Partito della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 21 - 22 maggio 2011

Per un polo della sinistra di classe

Berlusconi e la destra hanno perso le elezioni amministrative. Il voto di Milano è l’espressione più netta della sconfitta della coalizione e del premier, che aveva caricato il voto milanese del significato di un referendum sulla sua persona. Nelle altre grandi città il centro destra non guadagna, nemmeno là dove il centrosinistra era stato colpito (Bologna) o addirittura travolto (come a Napoli) dagli scandali e dal malaffare. La Lega non concretizza le attese di sfondare a spese dei suoi alleati del Pdl.

La polarizzazione del voto penalizza il “terzo polo” che nelle grandi città, con l’eccezione di Napoli, e nelle maggior parte delle province ottiene percentuali mai superiori al 5%. Un dato che pone molte difficoltà al progetto bersaniano di alleanza di governo con Fini e Casini.

Dove i candidati a sinistra del Pd sono visti come un’alternativa credibile, essi vengono premiati. Questo avviene a Milano, nonostante tutte le contraddizioni di un candidato come Pisapia e della coalizione che lo sostiene. Ancor di più succede a Napoli dove De Magistris batte nettamente Morcone, il candidato di Pd e Sel, e va al ballottaggio.

Nel nord del paese un forte voto di protesta e antisistema è raccolto dal Movimento 5 stelle, grazie alla sua capacità di puntare il dito sulle mille contraddizioni del Pd e sulla sua incapacità in questi anni di condurre una seria opposizione contro il governo, e ciò lancia un monito rispetto alla politica delle alleanze della Fds.

Appare dopo il voto un governo in chiara crisi di egemonia nella società. La richiesta di cambiamento salita da Pomigliano a Mirafiori, dal 16 ottobre della Fiom al movimento degli studenti che il 14 dicembre ha sconvolto Roma, fino alle manifestazioni delle donne, si è manifestata nelle urne. La Sardegna ha nettamente respinto (98 per cento di No, 60 per cento di partecipazione al voto) in un referendum consultivo l’ipotesi di ritorno al nucleare, un risultato che si lega anche alle prospettive per i referendum del 12-13 giugno.

Il quadro internazionale, dalla Grecia alla Gran Bretagna fino agli avvenimenti in Spagna di queste ore che pare voler raccogliere l’esempio dei movimenti rivoluzionari nel mondo arabo, ci conferma non solo la necessità, ma anