialismo nel XXI secolo nella piena consapevolezza della nostra debolezza e della profondissima regressione sociale, culturale e politica che caratterizza l’Italia di oggi. La consapevolezza della nostra debolezza è però per noi motivo di sprone e non di annichilimento. Siamo indeboliti ma non ci siamo arresi. Con la crisi si è aperta una fase nuova, e noi riteniamo di essere in grado di indicare la strada attraverso cui uscirne. Per questo, nella consapevolezza dei nostri limiti, ma anche che nulla d’irreversibile è accaduto, vogliamo provare e riprovare, per giocare da protagonisti la partita dell’uscita dalla crisi. Una partita che è aperta ai drammatici esiti della barbarie come a quelli - per cui ci battiamo - del socialismo. Il rilancio del Partito della Rifondazione Comunista, la costruzione di una sinistra anticapitalista di popolo e la definizione di un percorso di uscita dalla crisi che si faccia movimento di massa, sono quindi i tratti fondamentali del nostro progetto politico. Un progetto politico chiaramente alternativo alle varie proposte di centro destra e centro sinistra di gestione della crisi nel recinto delle politiche neoliberiste. Un progetto politico per cui val la pena spendere la propria esistenza.

2 La crisi, la sua natura e i suoi effetti

“La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione”.
(K. Marx e F. Engels).

Il contesto in cui operiamo è quello della crisi del capitalismo, cioè dell’impossibilità del capitale di valorizzare se stesso compiutamente. Si tratta di un fatto di portata storica. La globalizzazione neoliberista ha rappresentato la reazione capitalistica al ciclo di lotte del movimento operaio negli anni ‘70, alla sua incapacità di dar luogo a una transizione fuori dal capitalismo. Questa reazione, definibile come rivoluzione restauratrice, ha imposto, negli ultimi due decenni del secolo scorso, anche a seguito dei cambiamenti geopolitici conseguenza del crollo del sistema sovietico, la piena ripresa del comando sulla forza lavoro da parte del capitale. Per “globalizzazione capitalistica e neoliberista” noi intendiamo un enorme processo di finanziarizzazione dell’economia, realizzato attraverso una crescita imperiosa del capitale finanziario e delle sue operazioni, permesse dalla progressiva cancellazione delle regole e dei vincoli vigenti nella fase precedente, sia negli scambi monetari e nella libertà di movimento dei capitali, sia relative alla natura delle banche e alla rigida separazione del risparmio dalle operazioni speculative. Una progressiva liberalizzazione del commercio internazionale e una conseguente ristrutturazione della produzione su scala globale, che hanno prodotto una crescita esponenziale delle società multinazionali e un’estrema concentrazione di capitali in un numero sempre più ristretto di esse. Parallelamente si sono affermati centri decisionali sovranazionali, direttamente gestiti dal personale del capitale finanziario e delle società multinazionali e da organizzazioni intergovernative, come il Wto e l’Ocse, esterne al sistema delle agenzie delle Nazioni Unite. In altre parole, hanno rovesciato il sistema scaturito dalla crisi del ‘29 e dalla seconda guerra mondiale, che prevedeva esplicitamente di impedire che la pura logica del mercato producesse una competizione esasperata e squilibri forieri di guerre, oltre che la crescita infinita della forbice tra ricchi e poveri fra le regioni mondiali, fra gli stati e all’interno degli stati, e dalle limitazioni sulle libertà di movimento dei capitali, siamo passati al dominio assoluto del mercato su tutto. La globalizzazione neoliberista ha visto ripetersi negli anni varie crisi finanziarie, ogni volta più vaste e profonde, fino all’esplosione della crisi sistemica nel 2007/2008, che è crisi dell’economia reale, generata dalla sovrapproduzione e della caduta tendenziale del saggio di profitto e dalla conseguente abnorme crescita della speculazione finanziaria. L’origine della crisi risiede nella piena vittoria del capitale nel corso degli ultimi decenni: da un lato vi è stata una crescita della massa salariale assai più lenta della crescita dei profitti, con una significativa riduzione dei salari reali – diretti ed indiretti - nei paesi occidentali. Questo ha determinato una crescita dei consumi assai più lenta della crescita della capacità produttiva e una vera e propria contrazione dei consumi nei paesi occidentali. Dall’altra parte, la speculazione finanziaria e il credito al consumo – che hanno rappresentato una prima risposta al problema della riduzione della domanda solvibile causata dai tagli salariali – hanno dato vita ad un sistema instabile, con la produzione di bolle speculative che sono state all’origine dell’innescarsi della crisi nel 2007/2008. La risposta alla crisi da parte delle classi dominanti è stata variegata a seconda dei paesi e delle aree geopolitiche, ma è riassumibile complessivamente nell’enorme aumento della concorrenza internazionale in un quadro di economie orientate all’esportazione. La risposta alla crisi è stata quindi un’accentuazione delle politiche precedenti e che alla crisi avevano portato. In particolare occorre segnalare come questa accresciuta competizione internazionale abbia portato contemporaneamente all’aumento degli intrecci e dell’interdipendenza finanziaria (come è dimostrato dalla natura sempre più globale delle crisi), delle contraddizioni e dei contenziosi economici tra le grandi aree. Con l’ultima crisi e con l’aumento della concorrenza mondiale è progressivamente entrata in crisi la globalizzazione capitalista. È sempre più evidente un aumento delle contraddizioni tra diverse aree geopolitiche, e la crescita dei Brics costituisce un significativo fattore di ridefinizione degli equilibri mondiali, oltre il segno di uno spostamento di equilibri economico-politici di portata storica, da Occidente a Oriente. Così come è venuta alla luce una contraddizione tra Paesi ed aree dove si concentrano capitali e sedi decisionali sottrattesi ad ogni sovranità popolare e paesi ed aree nei quali controllo pubblico delle risorse naturali, mercato interno, riduzione delle diseguaglianze e sovranità tornano ad essere elementi decisivi. Tutto ciò è ben visibile nei mancati accordi, in sede Wto, di liberalizzazione totale nei settori dell’acqua, della formazione e della sanità, nella nascita di accordi intergovernativi opposti al dominio capitalistico (come l’Alba). Se larga parte dei governi occidentali ristrutturano i propri territori e modelli sociali secondo i meri interessi del mercato finanziario, nell’esperienza latinoamericana siamo invece in presenza di governi progressisti che tentano di sviluppare i mercati interni e di promuovere, pur in condizioni estremamente difficili e non senza contraddizioni, una drastica riduzione delle diseguaglianze, un autentico controllo delle politiche monetarie, economiche e delle materie prime e, tendenzialmente, un proprio coordinamento. Sono le economie dove l’intervento pubblico in economia non è stato espropriato dai mercati finanziari, infatti, ad aver subito minori effetti recessivi e ad aver in questi anni continuato a sostenere la domanda mondiale, riducendo in parte gli effetti della crisi.

3 La crisi e la tendenza alla guerra dell’imperialismo

La crisi della globalizzazione neoliberista si coniuga con la crisi del dominio unipolare degli Usa. Il ciclo iniziato con la caduta del muro di Berlino è entrato definitivamente in crisi con l’impossibilità statunitense di gestire in modo unilaterale la crisi siriana. Siamo oramai di fronte ad un mondo multipolare che si ristruttura per aree d’influenza geopolitica. In questo contesto si può meglio comprendere sia la volontà di stipulare un nuovo trattato di liberalizzazione del commercio bilaterale fra Usa ed Ue (il Transatlantic Trade and Investment Partnership), sia tutta la politica militare occidentale dopo la caduta del muro di Berlino. Il rilancio e l’espansione della Nato come gendarme mondiale a scapito della funzione storicamente prevista per l’Onu, le ripetute guerre fino alla teorizzazione della “guerra permanente”, il piano di nuovo medio oriente e la rinnovata e rilanciata presenza militare Usa in Asia e America Latina, non sono altro che scelte politico militari, strategiche, egemoniche dei paesi più ricchi. I paesi imperialisti tentano in questo modo, in una crisi che per sua natura spontanea sta ridisegnando le gerarchie mondiali a loro danno, di mantenere inalterata sia la propria posizione privilegiata nella divisione internazionale del lavoro, sia il proprio dominio politico. È il caso delle guerre in Medio Oriente. Le crisi che stanno attraversando il mediterraneo nascono dal fallimento del modello neoliberista, dove si confrontano grandi movimenti popolari e il tentativo da parte statunitense e delle maggiori potenze europee, di ricostruzione di un equilibrio nel vicino oriente sotto loro tutela o attraverso i loro alleati regionali, come Qatar, Arabia Saudita e Turchia. In questi Paesi le forze dell’islam politico si sono affermate, in quanto attori ben organizzati e dotati di un’ampia base sociale, in modo particolare la fratellanza musulmana. Ma, come dimostra il caso egiziano, si tratta di situazioni tutt’altro che stabilizzate, in cui gli scontri di potere in atto non risolvono il tema di fondo di un’alternativa al modello neoliberista che ha creato le condizioni per l’esplosione sociale alla base delle rivolte. Le forze progressiste e di sinistra, che hanno giocato un importante ruolo iniziale nei movimenti, si trovano ora strette tra la reazione dei vecchi regimi e la volontà di affermare un nuovo modello autoritario e settario da parte delle forze islamiste. È quindi quanto mai necessario rafforzare la cooperazione con queste realtà. Gli sconvolgimenti in atto non sono di breve durata, né destinati ad una facile soluzione. In questo quadro di enorme instabilità, la crisi della globalizzazione capitalista porta a un ritorno della politica di potenza, e alla guerra come pericolo sempre più concreto. È il caso delle ultime avventure belliciste, come la Libia e la Siria, dove riemergono, accanto alla potenza statunitense, le pulsioni neocoloniali di paesi come Francia e Gran Bretagna, enfatizzando l’inesistenza di qualsiasi posizione europea. La lotta per la pace, contro la guerra e l’imperialismo è per questo un elemento decisivo e fondante la nostra azione e la nostra identità.

4 L’Europa da cambiare

“L'esito delle elezioni italiane, e altri fattori come la spinta francese a una monetizzazione del debito da parte della Bce, non hanno alcun impatto sull'unità di intenti dell'Europa verso le riforme. Molti dei processi di risanamento continueranno ad andare avanti con il pilota automatico”. (Mario Draghi, presidente della Bce).
In questo contesto di crisi della globalizzazione neoliberista, in Europa si manifestano compiutamente le dinamiche peggiori su tutti i piani. L’Unione Europea – nel contesto dei trattati di Maastricht e Lisbona - ha consapevolmente scelto di trasformare la crisi della speculazione finanziaria privata in una crisi dei debiti pubblici. Questa scelta ha permesso di costruire un’offensiva senza precedenti contro il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, lo stato sociale e la democrazia. L’offensiva dell’Unione Europea – condotta in modo bipartisan – non mette in discussione solo le conquiste degli anni ’70, ma l’intero impianto democratico costruito dopo la seconda guerra mondiale, e le sue costituzioni antifasciste, obiettivo fra l’altro dichiarato apertamente nei documenti degli analisti di una delle potenti banche d’affari Usa, Jp Morgan. Questa scelta vede il ruolo guida del governo e del capitale tedesco e sta producendo – in un contesto di generale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro – un drastico aggravamento della crisi e una divaricazione strutturale delle economie europee, con una centralizzazione dei capitali e la produzione di una profondissima frattura sociale all’interno dei singoli paesi e tra i paesi europei. Sul piano internazionale questa linea di estremismo neoliberista e rigorista si sposa (con isolati distinguo) con una rinnovata sudditanza nei confronti degli Usa sia sul piano politico, che sul piano militare. L’Unione Europea non ha giocato alcun ruolo in nessuna delle crisi che vi sono state e non è in grado di svolgere alcun ruolo unitario, divisa com’è tra interessi nazionali contrapposti sul piano economico e geopolitico. Le parole di Mario Draghi sono la rappresentazione concreta di cosa è oggi l’Europa e di quali sono i suoi meccanismi reali di governo. Il punto fondamentale di analisi che ne consegue è che non esiste alcuna possibilità di uscita dalla crisi all’interno delle politiche attuate a livello europeo e che queste politiche sono diretta conseguenza dei trattati che regolano il funzionamento dell’Unione Europea. L’Unione Europea così com’è stata costruita è strutturalmente un’Europa neoliberista a trazione tedesca, che sta distruggendo il livello di civiltà conquistato nel secondo dopoguerra ed è concreta la possibilità che questa gestione della crisi la porti ad implodere e disgregarsi. Allo stato attuale, senza metterne in discussione le fondamenta, ovvero i Trattati vigenti e ruolo della Bce, il patto di stabilità e crescita e il Fiscal compact, è inesistente la possibilità di modificare dall’interno l’Unione Europea, puntando sull’ipotetica costruzione di una “Europa politica”, come vengono proponendo il Pd e la socialdemocrazia europea. Il sistema di governance europea esiste, si fonda sul dogma monetarista, e non prevede democrazia nelle scelte di politica economica ma, appunto, piloti automatici. Questa constatazione, fermo restando il giusto intento, che qui ribadiamo, di conseguire una dimensione europea del conflitto di classe e del processo di trasformazione, mette però in discussione il punto di analisi che ci aveva caratterizzato e che individuava nell’Unione europea uno spazio aperto alla possibilità di determinare politiche di fuoriuscita dal neoliberismo. Fu giusto e fummo gli unici a opporsi risolutamente al Trattato di Maastricht, ai suoi parametri e criteri chiaramente ispirati da una concezione neoliberista e monetarista dell’economia, del ruolo degli stati rispetto ad essa, e fu giusto indicare la natura a-democratica e apertamente tecnocratica del processo di unificazione europea. Per le stesse ragioni fu giusto opporsi al Trattato costituzionale europeo e a quello di Lisbona poi. Fu sbagliato, invece, essere favorevoli alla moneta unica, in quanto ci illudemmo che questa potesse aprire, insieme allo sviluppo delle lotte su scala europea, un reale processo di democratizzazione dell’Ue. Con ogni evidenza il processo di unità europea è invece diventato sempre più tecnocratico. Le lotte di resistenza hanno ripiegato sempre più nella dimensione locale. Il profilo dell’Unione Europea nella globalizzazione si è caratterizzato come quello più neoliberista in assoluto, sia nelle relazioni economiche con altre regioni mondiali, sia per le posizioni assunte nelle sedi internazionali. La democratizzazione non c’è stata. Al contrario, con un processo che ha aggirato le uniche espressioni democratiche e popolari che si erano opposte (i referendum francese e olandese), alla fine è stato varato un Trattato avente natura costituzionale, sovrastante le costituzioni nazionali, di stampo ferocemente neoliberista. Sono stati inoltre creati organismi tecnocratici, come Europol, totalmente incontrollati da qualsiasi istanza democratica, e si è potuto vedere come gli Accordi di Shengen contenevano clausole che permettono ai singoli stati di derogare a loro piacimento, in materia di libera circolazione dei cittadini, su due punti fondamentali come l’ordine pubblico e l’immigrazione. Come si può ben vedere oggi, nel pieno della crisi, le istituzioni nate collateralmente alla moneta unica, come la Bce, e i poteri nuovi attribuiti al Consiglio e alla Commissione, hanno ulteriormente espropriato la sovranità popolare e democratica di numerosi paesi, senza che ci sia l’ombra della costruzione di una sovranità democratica e popolare sovranazionale. Il punto politico conseguente è che quindi serve una rottura di questa Unione Europea come condizione per uscire dalla crisi economica e di civiltà e per aprire un percorso di pace, giustizia sociale e democrazia. Il programma di austerità imposto alla Grecia e a tutti i paesi in crisi sta producendo una vera e propria catastrofe umanitaria. Il caso greco non è che la punta dell’iceberg, il caso estremo di una terapia shock imposta dalla Trojka con il pretesto del debito, ma il cui obiettivo di fondo è l’attacco ai salari e alle condizioni di vita dei/delle lavoratrici/tori di tutte le periferie europee. Non si tratta di ripiegare su un terreno nazionale, ma di comprendere come sia decisiva, nella lotta contro l’attacco in corso alle condizioni di vita delle masse popolari, la riconquista di un’effettiva sovranità popolare, espropriata dall’oggettivazione di trattati che istituzionalizzano un solo ed unico modello economico. Si tratta di una battaglia comune con le altre forze di sinistra e progressiste europee, della Sinistra Europea e del Gue, e con i movimenti che crescono su scala continentale. Per costruire quest’altra Europa, dei popoli, della giustizia sociale e democratica, va sconfitta in primis quella di Maastricht e Lisbona.

5 Disobbedire all’Unione Europea

La strada che noi individuiamo per combattere l’Europa dell’austerità e neoliberista è quella della disobbedienza unilaterale ai trattati, riguadagnando elementi di sovranità nazionale che permettano di modificare le politiche economiche qui ed ora e di rimettere in discussione i trattati vigenti. La disobbedienza ai trattati è anche l’unica strada, unitamente alla costruzione di coalizioni sociali e fra paesi del sud, per obbligare le classi dirigenti dei paesi come la Germania – che da questa situazione stanno traendo forte profitto – a ricontrattare complessivamente il funzionamento dell’Europa. La disobbedienza attiva e unilaterale permette nell’immediato di ricostruire margini di sovranità sulle scelte economiche e monetarie e, nel contempo, apre una possibile strada per una modifica radicale degli attuali assetti dell’Unione Europea. Occorre quindi superare ogni mistica dell’Europa perché questa Europa non è un bene comune: questa Europa deve essere scardinata a partire dai trattati che ne regolano il funzionamento.
Trattati che con l’approvazione del Fiscal compact, del Two pack e del Mes, hanno accentuato il carattere antidemocratico dell’integrazione europea e la subordinazione delle sue istituzioni ai dogmi del neoliberismo e del dominio del profitto e del mercato sulla società, azzerando qualsiasi residua possibilità di politiche economiche democratiche o redistributive e la sovranità monetaria ed economica degli stati e dei popoli. La rifondazione dell’Europa passa per la loro radicale messa in discussione e per la sconfitta della grande coalizione fra socialisti e popolari europei che è stata, e continua ad essere, la base politica del consenso bipartizan alla sua natura neoliberista. Rompere con questa Ue non significa isolarsi ma al contrario porre l’Italia in prima linea nella costruzione di un sistema di alleanze e relazioni internazionali che guardi in primis all’area euromediterranea, attraverso la costruzione di un’alleanza fra i paesi oggi periferici che più di tutti subiscono le conseguenze della crisi e della sua gestione fondata sull’austerità e sul modello neoliberista e che guardi anche alle economie emergenti del pianeta. Rompere con questa Ue non significa un ritorno ad un terreno esclusivamente nazionale della lotta politica. Tutt’altro, il lavoro di costruzione di reti sociali e politiche, di un fronte sociale e politico contro l’austerità e la Bce, deve essere collocato anche sul terreno europeo, proseguendo e intensificando il lavoro in questa direzione con le forze della Sinistra Europea. Nel caso non si determinasse una messa in discussione radicale di questa Europa è del tutto evidente che le diseguaglianze sono destinate ad allargarsi, portando alla sua disgregazione. Vi è la possibilità che le contraddizioni insanabili di questo modello di integrazione portino alla rottura dell’Unione Europea e alla fine della moneta unica. In questo caso è evidente che esistono almeno due modi per affrontare una simile evenienza. Uno di destra, come vagheggiato dalla nuova destra tedesca, l’altro di sinistra, a difesa delle lavoratrici e dei lavoratori e dell’occupazione, dello stato sociale e dei beni comuni, ed è questa quella per cui dovremmo essere pronti, con misure che salvaguardino il potere d’acquisto dei salari e che introducano un controllo sul movimento di capitali.

6 La crisi e l’Italia

Dentro il quadro generale della crisi sistemica che stiamo vivendo, la situazione del nostro paese è particolarmente grave. Le politiche neoliberiste attuate nel corso della seconda repubblica hanno aggravato le debolezze strutturali del sistema economico e produttivo italiano, rendendolo sempre più marginale nel contesto europeo, e hanno accentuato le disuguaglianze sociali e territoriali: la crisi economica è diventata così una crisi sociale e morale, che sgretola ogni forma di solidarietà.
L’Italia ha la più bassa mobilità sociale d’Europa, unita a una crescente ed insostenibile crescita delle disuguaglianze sociali. Record italiano è quello della disoccupazione giovanile: aumentano i giovani che non studiano e non lavorano, mentre i vari “pacchetti precarizzazione” varati nell’ultimo decennio, come la Legge 30 e le riforme Fornero del lavoro e delle pensioni, hanno destinato ormai più generazioni alla precarietà e alla assenza di diritti. La gerarchizzazione prodotta dalle politiche neoliberiste ha ulteriormente aggravato il divario tra Nord e Sud di Italia, riattivando un nuovo flusso emigratorio, spesso di giovani altamente qualificati, che fuggono dalla disoccupazione. La “questione meridionale” è stata nuovamente ricondotta nelle retoriche del ritardo e della lotta alla criminalità solo sul profilo securitario, mentre contemporaneamente i tagli a istruzione e sanità avevano effetti nefasti soprattutto nelle regioni del Sud e delle isole, le aree industriali subivano un’ulteriore contrazione e le organizzazioni criminali e le ecomafie accrescevano il loro controllo sul territorio. In questo contesto, la Sardegna vive un impoverimento neocoloniale costituito da un intreccio perverso di desertificazione industriale, svuotamento delle zone interne e fortissima speculazione sulle aree costiere. La crisi che viviamo ha i caratteri della desertificazione produttiva, dell’impoverimento di fasce sempre più larghe di popolazione, di infelicità che si consuma in un aumento diffuso del ricorso agli psicofarmaci così come nelle nuove dipendenze da gioco d’azzardo, ormai terza industria nazionale per fatturato. Tutti gli indicatori macroeconomici indicano il segno del declino. Una disoccupazione strutturale crescente, un crollo degli investimenti e della capacità produttiva, e uno spostamento immane di ricchezza dal lavoro alla rendita e alla speculazione, segno inequivocabile del carattere di classe della restaurazione in corso. In questo contesto, l’aggravarsi e il moltiplicarsi dei casi di femminicidio, la diffusa violenza maschile, fisica, materiale e simbolica, sul corpo delle donne, sono il segno di una crisi del maschile che ancora non sa porsi in relazione con la libertà femminile, che si intreccia, nella crisi economica, con la perdita di ruolo del capofamiglia. A questo il governo risponde con una logica securitaria, che mischia indecentemente il problema del femminicidio con la repressione del movimento. La degenerazione del rapporto tra sesso, potere e politica ha connotato profondamente il senso comune berlusconiano e l’universo della comunicazione politica continua a essere imbevuto dell’intreccio tra retorica familista e doppia morale, che ancora impedisce una legge sulle unioni civili così come una legge significativa sull’omofobia e la transfobia.

7 Monti e Letta governi costituenti

In questo contesto di crisi organica della seconda repubblica, i governi Monti e Letta, imposti sotto la tutela del Presidente Napolitano, segnano un vero e proprio salto di qualità nella loro caratteristica di governi costituenti.
Il governo Monti, facendo leva sulla paura, ha applicato in sintonia con la Merkel e la Bce politiche drasticamente recessive, ha firmato il Fiscal Compact, introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione e ha prodotto uno scardinamento del welfare, del sistema pensionistico e dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori con la manomissione dell’articolo 18. Il governo Letta da parte sua, giocando la carta della rassicurazione, sta procedendo alla manomissione della Costituzione e a un gigantesco piano di privatizzazioni. Il combinato disposto dell’azione di questi due governi è il tentativo di attuare un ridisegno complessivo dell’Italia che viene giustificato dall’emergenza economica e dalla necessità di rispettare i vincoli europei: meno democrazia, meno welfare, precarizzazione integrale del lavoro e bassi salari, puntando a chiudere definitivamente il ciclo politico e sociale aperto dalla lotta partigiana e culminato nelle lotte degli anni ’70.
Da questo punto di vista i governi Monti e Letta, lungi dall’essere una parentesi, sono l’inveramento della Seconda Repubblica e del disegno della P2, sono costituenti di una nuova fase della storia d’Italia. L’introduzione del pareggio di bilancio prima, e il tentativo di riscrittura della Costituzione in senso presidenzialistico ora, sono il segno dell’attrito tra la nostra Costituzione e l’assetto neoautoritario di questa Europa. Pd e Pdl hanno scelto di stare dalla parte di quest’ultimo: il bipolarismo tra simili e poi il governo delle larghe intese stanno cercando di rendere irreversibile la costituzionalizzazione del neoliberismo.
Quella che stiamo vivendo è quindi una rivoluzione conservatrice contro gli assetti democratici e sociali usciti dalla lotta di Liberazione, un’uscita da destra dalla seconda repubblica. Di questo cambio di regime sono responsabili politicamente i partiti che sostengono i governi di larghe intese e quindi ne è pienamente responsabile anche il PD. Questo determina, pur nelle mille contraddizioni che lo attraversano, un cambio di natura del Partito Democratico che, lungi dal subire questa rivoluzione conservatrice, ne è protagonista indiscusso. La candidatura di Renzi alla leadership del partito è l’ulteriore dimostrazione di questo cambio di natura del PD che, in forme diverse, segue il percorso delineato da Craxi in Italia o Blair in Gran Bretagna, e che poco ha a che vedere con la sinistra per come l’abbiamo conosciuta nel nostro paese. Purtroppo, la scelta del gruppo dirigente di Sel di mantenere l’alleanza di centrosinistra, anche nel caso di una ulteriore svolta moderata e renziana del Pd e allo stesso tempo di collocazione nel Partito Socialista Europeo, è una scelta di compatibilità con il bipolarismo e con l’attuale assetto europeo, in contrasto con la necessità della costruzione di una sinistra di alternativa e autonoma dal centrosinistra.
In questo contesto di uscita da destra dalla seconda repubblica, in cui si fa leva sulle devastazioni prodotte negli ultimi vent’anni per scardinare completamente il quadro costituzionale, il principale problema politico è che non si sia manifestato sino ad ora un movimento di lotta che contesti globalmente questo attacco.
L’egemonia che il pensiero neoliberista, diventato vero e proprio senso comune, esercita su vasti strati popolari, e l’assenza di autonomia dei sindacati confederali nei confronti del quadro politico, hanno determinato una forte passivizzazione e frammentazione sociale. L’assenza di un conflitto di classe dispiegato e generale è la maggiore e negativa differenza tra l’Italia e gli altri paesi europei e le meritorie lotte portate avanti in particolare dalla Fiom e dal sindacalismo di base non sono in grado da sole di invertire la tendenza. Inoltre, il governo attua la repressione come unica forma di relazione con le lotte e con il movimento: basti pensare alla criminalizzazione di cui sono oggetto le manifestazioni operaie e il movimento No Tav. La gestione autoritaria del conflitto è la forma con cui il governo si rapporta alla questione sociale.
Indubbiamente, il fatto che in questo ventennio il quadro politico sia stato occupato dallo scontro tra berlusconismo e antiberlusconismo è stato determinante per la cancellazione della questione sociale dal dibattito pubblico, e senza l’irruzione del conflitto sociale sulla scena pubblica sarà difficile riaprire lo spazio politico per una sinistra d’alternativa.
L’assenza di un conflitto generale retroagisce a sua volta negativamente sulle soggettività, producendo ripiegamento individuale e barbarie nei rapporti sociali, sempre più segnati dell’ideologia della competizione, alimentando così il senso d’impotenza. Qui si colloca una radice profonda della crisi della politica: l’esproprio di sovranità popolare a favore della governance contribuisce a produrre la percezione della politica come inutile a cambiare la vita delle persone. Questa è la vera radice della crisi della politica e del successo del grillismo. Non è un caso che proprio nel corso dell’esperienza del governo Monti, ossia nel contesto di una politica percepita come inutile perché ridotta ad eseguire i compiti dettati dalle agenzie del neoliberismo, il M5S abbia potuto trarre linfa da una diffusa esigenza di partecipazione e cambiamento: Grillo ha potuto indossare allora i panni di leader che rappresenta il senso comune. Nel contesto di una diffusa antipolitica e di una passivizzazione sociale che ha indebolito il pensiero critico e aggravato le fragilità della sinistra, ha potuto raccogliere consenso non su una lettura profonda della crisi, ma sul più facile terreno della insofferenza per i partiti e i costi della politica, rappresentati come causa di tutti i mali. Il M5S può così, ad esempio, strizzare l’occhio al razzismo dilagante, sintomo dell’imbarbarimento in cui rischiamo di precipitare, come dimostra la vicenda dello ius soli; e insieme può pretendere di presentarsi come forza antisistemica, nonostante il totale interclassismo che lo caratterizza e le forme populistiche e autoritarie assunte dalla leadership del movimento, che sono pienamente dentro il quadro della degenerazione delle forme della politica prodotte dal berlusconismo.
Dalla necessità di opporsi alla costituzionalizzazione del neoliberismo avvenuta su scala europea deriva la scelta strategica di lavorare in Italia alla costruzione di una sinistra alternativa al centrodestra e al centrosinistra. Questi, dopo aver introdotto il pareggio di bilancio, puntano a stravolgere ancor più in senso neoliberista la nostra Costituzione, che rappresenta una resistenza e un argine all’esproprio di sovranità. Al contrario di Italia Bene Comune, la coalizione tra Pd e Sel presentatasi alle scorse elezioni, che nel proprio programma indicava come “responsabilità” proprio il rispetto dei trattati, noi sentiamo la responsabilità politica di costruire una sinistra sociale e politica di massa in grado di riconquistare sovranità popolare per determinare un processo più ampio di democratizzazione istituzionale, nei luoghi di lavoro, nella gestione partecipata dei beni comuni, di lotta all’austerità e ai suoi trattati.

8 Le ragioni di una sconfitta

“I partiti politici sono il riflesso e la nomenclatura delle classi sociali. Essi sorgono, si sviluppano, si decompongono, si rinnovano, a seconda che i diversi strati delle classi sociali in lotta subiscono spostamenti di reale portata storica, vedono radicalmente mutate le loro condizioni di esistenza e di sviluppo”. (Antonio Gramsci).
Siamo quindi a un punto di passaggio assai rilevante nella vita della Repubblica e a questo appuntamento, che vede il venir al pettine di tutti i nodi cresciuti nel corso della lunga rivoluzione neoliberista – la crisi economica, la crisi dell’Unione Europea, la crisi della seconda repubblica – arriviamo in condizioni di gravi difficoltà.
Non si tratta solo dell’ultima sconfitta elettorale di Rivoluzione civile, ma della difficoltà e dell’impotenza ai limiti dell’irrilevanza del complesso della sinistra di alternativa in Italia e della crisi del movimento operaio. La sconfitta della sinistra è, infatti, interna a una crisi del movimento operaio che negli ultimi decenni ha subito sconfitte e progressivi arretramenti.
Va sottolineato il carattere italiano di questa crisi, perché non è un tratto comune di tutta la sinistra europea che – anzi – risulta essere in ripresa e in alcuni paesi – si pensi alla Grecia, alla Spagna, al Portogallo come all’Irlanda e alla Francia – in fase di vera e propria avanzata. Quando siamo stati determinanti per dar vita alla sinistra europea eravamo forti ed altri partiti erano in crisi: occorre capire come e perché in Italia oggi viviamo questa situazione.
Negli altri paesi europei inoltre, di fronte alle politiche di austerità varate dai governi, abbiamo avuto una forte reazione e mobilitazione sindacale e popolare, che in Italia non ha avuto corrispettivi. Il senso d’impotenza e di ripiegamento individuale, l’accettazione delle stangate senza riuscire a vedere una via efficace per cambiare sono i dati generali che caratterizzano questa sconfitta che non è solo politica, ma sociale e culturale.
Di fronte a questa sconfitta crediamo non bastino spiegazioni semplicistiche, che riconducono tutto all’incapacità dei gruppi dirigenti, alle loro divisioni o addirittura alle inimicizie personali. Pur non negando elementi e limiti soggettivi, queste narrazioni portano con sé una risposta semplificata, che non fa i conti con le ragioni di fondo della sconfitta e quindi non aiutano a comprenderla. Non abbiamo bisogno di capri espiatori, ma di individuare le ragioni di fondo della sconfitta per cercare una strada per invertire la tendenza.
Nel contesto di una rilettura autocritica delle nostre inadeguatezze, riteniamo quindi necessario analizzare più in profondità che cosa è successo in questi ultimi vent’anni, capire cosa è cambiato, dove abbiamo sbagliato e cosa occorre cambiare al fine di uscire da questa situazione di impotenza. Capire le ragioni della situazione attuale è decisivo per darci una prospettiva strategica che ci permetta di ridisegnare il profilo di una linea politica e di un nostro ruolo nel paese.
In primo luogo le ragioni di fondo delle nostre difficoltà sono da ricercarsi nei caratteri strutturali della seconda repubblica. Troppo spesso abbiamo continuato a fare politica come se ci trovassimo ancora nella prima repubblica, senza la chiara consapevolezza dei cambiamenti che sono intervenuti e che hanno modificato radicalmente il quadro in cui ci troviamo a fare politica.
Abbiamo sottovalutato l’impatto e gli effetti di lunga durata che hanno definito la seconda repubblica come territorio nemico, avverso ai comunisti, alla sinistra di alternativa ed al movimento operaio in generale. Nella maggior parte dei casi ci siamo opposti e abbiamo fatto battaglie difensive, che però abbiamo perso e che quindi hanno trasformato radicalmente la situazione in cui ci trovavamo a operare. In altri casi – come per la moneta unica – abbiamo sottovalutato l’impatto negativo che questa avrebbe avuto e abbiamo pensato di poter gestire da “sinistra” una scelta che era invece completamente inscritta nei trattati neoliberisti a cui pure ci siamo opposti.

a) La fine del sistema elettorale proporzionale e la nascita di un sistema elettorale bipolare, di una inedita spettacolarizzazione della politica e di un leaderismo esasperato prodotto dai mass media. La sinistra è nata e si è rafforzata in Italia nel contesto di un sistema proporzionale. Questo ha permesso la costruzione di saldi legami sociali, di un grande accumulo di forze. Il Pci è diventato un “paese nel paese”, per usare la formula di Pasolini, in quel contesto, in cui le lotte sociali, il sindacato e il Pci stesso hanno cambiato l’Italia dall’opposizione. Il sistema bipolare, nella sua semplificazione a gestione moderata ha continuamente posto la sinistra di alternativa nella condizione di dover scegliere se fare alleanze elettorali con la sinistra moderata e poi pagarne le conseguenze in termini di mancati risultati o se “rompere” e trovarsi accusata di favorire le destre. È proprio il bipolarismo alla base di tutte le scissioni che vi sono state a sinistra negli ultimi vent’anni ed è anche alla base della crisi di Rifondazione Comunista. Proprio la costruzione di un sistema politico di alternanza tra simili si è saldata ad una esasperazione dei toni del confronto politico ed a una sua teatralizzazione. La politica come costruzione sociale, come percorso di emancipazione collettiva, è stata sussunta in una delega progressiva allo schieramento e all’uomo della provvidenza.

b) La ratifica del trattato di Maastricht, la nascita della moneta unica, il pieno dispiegarsi delle politiche neoliberiste e la perdita di ogni sovranità sulle politiche economiche. Questi passaggi hanno progressivamente tolto potere al parlamento italiano e – nel regime dell’alternanza – reso “naturali” le politiche di austerità. In questo quadro è maturata una verticale crisi di fiducia nella politica che si nutre dell’osservazione che chiunque governi – sul piano delle politiche economiche e sociali – non cambia quasi nulla.

c) La degenerazione della funzione dei partiti e del sistema politico italiano a partire dagli anni ’80 (che pur Berlinguer aveva denunciato per tempo), lo scioglimento del Pci e il diffondersi dell’anticomunismo a livello di massa, hanno radicalmente modificato il rapporto tra la le masse popolari e la politica, in particolare a sinistra. L’inefficacia della politica e del sindacato nel contrastare il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro ha portato con sé una modifica radicale dell’organizzazione politica: da strutture di partecipazione democratica a comitati elettorali. Il presidenzialismo strisciante che è cominciato con l’elezione diretta dei sindaci ha chiuso il cerchio trasformando la contesa politica in un terreno di scontro sempre più teatralizzato dove alla durezza dello scontro corrisponde un’intercambiabilità dei contenuti.

d) La crisi del sindacato conflittuale e la nascita della concertazione. Gli accordi sulla concertazione hanno dato vita ad un cambio di pelle del sindacato confederale che – pur con tutte le differenze tra le diverse organizzazioni e i significativi elementi di controtendenza messi in campo in particolare dalla Fiom – ha progressivamente derivato il suo ruolo dal riconoscimento da parte del governo e della controparte che non dal sostegno dei lavoratori e delle lavoratrici. Questo ha logorato il rapporto tra lavoratori/trici e sindacato e posto le condizioni affinché i progressivi cedimenti dessero luogo a una sfiducia generalizzata, che si traduce in una seria difficoltà nella costruzione di conflitto sociale generale. I conflitti ci sono ma sono frammentati e non danno luogo a un movimento generale.

e) I processi di precarizzazione del mercato del lavoro che hanno integralmente cambiato la faccia del lavoro subordinato. Mentre il sindacato diventava concertativo, una parte sempre più estesa del mondo del lavoro – in particolare giovanile – usciva dall’area del lavoro tutelato. Su questo si è creata una vera e propria frattura sociale e generazionale che ha reso sempre più difficile l’unificazione del mondo del lavoro con effetti pesantissimi sulla capacità di mobilitazione e sul rapporto con la politica.

f) La colonizzazione dell’immaginario da parte delle televisioni commerciali che hanno cambiato la cultura politica del paese e il suo sistema di valori. La svalorizzazione del pubblico a favore del privato, l’assolutizzazione dell’individualismo proprietario a scapito di ogni visione collettiva e solidale, l’assolutizzazione dell’apparire a scapito dell’etica pubblica e individuale e oggi la riduzione della politica a scontro tra uomini della provvidenza sono diventati senso comune dell’Italia, il paese europeo che più ha subito i meccanismi dell’americanizzazione. Se si pensa che Striscia la notizia è il “telegiornale” più seguito da vent’anni, si capisce perché la crisi sociale possa dar luogo al successo di Grillo e non alla crescita del conflitto sociale e della sinistra.

Da questo contesto degenerativo del sistema politico italiano il Prc non è rimasto indenne ed ha subito, nonostante non abbia mai abbandonato la propria natura antagonista e di classe, gravi condizionamenti dovuti all’egemonia dominante.
Il leaderismo indotto dal sistema massmediatico non ha trovato le misure e gli anticorpi necessari ed ha finito con l’impregnare l’immagine pubblica del partito. L’individualismo imperante nella società è spesso penetrato nella vita del partito a tutti i livelli.
La crescente separazione d’istituzioni e politica dalla società ha prodotto un’oggettiva “internità” del Prc al sistema dei partiti fino a farlo apparire come unicamente interessato alla collocazione istituzionale.
Questi limiti ed errori hanno finito con l’oscurare la pur ricca pratica di lotta e sociale del partito fino a farla apparire come strumentale alla pura raccolta di consensi elettorali. Ed hanno, unitamente a concezioni sbagliate della vita interna del partito come il “governo di maggioranza”, contribuito a inquinare la positiva dialettica fra culture e posizioni diverse cristallizzandole in correnti separate, riducendo così spesso gli organismi dirigenti a tutti i livelli in luoghi di scontro e mediazione al ribasso, a scapito della capacità di sintesi.
Tutto ciò ha avuto un considerevole peso nella sopravalutazione dei rapporti di forza reali e in tutta la vicenda del secondo governo Prodi, nel congresso di Chianciano e nella presa e negli effetti della scissione che ne è scaturita.

9 Da Chianciano ad oggi

Collocare le nostre difficoltà nel contesto sopra descritto non significa eludere il tema degli errori compiuti o giustificare i nostri limiti. Crediamo, infatti, che vada fatto innanzitutto un bilancio critico dell’esperienza da Chianciano in poi.
Non avendo colto fino in fondo le modifiche del sistema politico e sociale non abbiamo proceduto con sufficiente determinazione alla ricostruzione dei legami sociali del partito così come non abbiamo costruito a sufficienza un punto di vista complessivamente alternativo a quello dominante.
In particolare, il lavoro di radicamento sociale del partito nei conflitti, la costruzione di esperienze di solidarietà, sono avvenuti a macchie di leopardo e non siamo riusciti a modificare significativamente l’immagine, il ruolo e il modo di funzionare del partito.
Complessivamente non siamo riusciti a realizzare il progetto che c’eravamo prefissi a partire dalla costruzione di un processo di aggregazione della sinistra che fosse credibile e che praticasse le parole d’ordine della svolta a sinistra. Le esperienze fatte in questo senso, anche perché non connesse sufficientemente al lavoro di organizzazione e mobilitazione sociale e culturale, hanno mostrato un tratto politicista che le ha portate al fallimento, e che hanno limitato l’azione di massa diretta del nostro partito.
Per anni abbiamo lavorato per la costruzione della Federazione della Sinistra (scelta confermata a Napoli con la sola eccezione delle minoranze e degli emendamenti), presentatasi in varie tornate elettorali, fino ad arrivare il 12 maggio 2012 alla manifestazione nazionale contro il governo Monti. Dopo quella manifestazione, invece di proseguire sulla strada della costruzione dell’opposizione al governo e quindi dell’autonoma presentazione della Federazione della Sinistra alle elezioni, il Pdci ha scelto di aprire una trattativa con il Pd finalizzata a una sua presentazione nel centrosinistra. Al fine di tenere unita la Federazione della Sinistra abbiamo proposto di dar vita ad un referendum tra gli iscritti, ma questa proposta è stata rifiutata, decretando il fallimento politico della Fds. A questo durissimo colpo che ha azzerato il lavoro di anni, abbiamo reagito proponendo – come deciso a larga maggioranza da vari Cpn – l’aggregazione di tutte le forze di opposizione a Monti che ritenevano opportuno presentarsi alle elezioni autonomamente dal centrosinistra. In questa direzione abbiamo partecipato al percorso di “Cambiare si può” e quando Ingroia ha annunciato la sua discesa in campo abbiamo tentato di far convergere tutte le forze interessate in quella aggregazione. Le forme in cui è stata costruita Rivoluzione Civile, in cui sono state fatte le liste, non sono state soddisfacenti, ma a quel punto la scelta era tra presentarsi da soli in forma testimoniale o stare dentro quel percorso di cui pure vedevamo progressivamente accentuarsi i limiti culturali e politici. Anche qui il gruppo dirigente a larghissima maggioranza ha deciso di proseguire con Rivoluzione Civile.
Il gruppo dirigente che ha diretto il partito in questi anni è quindi tutto in discussione. Non una parte di questo, ma tutto il gruppo dirigente che da Chianciano in poi ha condiviso la responsabilità di governo del partito e la linea politica sancita nei congressi e negli organismi dirigenti.
Occorre quindi capire dove si è sbagliato al fine di non ripetere gli errori. Noi riteniamo che il fallimento della Federazione della Sinistra prima e di Rivoluzione Civile poi abbiano comuni denominatori.
Da un lato, il carattere pattizio, verticista e centralizzato delle due aggregazioni, la totale assenza di un percorso di partecipazione democratica nelle scelte di questi due soggetti li ha resi poco interessanti per l’esterno e alla fine impermeabili alle più elementari domande di partecipazione che sono sorte nel contesto delle elezioni. Dall’altro, la mancata condivisione politica dell’analisi sulla natura del centrosinistra, del salto di paradigma effettuato con la nascita del governo Monti e la conseguente scelta strategica dell’autonomia dal centrosinistra. Rifondazione Comunista aveva scelto questa strada, mentre la Fds è implosa su questo e Rivoluzione Civile è nata senza aver risolto questo nodo. Solo la scelta del Pd di escludere qualsiasi tipo di alleanza ha portato gran parte dei componenti di Rivoluzione Civile a dar vita ad una lista autonoma. Questo, unito allo sganciamento di questi percorsi da qualsiasi riferimento sociale e di movimento, ha pesato nell’incapacità di proporre un coerente discorso di uscita dalla crisi che facesse i conti fino in fondo con le politiche neoliberiste.

10 Il nostro progetto

La migliore comprensione del contesto in cui ci troviamo ad operare quale condizione per fare i conti con le nostre insufficienze ed i nostri errori, ci porta a mettere al centro del congresso la necessità di una svolta, di ridefinire il senso di fondo del nostro progetto strategico, della nostra ragion d’essere come Partito della Rifondazione Comunista.
Il progetto strategico che noi proponiamo è quello dell’uscita dalla crisi e quindi della lotta per la costruzione del socialismo del XXI secolo. A tal fine decisivo è lo sviluppo della rifondazione comunista come processo di crescita delle forze anticapitaliste nel terzo millennio: la crisi non è frutto di scarsità ma dell’ingabbiamento della ricchezza sociale nei rapporti sociali capitalistici. La strada che noi individuiamo si basa principalmente sui seguenti elementi:

a) La redistribuzione del potere dall’alto in basso, intrecciando democrazia rappresentativa proporzionale, democrazia diretta, controllo operaio, gestione partecipata dei beni comuni, intervento pubblico in economia, piena sovranità del popolo sulla moneta. Questo richiede la radicale messa in discussione dell’Unione Europea e la piena difesa e attuazione della Costituzione repubblicana.

b) La redistribuzione del reddito dai ricchi ai poveri, dalla rendita e dal profitto al lavoro e ai diritti di cittadinanza. L’istituzione del reddito minimo garantito.

c) La redistribuzione del lavoro attraverso la radicale riduzione dell’orario di lavoro.

d) La riconversione ambientale e sociale dell’economia.

e) La costruzione di un’Europa dei popoli basata sul pieno impiego, sullo sviluppo dei diritti sociali e civili, su un modello di sviluppo basato sulla piena sostenibilità ambientale.
f) La messa in discussione del libero scambio assoluto e del Wto.

g) La costruzione di un sistema mondiale basato sulla cooperazione economica e sulla pace, per la chiusura delle basi straniere e il superamento della Nato.

11 L’attualità della rifondazione comunista

Io non ho fatto la scelta della politica. Io ho fatto la scelta della lotta per la realizzazione degli ideali comunisti. (Enrico Berlinguer).

Per realizzare questi obiettivi riteniamo necessario rilanciare il progetto della Rifondazione comunista. Costruire un pensiero forte della rifondazione comunista, capace di farsi visione del mondo e passione collettiva, implica la costruzione di nessi nella teoria, nelle pratiche, nel conflitto, nelle relazioni. Connettere l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro, con i processi di precarizzazione e sfruttamento dell’intera dimensione dell’umano, delle intere vite; connettere le persistenze e le trasformazioni capitalistiche con le persistenze e le trasformazioni patriarcali; connettere lo sfruttamento del lavoro con il processo di mercificazione e di recinzione del comune; leggere il volto neoautoritario e tendenzialmente totalitario di questo capitalismo nella espropriazione di sovranità e autodeterminazione. Dobbiamo, in sintesi, costruire una rifondazione comunista all’altezza dell’attuale struttura capitalistica e delle attuali forme di dominio.
Dobbiamo fare del partito davvero un «intellettuale collettivo», un luogo di elaborazione e formazione, in grado, come ha insegnato Gramsci, di «sentire» e «comprendere» la specificità della realtà sociale italiana: dobbiamo essere un partito «nazionale-popolare» per costruire la massa critica necessaria a trasformare la società italiana stessa.
Il nostro primo compito è a tornare a svelare che non c’è nulla di necessario nelle politiche neoliberiste, tornare ad «ampliare il fronte del possibile», come scrive Rosi Braidotti.
Se la radice profonda della nostra fragilità è nella frammentazione e nell’assenza di conflitto sociale, il nostro compito come partito è allora in primo luogo quello di lavorare alla costruzione di connessioni e soggettività politica. Non possiamo limitarci a evocare il conflitto capitale lavoro: dobbiamo lavorare a leggere e ricomporre la nuova composizione della classe. Non possiamo illuderci di poter rappresentare un blocco sociale: dobbiamo lavorare a costruirlo. Per porre il nodo del comunismo non solo in termini di maturità, ma di attualità e di orizzonte, per renderlo efficace politicamente e non come mera tendenza culturale o pura evocazione nel cedimento politicistico, dobbiamo fare della costruzione del conflitto il cuore della nostra iniziativa politica.
Dobbiamo quindi lavorare a connettere il lavoro subordinato sindacalizzato con le lotte delle lavoratrici e dei lavoratori precarie/i; unire la lotta per il diritto al lavoro con quella per un reddito minimo; quella di chi lotta per la gestione partecipata dei beni comuni con la resistenza allo smantellamento del pubblico; i movimenti per l’autodeterminazione delle donne con la costruzione di un nuovo welfare; connettere diritto al lavoro e diritto alla salute; diritti dei nativi coi diritti dei migranti; diritti sociali e diritti civili.
La rifondazione comunista implica anche la capacità di uscire dalla gerarchizzazione o dalla giustapposizione delle contraddizioni e di costruire una nuova connessione tra teoria della trasformazione e pratiche di liberazione. Non solo, dunque, la rottura radicale con lo stalinismo, che è un tratto acquisito e irreversibile della cultura politica di questo partito, ma l’elaborazione di un pensiero comunista con lo sguardo rivolto al futuro, e che abbia il nodo della libertà tra uguali, della piena autodeterminazione di donne e uomini a suo fondamento.
Essere comuniste e comunisti oggi, dunque, non è solo evocare un’identità rassicurante che può diventare alibi per scelte politiciste. Significa costruire materialmente oggi, come partito, lotta di classe e lotte di liberazione: non rinviare alla presa del potere una pratica del cambiamento.
Nella consapevolezza che per fare politica da comuniste e comuniste oggi occorre soprattutto fare società, ricostruire un tessuto di relazioni e solidarietà; che per riaprire uno spazio politico della sinistra, occorre lavorare in primo luogo alla riapertura di un conflitto sociale.
Qui è la nostra diversità comunista, politica e morale. Qui vive la scelta di divenire partito sociale, il senso della nostra impresa ancor più oggi nella straordinarietà di questa fase.
Per realizzare questi obiettivi riteniamo necessario rilanciare il Partito della Rifondazione Comunista:

a) In primo luogo perché riteniamo che il terreno della rifondazione comunista sia il terreno della prospettiva strategica. L’incapacità del capitalismo di andare oltre i propri limiti e il suo trasformare la ricchezza dell’umanità in povertà sociali, distruzione della natura e guerra ripropongono il tema del superamento del capitalismo, del comunismo. Così come il fallimento delle esperienze del socialismo reale ci propongono il tema della rifondazione comunista a partire dal rapporto tra libertà e giustizia sociale. Per questo riteniamo strategica la proposta della rifondazione comunista, due termini che si qualificano a vicenda. Non abbandono del comunismo e non arrocco nella riproduzione del peggio della storia del movimento operaio. Quindi un patrimonio “storico” di cultura ed elaborazione politica che è necessario per la costruzione dell’alternativa.

b) In secondo luogo, Rifondazione rappresenta la maggiore risorsa d’impegno politico, militanza e radicamento sociale della sinistra italiana. I compagni e le compagne di Rifondazione hanno mostrato negli anni una capacità di padroneggiare – pur con tutte le contraddizioni – i diversi livelli su cui si esprime l’iniziativa politica. Questo patrimonio di disponibilità, saperi e militanza, è indispensabile per costruire l’alternativa in Italia.

c) In terzo luogo, Rifondazione Comunista ha costruito nel corso degli anni un’internità al movimento anticapitalista mondiale, come abbiamo fatto in maniera fondativa a partire dal movimento altermondialista di Seattle e Genova, e le sue relazioni strette con tutti i governi, partiti ed organizzazioni sociali antagonisti. In particolare il suo contributo alla formazione del Partito della Sinistra Europea e alla promozione e mantenimento dell’unità di tutte le forze della sinistra nel gruppo parlamentare della Sinistra Unitaria Europea (Gue). Questa internità al movimento mondiale antiliberista e alla sinistra europea sono fattori decisivi per l’alternativa: rappresentano il livello a cui è possibile porsi il tema della lotta al capitale oggi.

d) In quarto luogo, un patrimonio di linea politica costruito in questi vent’anni: la consapevolezza della necessità di costruzione di una sinistra dotata di un proprio progetto culturale e politico autonomo, strategicamente alternativa al centro sinistra, con una linea di massa.
Tutti questi elementi sono a nostro parere indispensabili per costruire l’alternativa e per questo riteniamo più che mai necessario un deciso rilancio di Rifondazione Comunista e del suo progetto.

12 Il Piano del lavoro e per i beni comuni, per applicare e difendere la Costituzione

La svolta di cui abbiamo bisogno è prima di tutto nella capacità di ridare centralità alla costruzione del conflitto sociale. A tal fine al centro della nostra proposta politica c’è la proposta del Piano per il lavoro e per un’economia ambientale e sociale. Non esiste possibilità di uscire dalla condizione di emarginazione politica se non attraverso un duro e profondo lavoro di radicamento sociale del partito e per la costruzione di un movimento di massa contro l’austerità. Questo pone il problema dell’unificazione dei conflitti e dei soggetti sociali che stanno subendo la crisi. La lotta di classe in questi anni si è esercitata in un'unica direzione, da parte del capitale contro il lavoro. Questo ha significato un’offensiva che ha scardinato diritti, come l’articolo 18, e attaccato i diritti costituzionali, come nel caso della Fiat. Allo stesso tempo vi è stata un’enorme redistribuzione di ricchezza dal lavoro alla rendita, con una erosione costante e continuata dei salari e del loro potere d’acquisto. L’idea di recuperare competitività all’Italia puntando sulla riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto è stata la linea di politica economica realmente applicata, insieme alla precarizzazione di massa e alla distruzione del sistema contrattuale. Attraverso la retorica della flessibilità, si sono nel tempo applicate riforme che hanno balcanizzato il mercato del lavoro.
In Italia l’aumento dei contratti atipici a scapito di quelli a tempo indeterminato, con la crescita delle partite Iva e di un precariato diffuso, costituisce un elemento di divisione e indebolimento della possibilità stessa di agire il conflitto sociale così come lo avevamo conosciuto. Esiste una nuova generazione di lavoratrici e di lavoratori, che rimane sola nella crisi, senza tutele e senza riferimenti politici e sindacali, fatta di precarie/i della conoscenza, dei servizi, di finte partite Iva, di finte cooperative o di precari a vita della grande distribuzione, di migranti sotto il ricatto permanente di espulsione. Il blocco sociale di riferimento è oggi diviso da condizioni salariali e contrattuali balcanizzate, dalle esternalizzazioni di intere fasi della produzione, ed è composto anche dai cosiddetti lavoratori autonomi di seconda generazione e dalle piccole attività commerciali e imprenditoriali strozzate dalla crisi. Sul piano industriale l’offensiva padronale, a partire da quella della Fiat, insieme al ricatto occupazionale e alla minaccia di delocalizzazione, trova forti resistenze, a partire da quella della Fiom, ma in un quadro generale di progressiva de industrializzazione del paese.
Per questo occorre una proposta di programma in grado di riunificare ciò che la ristrutturazione capitalista ha diviso, enfatizzando presunti conflitti generazionali con il fine in realtà di rimuovere quello reale, quello di classe.
In questo senso, occorre intrecciare la battaglia per il lavoro e la piena occupazione, per la riduzione dell’orario di lavoro, con la battaglia per il reddito minimo garantito e per un salario minimo orario. Per rispondere a questa esigenza, il terreno su cui proponiamo di organizzare il lavoro politico del Partito è quello di declinare in termini concreti la strada per uscire dalla crisi e di operare per organizzare un movimento di massa in questa direzione.
La battaglia per l’occupazione sulla base di proposte concrete devono diventare il tratto distintivo della svolta di Rifondazione Comunista. Se il problema fondamentale che il paese vive oggi è una crisi priva di soluzioni, il compito delle comuniste e dei comunisti è quello di indicare uno sbocco positivo e di individuare gli strumenti per raggiungerlo.
Il Piano per il lavoro propone di attivare un forte intervento pubblico finalizzato alla piena occupazione e alla riconversione ambientale e sociale dell’attuale modello economico. È quindi una proposta per cambiare radicalmente il modello di sviluppo mettendo al centro il benessere sociale e non l’interesse delle banche e delle imprese. Individua nelle grandi ricchezze e nella rendita finanziaria la fonte principale delle risorse da reperire per creare occupazione. Individua i settori in cui investire per allargare il welfare e iniziare concretamente la riconversione ambientale delle produzioni. Individua nella riduzione dell’orario di lavoro attraverso l’abolizione della riforma Fornero sulle pensioni e il finanziamento pubblico della riduzione dell’orario di lavoro, uno snodo qualificante. Propone di dar vita ad un reddito minimo garantito per le/i disoccupati per impedire che l’assenza di lavoro produca povertà e disperazione. Definisce quindi una piattaforma di unificazione dei diversi soggetti colpiti dalla crisi.
Nella nostra proposta il Piano per il lavoro non deve essere una campagna propagandistica ma si deve articolare sui territori, diventando costruzione di vertenze che puntino a individuare obiettivi concreti e a riunificare i soggetti divisi dalla crisi: dai lavoratori delle fabbriche in crisi, ai giovani disoccupati e precari, dalle partite Iva al precariato cognitivo e quello dei servizi, al complesso delle figure colpite dall’austerità.
Deve diventare occasione per la costruzione di rapporti con il complesso delle organizzazioni sindacali e associative che sul territorio operano per costruire un movimento per il lavoro e la riconversione ambientale dell’economia, per valorizzare il territorio e le risorse che su di esso insistono a partire dall’agricoltura e dall’enorme patrimonio storico presente in Italia.
Deve diventare l’occasione per interloquire con il mondo della cultura e dell’intellettualità. Perché il tema dell’uscita dell’Italia dalla crisi è un grande tema culturale, non è solo una questione sociale. Questo è tanto più vero in una situazione in cui con la crescita della scolarità di massa abbiamo una diffusione enorme di figure e di lavori intellettuali che sono i primi a subire il peso della crisi. Valorizzare questo sapere sociale diffuso in un percorso di presa di coscienza collettiva sulle ragioni della crisi e sulla possibilità di uscirne in una direzione eco socialista è il tema da porre oggi.
Per questo il Piano del lavoro non deve essere solo una proposta generale di politica economica alternativa a quella praticata dal governo e dall’Unione Europea. Il piano del lavoro deve articolarsi sui territori, diventando occasione di aggregazione e di iniziativa politica a tutto campo, includendo la questione dei beni comuni e del modello economico e ambientale.
La restaurazione neoliberista ha come obiettivo quello di mercificare e portare a profitto tutti quei settori oggi esclusi dal mercato. Beni comuni, acqua, territorio e risorse naturali, sanità e conoscenza, sono oggetto dei desideri di privatizzazione per il capitale alla ricerca di nuovi profitti. La lotta per la loro difesa ha un valore generale e intreccia questione sociale e democratica, la critica a questo modello di sviluppo e alla sua insostenibilità sociale e ambientale. Lotte come quella per l’acqua, la No Tav o quella contro il Ponte sullo stretto, da vertenze particolari hanno assunto una valenza generale, di critica all’ideologia privatizzatrice e neoliberista e si legano alla nostra proposta di piano per il lavoro e per un’economia ambientale e sociale.
Parallelamente alla proposta sul lavoro avanziamo la nostra proposta di disubbidienza unilaterale ai trattati europei, perché la rottura della gabbia neoliberista è condizione essenziale per l’uscita dalla crisi e per rilanciare l’occupazione.
Vogliamo intrecciare tutto questo con il movimento per la difesa e la piena attuazione della Costituzione. Qualificare con la nostra proposta di Piano per il lavoro e di disobbedienza unilaterale ai trattati la battaglia per la democrazia è un punto fondamentale della nostra azione politica nella prossima fase.

13 Per un movimento di massa contro l’austerità, per una rivoluzione democratica in Italia e in Europa

Chi non si muove non può rendersi conto delle proprie catene. Rosa Luxemburg
Per fermare l’offensiva neoliberista è innanzitutto necessario costruire un movimento di opposizione al governo, per la democrazia e il lavoro. Il modo in cui si è chiusa la crisi di governo di inizio ottobre ci parla di una vera e propria stabilizzazione moderata, di un rinnovato punto di equilibrio tra i ceti dominanti e i poteri forti del nostro paese.
La costruzione dell’opposizione a questo quadro politico è il punto decisivo della nostra iniziativa politica.
Proponiamo per questo la costruzione di un movimento di massa contro l’austerità, della sinistra politica e sociale, delle forze democratiche e antifasciste, che condividono la necessità di rimettere in discussione i trattati neoliberisti europei e difendere la Costituzione, insieme all’improrogabile necessità, per il nostro paese, di aprire un conflitto in sede europea per ribaltare il carattere neoliberista e germanocentrico dell’Ue, sino ad assumere le inevitabili conseguenze nel caso di fallimento del tentativo di mutare radicalmente il corso dell’attuale integrazione europea. Occorre costruire oggi una larga e determinata opposizione alle forze sistemiche dominanti, alternativa e contro il bipolarismo italiano, proponendo un programma per una rivoluzione democratica, che metta al centro i bisogni umani e la loro soddisfazione.
L’iniziativa “la via maestra”, che ha preso il via con la positiva assemblea dell’8 settembre e con la manifestazione nazionale per la difesa e l’applicazione della Costituzione e per il lavoro del 12 ottobre, va in questa direzione. Attorno a questa iniziativa è possibile aggregare una parte significativa delle forze che si pongono l’obiettivo di una rivoluzione democratica e rompere la passività di massa che caratterizza la situazione italiana.
Per questo occorre lavorare per la sedimentazione di un tessuto organizzativo che dia continuità all’iniziativa politica dopo la manifestazione e che ne qualifichi progressivamente la piattaforma. I temi della difesa e dell’attuazione della Costituzione, del lavoro, di per sé rappresentano un terreno molto avanzato e noi riteniamo necessario farla diventare una vera e propria campagna di massa che cambi la cultura del paese e aggreghi le forze del cambiamento.
Lo facciamo nella consapevolezza che questo percorso non racchiude la totalità delle mobilitazioni sociali e per questo abbiamo partecipato alle giornate di mobilitazione promosse a ottobre dal sindacalismo di base e dai movimenti, che costituiscono un momento importante di riattivazione del conflitto e dell’antagonismo sociale sul terreno del lavoro e dei diritti.
Lavoriamo quindi per l’unificazione di tutti i movimenti che si oppongono al governo, all’austerità e alla manomissione della Costituzione. Per contrastare efficacemente la rivoluzione conservatrice in atto occorre, infatti, delineare una proposta di uscita dalla crisi che contemporaneamente proponga un allargamento della democrazia e della partecipazione e per questa via una uscita dalla crisi della politica. Occorre cioè delineare un progetto di alternativa che si intrecci con la costruzione di un efficace conflitto sociale. Un progetto di alternativa che a partire dalla difesa della Costituzione e della messa in discussione dei trattati europei, si basi sul rovesciamento delle politiche di austerità attraverso un nuovo intervento pubblico in economia che reintroduca elementi di programmazione.
Questo può avvenire solo con una rivoluzione democratica, che cambi i rapporti di forza politici fra le classi, e per la quale occorre la costruzione di un nuovo blocco storico.
Questi i punti fondamentali che proponiamo al confronto con tutto il movimento:
La difesa della Costituzione, la cancellazione del pareggio di bilancio e il superamento del bipolarismo con l’adozione del sistema elettorale proporzionale a tutti i livelli.
La ripresa di sovranità democratica del popolo italiano sulle principali scelte economiche: ridiscussione e disobbedienza ai trattati di Maastricht, di Lisbona, abolizione del Fiscal compact e del Two pack; introduzione di standard europei per il lavoro e i diritti sociali, controllo democratico e revisione dei poteri della Bce; rottura dei rapporti con i paradisi fiscali e repressione dell’attività finanziaria speculativa e della rendita; penalizzazione delle aziende che delocalizzano la produzione.
La definizione degli strumenti e delle politiche atte a raggiungere l’obiettivo della piena occupazione e della riconversione ambientale e sociale dell’economia: nazionalizzazione degli istituti di credito e controllo pubblico sulla banca d’Italia e attivazione di forme di credito popolare per la piccola e media impresa; ripubblicizzazione delle aziende strategiche e dei servizi pubblici locali; un piano per il lavoro, per gli investimenti e la ricerca nei settori tecnologicamente avanzati.
Il rilancio della scuola e dell'università pubbliche: la restituzione dei fondi tagliati in questi anni e l'incremento della spesa per l'istruzione in rapporto al Pil almeno fino al raggiungimento della media europea; l'abolizione delle controriforme Gelmini sulla scuola e sull’università, lo sviluppo della scuola dell'infanzia pubblica e dei nidi su tutto il territorio nazionale, l'eliminazione dei finanziamenti pubblici, diretti e indiretti, alle scuole e alle università private.
Un piano per l’energia, d’investimento nelle energie rinnovabili e nel risparmio; un piano nazionale per la casa, che colpisca la rendita immobiliare e garantisca a tutti il diritto all’abitare; un investimento pubblico nei settori della cultura affinché sia realmente autonoma, indipendente e libera e perché non siano i soli meccanismi del mercato a regolarne la produzione, la conservazione e la valorizzazione; lo Stato deve garantire il diritto costituzionale all'accesso e alla produzione della cultura.
La definizione di politiche atte a ridistribuire la ricchezza: ripristino di un effettivo sistema progressivo della tassazione su tutti i redditi e patrimoniale sui patrimoni di oltre 700.000 euro; riduzione di tutte le pensioni d’oro e gli stipendi pubblici a partire dai parlamentari ad un massimo di 5000 euro al mese; riduzione delle tasse su stipendi e pensioni e aumento delle pensioni minime.
La costruzione delle tutele per tutti i lavori: cancellazione delle controriforme del governo Monti sulle pensioni e sul mercato del lavoro; abrogazione della Legge 30 e introduzione di un reddito minimo garantito e di un salario minimo intercategoriale.
La lotta agli sprechi: la drastica riduzione delle spese militari, a partire dagli F35 e il ritiro totale dalle missioni di guerra; lo stop alle grandi opere inutili, a partire dalla Torino-Lione; reinvestire le risorse in un piano per il territorio e per il trasporto pendolare, una legge anticorruzione che inasprisca le pene duramente per chi si appropria della cosa pubblica e per i corrotti.
Nell’ambito della costruzione di un movimento di massa contro l’austerità non può essere sottovalutato l’impatto delle politiche repressive. Dal G8 di Genova del luglio 2001 a oggi sono numerosi i casi in cui la magistratura ha cercato di trasformare le lotte politiche e sociali in azioni puramente di ordine pubblico, una fra tutte la lotta No Tav in Val di Susa. Si parla di circa 17.000 persone a tutt’oggi sotto processo.
Proponiamo quindi una campagna politica affinché ci sia un provvedimento generale di “amnistia sociale” che porti alla depenalizzazione di una serie di reati ereditati dal vecchio Codice Rocco e dalla legislazione speciale d’emergenza. Per l’introduzione nel codice penale del reato di tortura e il codice identificativo per gli agenti di pubblica sicurezza in servizio durante pubbliche manifestazioni. Chiusura dei Cie, abrogazione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione, della Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze e della legge “Cirielli”, leggi che hanno riempito le carceri e prodotto vittime.

14 Il sindacato

Nel lavoro sociale e politico per la ripresa del conflitto di classe assume un valore strategico il nostro intervento e la nostra relazione con il sindacato. Dobbiamo riconoscere che l'azione avuta negli anni da parte del Partito non ha saputo costruire una linea d’intervento efficace. Innanzitutto occorre ragionare su come qualificare la nostra presenza nella Cgil, che resta il più grande sindacato italiano, nonostante, con l'attuale gruppo dirigente, abbia intrapreso su un piano moderato la strada della rinnovata unità con Cisl e Uil e abbia determinato una inefficace collocazione di sostanziale subalternità al quadro politico delle larghe intese che non ha corrispettivi in Europa. Crediamo al contrario necessaria una svolta radicale, che metta al centro la lotta contro l'austerità e per la difesa dei salari e dei diritti, così come ha indicato l'iniziativa della Fiom in tutti questi anni. Basti pensare alla battaglia condotta contro la Fiat e il modello Marchionne che ha portato alla recente sentenza della Corte Costituzionale in materia di diritti e libertà sindacali. Quella sentenza chiede ora una battaglia politica per una legge sulla rappresentanza come diritto soggettivo delle lavoratrici e dei lavoratori: il diritto di votare per qualsiasi organizzazione sindacale e per la validazione di piattaforme e contratti, senza limitazione alcuna di agibilità del conflitto, superando gli evidenti aspetti critici e negativi dell’accordo del 31 maggio. Il tema della democrazia, della rigenerazione del sindacato a partire dal rapporto democratico con le lavoratrici e lavoratori è un nodo decisivo per affrontare la crisi di ruolo che il sindacato, inteso come autonoma rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori, conosce non solo nel nostro paese come effetto della globalizzazione capitalista, della sua crisi, e delle politiche che segnatamente in Europa le classi dirigenti stanno attuando. La distruzione del modello sociale europeo, insita in quelle politiche, passa attraverso la negazione di qualsiasi vincolo che non sia il primato dell’impresa e del mercato, attaccando perciò il ruolo e la stessa esistenza della contrattazione nazionale e di tutti i diritti conquistati nel dopoguerra dal movimento operaio, di cui è emblema l’articolo 8. I processi di precarizzazione e frammentazione del mondo del lavoro riducono per altro verso la copertura del contratto nazionale e mettono radicalmente in discussione il principio che a parità di prestazione debba corrispondere parità di retribuzione e di diritti. La ristrutturazione dei processi produttivi e del mondo del lavoro di questi anni produce un intreccio tra questione di classe e questione generazionale, che determina un tasso di sindacalizzazione sostanzialmente inesistente nelle giovani generazioni. Mai come oggi la ricostruzione della soggettività del lavoro passa dalla messa in discussione della subordinazione della condizione lavorativa al principio sovraordinante della competitività dell’impresa, passa dalla lotta contro l’austerità e le politiche di questa Europa, passa dalla costruzione di una piattaforma di ricomposizione del mondo del lavoro che parli alla precarietà e alla nuova composizione di classe. Senza questo rischia di affermarsi un modello di sindacato aziendalista e neocorporativo, la cui legittimazione non risiede più nella rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori ma nella gestione delle funzioni privatizzate del welfare da parte degli enti bilaterali. Auspichiamo quindi la costruzione di una sinistra sindacale che possa aprire una battaglia politica per rilanciare il ruolo di classe della CGIL su punti dirimenti la politica economica, sociale e contrattuale. D'altro canto, valutiamo positivamente e auspichiamo proseguano i processi di aggregazione che si sono sviluppati nel sindacalismo di base. Pur nella dimensione limitata, i sindacati di base hanno comunque saputo mantenere vivo un approccio conflittuale e di classe, che rappresenta una risorsa nella costruzione di un’alleanza politica e sociale contro l'austerità.

15 Una proposta per l’unità della sinistra

Come abbiamo detto più volte Rifondazione Comunista è necessaria ma non sufficiente e per questo proponiamo di avviare un processo fondativo di un soggetto politico unitario della sinistra di alternativa. Riteniamo, infatti, che le frammentazioni e la divisione della sinistra italiana siano l’esito della radicale sconfitta sociale e politica degli ultimi decenni, ma anche dei nostri errori e limiti soggettivi. Nell’avanzare questa proposta siamo perfettamente consapevoli che i tentativi di riaggregazione che in questi anni abbiamo insistito a promuovere sono stati viziati da limiti soggettivi relativi alla natura stessa dei processi unitari messi in campo. Non si può costruire l’unità a partire da accordi di vertice fra organizzazioni ed aggregazioni che nel corso del tempo si sono divise, senza percorsi reali di condivisione democratica e partecipata di contenuti e priorità. Non si può costruire l’unità solo sulla base delle scadenze elettorali e meno ancora con l’unico obiettivo di superare quorum e sbarramenti con liste improvvisate ed espressione di equilibri incomprensibili ai più. Non si può costruire l’unità sulla base di pregiudiziali ideologiche od organizzative tese a pretendere scioglimenti, abiure ed ulteriori divisioni nelle già troppe organizzazioni esistenti. Non si può separare il processo di unificazione e aggregazione politica dai processi di costruzione e internità al conflitto sociale. L’unità politica è strettamente connessa alla costruzione di un movimento unitario contro il liberismo e l’attacco alla democrazia, di cui la manifestazione del 12 è il primo passo. Riteniamo pertanto che sia necessario fare un salto di qualità che non ripeta gli errori del passato. Per questi motivi il Prc propone alcune idee che ritiene utili per poter determinare il salto di qualità che tutte e tutti sentono necessario, anche sulla base di quanto accade nel resto d’Europa, con le positive esperienze di aggregazione di Syriza, del Front de Gauche, di Izquierda Unida.

1. È necessario avviare un processo fondativo di un soggetto politico unitario della sinistra sulla base della costruzione di una piattaforma antiliberista che delinei l’uscita a sinistra dalla crisi, che si connoti per l’autonomia e l’alterità rispetto al centrosinistra e al Partito Democratico, per il riferimento in Europa al Partito della Sinistra Europea e al Gue, per l’esplicito collegamento con le battaglie della Fiom, della sinistra della CGIL, del sindacalismo di base e dei movimenti di trasformazione.

2. È importante che tale soggetto assuma come centrale una piattaforma per la ricostruzione della sovranità popolare e la rifondazione democratica di ogni ambito della vita sociale e politica a partire dalla difesa e dall’attuazione della Costituzione. Dalla democrazia nei luoghi di lavoro, allo sviluppo della democrazia partecipativa e diretta, alla ripresa di un’iniziativa costante per il sistema proporzionale sul terreno della democrazia rappresentativa.

3. È indispensabile che il processo di costruzione di tale soggetto, non avvenga in modo verticista e pattizio, ma attraverso il coinvolgimento democratico e partecipato di tutte le persone concordi con gli obiettivi unitari, sulla base del principio “una testa, un voto”; che il soggetto unitario abbia piena titolarità sulla rappresentanza elettorale; che le forze organizzate, locali e nazionali, che scelgano di attivarsi per il processo unitario senza sciogliersi, s’impegnino a non esercitare vincoli di mandato ed a garantire la libera scelta individuale nell’adesione al nuovo soggetto politico da parte dei propri iscritti e iscritte.

E’ questa la proposta che mettiamo a disposizione del confronto – a partire dallo spazio pubblico di sinistra che auspichiamo nasca dall’iniziativa la “via maestra” – nella convinzione che il popolo della sinistra debba e possa costruire un nuovo soggetto politico unitario per la lotta, la partecipazione, la trasformazione. La proponiamo, nel contesto delle mobilitazioni sociali e sindacali e del percorso di mobilitazione avviato in difesa della Costituzione e del lavoro dall’appello “la via maestra”, sia ai tanti che non si rassegnano, ai comitati e alle associazioni che operano sul territorio, alle varie piattaforme che si sono costituite in questi mesi, da “Cambiare si può” ad Alba, a Rossa, a tutte le altre forze della sinistra politica, ribadendo anche a Sel l’invito ad abbandonare l’illusione che le ragioni e i contenuti che tutta la sinistra difende in Europa, possano realizzarsi nel centro sinistra e nel Partito socialista europeo. Lo facciamo nella consapevolezza che la gravità della situazione impone di dover far prevalere uno spirito di costruzione paziente, ma allo stesso tempo urgente per la natura della crisi che viviamo e netto sul piano della proposta e della collocazione politica. È necessaria la costruzione di una forza che sia in grado di rimettere al centro del dibattito politico la questione sociale e del lavoro, senza la quale non esiste possibile sbocco progressivo alla crisi. Noi riteniamo che questo percorso unitario vada avviato da subito e possa vedere nel passaggio delle elezioni europee un passaggio significativo: la nostra proposta è quella di costruire in modo democratico e partecipato una lista unitaria di sinistra, collegata esplicitamente alla Sinistra Europea e al Gue. Decisivi sono i tempi e i modi di costruzione di questa lista e noi diciamo da subito che non siamo disponibili a rifare accordi elettorali pasticciati all’ultimo momento: la lista unitaria deve essere il frutto di un processo trasparente e partecipato, non un cartello elettorale.

16 L’unità dei comunisti

“Non il comunismo è crollato sotto le macerie dei regimi dell'Est, ma sono crollati i sistemi che rappresentavano la negazione dei nostri ideali. Il comunismo, nella nostra concezione, è l'orizzonte più elevato della libertà umana, è una speranza dell'umanità, in un mondo segnato dallo sfruttamento, dall'alienazione, dall'autoritarismo, dall'imperialismo, dalla guerra. Il nostro impegno è per una nuova società, per un nuovo ordine internazionale, fondato sulla pace, sulla giustizia e sulla libertà.” Appello dell'assemblea nazionale del Movimento per la Rifondazione Comunista. Roma, Teatro Brancaccio, 10 febbraio 1991.

Da tempo esiste la proposta di riunificare i comunisti. Nell’ambito del lavoro di costruzione della sinistra di alternativa, facciamo nostra questa esigenza, tanto più che il nostro Partito - a differenza di altri soggetti - ha subito e non ha mai promosso scissioni. Coerentemente con quanto sostenuto in questo documento, noi riteniamo che l’unità dei comunisti può essere raggiunta se si rimuovono le cause politiche delle divisioni politiche passate o delle differenze di oggi, che sono le ragioni che hanno portato al fallimento della Federazione della Sinistra. Il tema dell’autonomia e dell’alternatività strategica al centro sinistra è in questo senso, un punto dirimente. Anche sulla base del recente fallimento della Fds, ci è chiaro che un partito politico non si costituisce su una base ideologica ma sulla base di una analisi di fase e di un progetto: ogni ipotesi di riunificazione non può essere presa seriamente in considerazione senza che sia sciolto in modo chiaro e netto il nodo politico dell’autonomia dei comunisti dal centrosinistra e la loro alterità al Partito Democratico. Noi riteniamo, infatti, che l’obiettivo dell’uscita dalla crisi necessiti della costruzione di una alternativa non solo alle forze conservatrici, ma anche alle forze legate al Partito Socialista Europeo e quindi al centrosinistra italiano. Il terreno su cui concretamente realizzare l’unità dei comunisti riteniamo sia quello della rifondazione comunista. Dopo lo scioglimento del Pci, la rifondazione comunista, intesa come riaffermazione del tema del superamento del capitalismo, del comunismo, e come volontà di fare i conti fino in fondo con il fallimento delle esperienze di socialismo reale, a partire dal rapporto tra giustizia e libertà, è stato il terreno di aggregazione di tutte le forze comuniste. Nella misura in cui vengano superate le divergenze politiche che si sono registrate in seguito, noi riteniamo che quello sia il terreno su cui si possa costruire una nuova unità dei comunisti e delle comuniste. Crediamo pertanto, al fine di lavorare a questo obiettivo, che sia necessario attivare da subito una nuova unità d’azione contro il governo delle larghe intese, contro la guerra e questa Unione Europea, e verificare sul terreno dell’iniziativa politica e sociale reale, e non quello idealistico dei desideri, la possibilità concreta di costruire un percorso di unità.

17 L’autonomia locale come presidio democratico e sociale

È in atto una pericolosa controriforma neoliberista degli Enti Locali che punta a minare il loro ruolo come possibili “enti di prossimità”, capaci di garantire diritti costituzionali universali e di promuovere lo sviluppo di un’economia solidale. Le modifiche costituzionali già introdotte hanno creato confusione fra Stato e Regioni in termini di competenze, l’uguaglianza nella dotazione dei servizi è stata ridotta a “essenzialità” delle prestazioni erogate, mentre si è lavorato per lo stravolgimento del sistema impositivo e per l’alienazione dei beni pubblici. Nel contempo, il sistema delle autonomie locali è stato vessato da tagli giganteschi dei trasferimenti (in totale continuità fra Berlusconi, Monti e Letta). Il patto di stabilità interna ha indotto alla privatizzazione, all’esternalizzazione e all’aumento dei costi dei servizi. Queste iniziative hanno inoltre l’aggravante di aver disatteso i risultati del referendum sull'acqua pubblica. Tutto ciò si è abbattuto su una struttura istituzionale che, dai Comuni alle Regioni, è imperniata sul maggioritario, sull’elezione diretta dei capi degli esecutivi, sull’esautoramento dei consigli a vantaggio degli stessi esecutivi e sullo svilimento di ogni istituto partecipativo dei cittadini. La nostra presenza come Prc negli Enti Locali va perciò finalizzata ad alcune grandi priorità legate ai diritti dei cittadini e alla difesa di un modello democratico e partecipativo. Va superato il patto di stabilità interna, anche attraverso una campagna di disobbedienza per la sua non applicazione, per garantire risorse e restituire una maggiore autonomia di spesa. Nei servizi pubblici va garantita la gestione e la proprietà pubblica, riconoscendo l’autonomia degli enti locali nella scelta delle forme di gestione, rispettando l’esito referendario e affiancando agli organi di gestione strutture di controllo sociale con il coinvolgimento degli utenti. Va rilanciato il ruolo del pubblico e limitata l’influenza del privato, a partire dalle norme che regolano i piani regolatori. Le province vanno ridotte di numero, ma mantenendo gli organi di rappresentanza democratica. Nei territori vanno ricostruiti strumenti di partecipazione decentrati, dopo la quasi generale scomparsa delle circoscrizioni. Nelle decisioni relative ai bilanci e nelle scelte strategiche la consultazione (Bilancio partecipativo) della cittadinanza deve essere obbligatoria. Va modificata la legge 81/93 sul sistema elettorale locale, restituendo poteri ai consigli e reintroducendo un sistema proporzionale.

18 Rifondazione Comunista: la necessità di una svolta. Gruppi dirigenti e democrazia nel partito

Il Congresso deve essere occasione per una riflessione vera sui nostri limiti e criticità, sulle inadeguatezze soggettive, culturali, politiche e organizzative che sono un freno alla possibilità di dispiegare un’iniziativa efficace per incidere nella società. Oggi, nella crisi, è più che mai necessario un partito capace di costruire e connettere i conflitti, che riposizioni il proprio baricentro nel fare società, nella rottura della frammentazione e dell’impotenza, nella costruzione di soggettività e solidarietà. Oggi, nella crisi, è più che mai necessario un partito capace di un progetto collettivo, di elaborare la critica dell’esistente e riattualizzare una prospettiva di trasformazione, facendola vivere nella realtà. Dobbiamo saper riconoscere ciò che è stato ostacolo e freno per la nostra iniziativa, per produrre il cambiamento necessario. Ribadiamo il valore positivo della ricerca e della pratica della gestione unitaria del partito, ma la sua traduzione nella continua contrattazione tra correnti organizzate si è rivelata sempre più un blocco nella costruzione dell’iniziativa politica. Ha assorbito gran parte delle energie, reso sostanzialmente irrilevante ogni seria verifica sull’operato dei singoli dirigenti, determinato sovente lo stabilirsi di relazioni privilegiate con singoli territori in funzione delle appartenenze correntizie. Ha moltiplicato luoghi e strutture di “potere”, rafforzato le logiche sessiste e il carattere monosessuato del partito, costituito un elemento spesso respingente rispetto alla domanda di partecipazione. Pur in questo quadro che ha contributo alla difficoltà di un’effettiva gestione collegiale nella quotidianità, su tutti i principali passaggi di definizione della linea politica, è sempre stato pieno il coinvolgimento di tutto il gruppo dirigente, ma oggi abbiamo bisogno di una svolta. Di una svolta, per il superamento della gestione pattizia tra aree organizzate, nel segno della democratizzazione del partito, con il coinvolgimento pieno, sulle principali scelte politiche, non solo dei gruppi dirigenti, ma di ogni iscritta e di ogni iscritto. Di una svolta nella costruzione collettiva di conflitto e di progetto e nella collegialità della gestione quotidiana del partito, per realizzare l’obiettivo di una reale rifondazione democratica della politica, alternativa alle scorciatoie leaderistiche e spettacolari dominanti. Proponiamo che sulle principali scelte politiche, vi sia, oltre all’attivazione obbligatoria di una discussione nel corpo del partito, la consegna alle iscritte e agli iscritti della decisione finale attraverso il referendum. Questa modalità deve essere attivata obbligatoriamente sulle scelte elettorali, che costituiscono uno dei terreni maggiormente problematici all’interno del partito. A partire dalle prossime elezioni europee, proponiamo dunque che vi sia un pronunciamento esplicito attraverso il referendum per scegliere le modalità di presentazione elettorale. Proponiamo di rendere stabili e obbligatorie almeno una volta l’anno le assemblee nazionali dei segretari di circolo. Dobbiamo accorciare la distanza tra gruppi dirigenti locali e nazionali e questa è una strada che si è dimostrata utile e che può determinare una costruzione effettivamente collettiva della linea politica e dell’iniziativa politica. Proponiamo, anche a partire dal drastico ridimensionamento dell’apparato centrale, lo sviluppo del partito a rete. L’impossibilità di avere strutture centrali basate sul funzionariato deve essere l’occasione per saper utilizzare le tante intelligenze e capacità esistenti nel partito, mettendole in rete. Compito del centro nazionale deve sempre più essere la predisposizione degli strumenti per costruire un Partito più orizzontale, che utilizzi le possibilità offerte dalle nuove tecnologie non solo come strumento di propaganda e di comunicazione esterna, ma anche come elemento per garantire lo scambio delle informazioni, il dibattito politico interno, l’elaborazione condivisa. Lo stesso lavoro di direzione politica centrale deve prevedere riunioni telematiche che non abbiano bisogno dello spostamento fisico – e costoso – delle compagne e dei compagni. Si tratta di dotarsi anche qui di un progetto, che coinvolga le tante capacità e conoscenze presenti nel corpo largo del partito e le metta a valore. Riteniamo che per rinnovare il gruppo dirigente occorra innanzitutto rinnovare il modo in cui è eletto. Oggi tutto il gruppo dirigente nazionale è espressione dell’appartenenza ad aree o correnti. Su questa base si è costruito e su questa base non è possibile alcun reale rinnovamento. Costruire il gruppo dirigente a partire dal lavoro concreto di direzione politica sui territori, dalla costruzione concreta di movimento, pratiche di lotta, esperienze, sulla base della fiducia che questi compagni e compagne acquisiscono nel lavoro politico quotidiano e non per appartenenza a questa o quell’area politica, è un presupposto fondamentale per cambiare sul serio e nel modo migliore. Come lo è misurare ogni dirigente sulla capacità di far avanzare la linea politica e il lavoro del partito, e non sulla base delle proprie fedeltà a questo o quel dirigente o gruppo. La crisi della rappresentanza vive anche dentro di noi, la democrazia partecipativa è la risposta, anche per noi.

19 La riorganizzazione del partito

Come abbiamo detto la principale risorsa che oggi ha Rifondazione Comunista è la generosa militanza di migliaia di compagne e di compagni. Proponiamo di mettere a valore questa militanza su alcune direttrici principali, su progetti di lavoro nazionali:

a) Il Partito nel sociale

Il lavoro di ricostruzione di una politica comunista passa attraverso la capacità di rispondere concretamente ai drammi sociali che nella crisi esplodono con l’allargarsi della sfera delle povertà. È quello che abbiamo chiamato il partito sociale inteso come costruzione di pratiche di solidarietà e mutualismo tese a costruire reti di solidarietà sociale in un panorama desertificato dalla crisi, che vede crescere isolamento e atomizzazione sociale. Dobbiamo generalizzare queste pratiche sociali a ogni circolo ed evitare che diventino il patrimonio solo di alcuni settori del partito. Dove siamo riusciti a sviluppare queste pratiche i risultati si sono visti, sul terreno della militanza e del consenso come su quello fondamentale di presentare una nostra immagine di partito comunista impegnato concretamente nella soluzione dei problemi degli strati popolari. Queste pratiche sociali devono intrecciarsi a livello locale come a livello nazionale a una forte battaglia per la difesa e il rilancio del welfare e della funzione sociale degli Enti Locali. Accanto al mutualismo, necessario anche per fronteggiare in forma solidale il ridimensionamento dell’offerta di servizi pubblici, si deve quindi praticare una vertenzialità locale nei confronti degli enti locali per salvaguardare le poste di bilancio destinate al sociale, per sostenere le fasce a reddito medio basso, anche rafforzando la progressività dei prelievi fiscali, per operare una selezione della spesa mirata alla salvaguardia dei diritti e del reddito. Parimenti queste pratiche sociali devono puntare alla costruzione progressiva di altraeconomia, capace di mostrare alternative possibili e concrete al neoliberismo e alla sua globalizzazione, anteponendo il valore d’uso dei beni al valore di scambio delle merci (e delle relazioni). È questo il senso delle crescenti esperienze di economie solidali locali basate sulla cooperazione che sono cresciute in America Latina e il loro inserimento nelle Costituzioni in paesi come Equador e Bolivia.

b) La comunicazione

Dobbiamo fare i conti con un sistema mediatico informativo che ha rimosso il conflitto e la questione sociale e non semplicemente la nostra possibilità di accesso in esso. Dal punto di vista dei metodi e degli strumenti, l’informazione e la comunicazione politiche vivono una fase di trasformazione importante, soprattutto legata alle nuove tecnologie, che ha diretta influenza anche sulle dinamiche organizzative. Una buona organizzazione passa per una buona comunicazione. Su questo abbiamo marcato una buona dose di inadeguatezza. Questo implica la necessità di progettare e sviluppare propri metodi e strumenti, a partire da quelli che abbiamo, come Liberazione, potenziando le reti sociali e sfruttando il web per favorire un circuito virtuoso “reale-virtuale-reale” capace di aumentare il nostro grado di velocità, penetrazione, capillarità, interazione, ed anche egemonia. Una rete nella rete utilizzando al meglio quella che è la nostra forza, ovvero la nostra capacità militante e i nostri saperi. La comunicazione non è semplicemente un’appendice del lavoro e della battaglia politica. E’ un terreno strategico della lotta politica, della battaglia delle idee. Per questo va costruito in modo ragionato e con il coinvolgimento di tutti i compagni, valorizzando le competenze in materia presenti a tutti i livelli. Occorre pertanto dotarsi di un vero e proprio piano per la comunicazione e l’informazione che coinvolga tutto il partito, dal nazionale ai circoli, per dare organicità e coerenza fra la nostra proposta politica e la nostra capacità di comunicarla all’interno e all’esterno, ma anche per favorire uno scambio immediato di buone pratiche e per facilitare una partecipazione ampia alle diverse iniziative di Partito, dalle campagne alle manifestazioni. Circoli, federazioni, regionali e nazionale devono essere in rete fra loro a livello reale e virtuale, attraverso un portale che ospiti gli spazi delle diverse strutture rendendo possibile uno scambio immediato di informazioni, riducendo i tempi di organizzazione e condivisione dei contenuti. Una piattaforma informatica in grado di permettere anche consultazioni on line su questioni importanti, di fare inchiesta sociale e attività virale, di offrire servizi originali per produrre materiale informativo, nazionale e territoriale, anche in mancanza di conoscenze specifiche nel settore. In questa direzione, ogni Circolo deve essere dotato di un sito aggiornato che presenti il proprio lavoro e metta in rete i materiali nazionali e Liberazione on line.

c) L’autofinanziamento

Per anni il nostro partito ha goduto di significativi finanziamenti pubblici. Non è più così e indipendentemente dalla nostra presenza in Parlamento non lo sarà più nelle misure in cui lo abbiamo conosciuto.
Occorre quindi costruire un piano di autofinanziamento capillare, che faccia leva sulla nostra presenza nel territorio, al fine di permettere al partito di esistere in quanto soggetto politico organizzato. Questo problema non può essere risolto chiedendo sforzi finanziari impossibili ai militanti. Diventa quindi cruciale sviluppare una capacità di autofinanziamento, non occasionale ma strutturata, e di organizzazione che faccia i conti con la nuova fase che abbiamo davanti.
Si tratta di elaborare un piano di autofinanziamento che coinvolga capillarmente tutti i circoli, che studi le diverse possibilità da mettere in campo e che si ponga l’obiettivo dell’autosufficienza finanziaria del partito. Vanno tagliati all’osso i costi – a partire dal nazionale – e dobbiamo metterci nelle condizione di coprire l’indispensabile.

d) La formazione

La critica del pensiero dominante al fine di avanzare una proposta di alternativa ed esercitare egemonia, passa anche attraverso una ritrovata capacità comune di analisi e proposta.
Dobbiamo dare a tutti e tutte la possibilità di un percorso che doti i nostri militanti e dirigenti degli strumenti minimi di comprensione e di utilizzo dei fondamentali del pensiero marxista. Una formazione dinamica e che non si risolva in dispute dottrinarie, ma che fecondi la capacità di analisi critica e dialettica del presente, che dia inoltre la comune condivisione di un progetto strategico, rifondando il senso di appartenenza ad un partito che si basa su scelte di fondo e non dettate dagli appuntamenti di carattere elettorale ed istituzionale.
Dobbiamo costruire luoghi di elaborazione teorica condivisa, aperta alle intellettualità e in dialogo con i luoghi e i soggetti di produzione di pensiero e pratiche conflittuali.
Una formazione che non sia separata dalla quotidianità della lotta sociale e dalla realtà materiale della lotta di classe, che eviti il rischio di formare quadri capaci di analisi ma immobili sul piano dell’iniziativa sociale e politica. Una formazione che riprenda l’attualità del pensiero marxista e l’originalità del contributo di Gramsci, del marxismo come filosofia della prassi. In particolare occorre una formazione che sia in grado di aiutare i nostri militanti a dialogare con i mille linguaggi diversi che vi sono oggi nella società: discutere con un giovane precario non è la stessa cosa che confrontarsi con un metalmeccanico cinquantenne, con un valsusino No Tav o con un militante antirazzista. Dobbiamo formare delle e dei militanti comuniste/i in grado di entrare in relazione con il complesso delle figure sociali e delle esperienze politiche che vogliamo aggregare nel blocco sociale dell’alternativa.
Per questo la formazione deve diventare centrale nella rifondazione comunista. L’errore di ribadire il principio e disattenderlo nella pratica non può più essere ripetuto. Vi è una domanda in questo senso forte, che viene soprattutto dalle giovani generazioni, e che dobbiamo saper cogliere e valorizzare. Possiamo, a tal fine, prendere spunto anche dalle esperienze europee in questo campo. Crediamo utile proporre e organizzare, ad esempio, così come avviene in altri paesi europei, una nostra università estiva, da rendere appuntamento permanente del nostro Partito.

e) Un partito internazionalista

L’internazionalismo del nostro Partito deve essere rilanciato. Fare parte di un movimento generale di cambiamento deve essere costante del nostro agire politico, non semplicemente di un settore. A tal fine, accanto al lavoro politico per la costruzione di un movimento per la pace e contro la guerra, contro le basi militari, e quello congiunto con la Sinistra Europea, contro il Ttip, il nuovo trattato di libero commercio Ue-Usa, crediamo sia utile dotarci di campagne permanenti di solidarietà internazionalista:
una campagna di solidarietà con l’America latina e con i governi progressisti dell’Alba, dal Venezuela, alla Bolivia all’Equador, e con Cuba, senza la quale non avremmo oggi la rinascita della sinistra continentale, per la fine dell’immorale blocco economico e la liberazione dei cinque;
l’adesione e sostegno alla campagna internazionale dell’Ecuador contro la multinazionale Chevron;
Appoggio al processo di pace in Colombia;

il sostegno alla lotta del popolo palestinese alla sua autodeterminazione, per la fine dell’occupazione israeliana e dell’apartheid, attraverso l’adesione e la partecipazione alla campagna internazionale di boicottaggio, disinvestimento, sanzioni;

il sostegno alla causa curda e al processo di pace e rilancio della campagna internazionale per la liberazione di Abdullah Ocalan;

la solidarietà al popolo Sahrawi e al suo diritto a scegliere del proprio destino attraverso un referendum secondo quanto già disposto dalle Nazioni Unite.

f) Un partito antifascista

In un quadro di crisi come quello attuale si assiste con non poca preoccupazione al ritorno sempre più frequente nei territori di manifestazioni promosse da associazioni o partiti d’ispirazione neo-fascista, che se ancora non rappresentano un pericolo dal punto di vista della consistenza numerica, per i linguaggi e le strategie usate s’insinuano nel corpo sociale devastato dalla crisi. Fanno riferimento a temi cari alla Lega Nord, con l'evidente proposito di occupare spazi lasciati liberi da questa (sicurezza, campagne contro i Rom, gli immigrati e lo ius soli), recuperano slogan contro gli omosessuali o contro l'aborto e l'autodeterminazione delle donne, o ripescano argomenti propri del fascismo "sociale" di Salò, mascherandosi anche all'interno delle lotte portate avanti dai lavoratori. La strategia sottesa a questi linguaggi è da una parte quella di porsi come tutori della legalità e dell'ordine contro quello che viene definito il disordine sociale e morale del tempo presente, anche stimolando e solleticando le reazioni più "di pancia" delle persone, dall'altra paradossalmente quella di presentarsi come i nuovi "rivoluzionari", con critiche e attacchi ad esempio ai meccanismi della finanza internazionale che peraltro non mettono mai in discussione il capitalismo che a questi meccanismi sottende.
Tutto ciò in un richiamo continuo a simboli, figure e "ideali" del passato regime che dovrebbero imporre interventi da parte delle autorità e delle istituzioni in applicazione delle leggi vigenti e invece ne incontrano spesso la benevola tolleranza. Nella consapevolezza del pericolo che soprattutto nel mondo giovanile, mai come oggi tanto povero di riferimenti ideali, questi tipi di linguaggi finiscano per fare breccia (come altrove in Europa - si veda il caso della Grecia - è già avvenuto), il nostro partito deve impegnare tutte le sue forze nel contrasto puntuale di questi fenomeni, sia attraverso una vigilanza costante nei territori, sia con interventi sul piano culturale diretti a promuovere i valori della Resistenza e della Costituzione e a denunciare ogni forma anche mascherata di fascismo. È necessario promuovere un rinnovato movimento antifascista attivandosi sia negli ambiti storici come l’Anpi, sia attraverso la costituzione di Reti Antifasciste capaci di mobilitare soprattutto le giovani generazioni. Il Prc deve inoltre esercitare, coordinando anche le proprie rappresentanze istituzionali, una continua sollecitazione sulle autorità preposte perché vietino a norma di legge manifestazioni che si richiamano al regime fascista o si fanno espressione di messaggi razzisti o xenofobi.

g) Un partito antirazzista

La società italiana oggi è multiculturale e meticcia, ma lo ignora. I cinque milioni di uomini e donne migranti presenti stabilmente, i 900.000 minori a scuola, le tante realtà produttive fondate sulla loro presenza ne sono concreta testimonianza. La legislazione attualmente in vigore in Italia ha tutte le caratteristiche della legislazione speciale, che tende ad aumentare e a riprodurre all’infinito le divisioni tra immigrati ed autoctoni. Emblematica di questa legislazione è la legge Bossi-Fini, realizzata per frantumare il mercato del lavoro e le norme sul reato di clandestinità. Compito del nostro partito è acquisire gli elementi di tale mutazione per proposte che coinvolgano migranti e autoctoni. In primo luogo occorre aprire i nostri circoli a questo nuovo proletariato, trasformandoli in uno spazio d’incontro in cui far maturare la costruzione di percorsi di lotta. In secondo luogo occorre rilanciare una forte battaglia per l’abrogazione della Bossi-Fini, per la cittadinanza, il diritto al voto da cui sono esclusi quasi 2,5 milioni di persone, per lo sganciamento del contratto di lavoro dal permesso di soggiorno. Occorre rovesciare l’indirizzo della legislazione, superando le politiche securitarie gestite dalle questure e puntando sulle politiche d’inclusione sociale, abbandonando le politiche repressive – a partire dalla chiusura dei Cie – per investire su un welfare inclusivo, sul diritto all’abitare, sul sostegno scolastico. Occorre favorire i processi d’ingresso e permanenza regolare, con permessi per ricerca occupazione, accoglienza e percorsi di autonomizzazione riservati soprattutto a soggetti vulnerabili e a richiedenti asilo. Le stragi degli ultimi mesi sono destinate a ripetersi se non si garantiranno corridoi umanitari d’ingresso per chi arriva da paesi in guerra e se, insieme all’Ue, non si garantirà una procedura di asilo che permetta a chi arriva di fermarsi nel Paese dove trova maggiori opportunità di inserimento.
h) Un partito ambientalista
Al centro della nostra lotta al capitalismo e alla mercificazione integrale delle cose e delle relazioni, che hanno come fine ultimo il profitto e come conseguenza lo sfruttamento del lavoro e della natura, vi è la questione ambientale. La nostra partecipazione nei movimenti, da rifiuti zero alle campagne contro il nucleare e per l’acqua pubblica, per un’agricoltura sostenibile e libera da Ogm, la critica al carattere distruttivo del capitalismo deve essere parte fondamentale della nostra iniziativa, caratterizzante la nostra proposta di alternativa di società. A tal fine è necessario demistificare una certa visione dell’ecologia compatibile con il liberismo, come la cosiddetta “Green economy”, e invece legare la critica al modello di sviluppo dominante alla critica del sistema capitalista e agire per unificare le varie vertenze in una comune battaglia antisistemica.

In conclusione

La necessità di una svolta nel nostro percorso politico è dovuta a fattori oggettivi, la crisi economica che sta vivendo il capitalismo e in particolare il nostro paese, e soggettivi, la situazione di estrema difficoltà che vive la nostra organizzazione. Rifondazione Comunista è davanti ad un passaggio cruciale della sua storia. Le recenti e ripetute sconfitte elettorali, le scissioni e la conseguente dispersione di forze, ne hanno ridimensionati ruolo e presenza organizzata. Dobbiamo con coraggio prendere atto di una situazione di estrema debolezza, senza illuderci di trovare facili scorciatoie o capri espiatori, per uscire dalla condizione di debolezza e difficoltà in cui siamo. La partita non è finita ma è appena cominciata, le ragioni di Rifondazione Comunista sono più valide che mai. Siamo chiamati a un difficile compito, quello di far sì che il patrimonio d’idee, passioni, valori che hanno distinto l’esperienza di Rifondazione Comunista non sia disperso e che le sue energie e forze militanti siano pienamente messe a disposizione per la ricostruzione della sinistra di classe e di trasformazione nel nostro paese, per contribuire alle lotte che in tutta Europa si stanno sviluppando contro la grande coalizione dell’austerità e delle banche oggi dominante. Un compito complesso e con un esito non affatto scontato.
Per questo abbiamo bisogno di una svolta, che ci faccia uscire dalla rassegnazione, dando nuovo slancio e impulso alla ripresa dell’iniziativa politica e della lotta. Una svolta nel lavoro politico, nella sua organizzazione, nella formazione e nel rinnovamento dei gruppi dirigenti. Costruire una sinistra di classe di popolo, per una rivoluzione democratica che riapra la possibilità di uno sbocco progressista alla crisi, la lotta per il socialismo del XXI secolo è il compito che abbiamo davanti. Potremo riuscirci se sapremo anche innovare noi stessi, rimanere uniti e consapevoli che si tratta di un lavoro complesso e di lungo periodo, ma per il quale vale la pena spendersi.

Fabio Amato, Maurizio Acerbo, Fabio Alberti, Veronica Albertini, Beatriz Paula Amadio, Marco Amagliani, Roberto Antonaz, Elena Antonelli, Patrizia Arnaboldi, Imma Barbarossa, Tiziana Bartimmo, Anna Belligero, Ketty Bertuccelli, Maria Lucia Bisetti, Ugo Boghetta, Salvatore Bonadonna, Danilo Borrelli, Antonietta Bottini, Antonella Bozzi, Bianca Bracci Torsi, Stefania Brai, Irene Bregola, Alberto Burgio, Maria Campese, Luca Cangemi, Carmela Cantone, Giovanna Capelli, Mimmo Caporusso, Renato Cardazzo, Ornella Carnevale, Silvana Cesani, Nicola Cesaria, Mauro Cimaschi, Maddalena Cirigliano, Pino Commodari, Michele Conia, Anna Rita Coppa, Nicola Corbino, Stefano Cristiano, Nicola Culeddu, Francesco D'Agresta, Tonino D'Alessandro, Anna D'Ascenzio, Amanda De Menna, Silvia Di Giacomo, Monica Donini, Erminia Emprin, Roberta Fantozzi, Maria Cristina Ferraguti, Paolo Ferrero, Enrico Flamini, Eleonora Forenza, Chiara Fornoni, Roberta Forte, Loredana Fraleone, Alessandro Fucito, Diletta Gasparo, Marco Gelmini, Gabriele Gesso, Rosita Gigantino, Matteo Giordano, Rossella Giordano, Yassir Goretz, Manuela Grano, Claudio Grassi, Dino Greco, Damiano Guagliardi, Tonia Guerra, Igor Kocjancic, Francesco La Bernarda, Nicola Limoncino, Simona Lobina, Ezio Locatelli, Gianluca Lombardi, Marina Loro Piana, Annalisa Magri, Nando Mainardi, Ramon Mantovani, Loredana Marino, Antonio Marotta, Maria Merlini, Pier Paolo Montalto, Cristiana Morsolin, Alfio Nicotra, Claudia Nigro, Simone Oggionni, Sergio Olivieri, Alba Paolini, Nello Patta, Gianluigi Pegolo, Armando Petrini, Francesco Piobbichi, Licia Rasori, Rosa Rinaldi, Augusto Rocchi, Elena Roma, Giovanni Russo Spena, Ada Salerno, Linda Santilli, Rita Scapinelli, Gianluca Schiavon, Roberto Sconciaforni, Monica Sgherri, Bruno Steri, Damiano Stufara, Raffaele Tecce, Giovanna Ticca, Danielle Vangieri e Stefano Alberione, Giuseppe Benassi, Stefania Brunini, Gennaro Cortese, Frank Ferlisi, Cesare Mangianti, Adriana Miniati, Donatella Mungo, Patrizia Poselli.

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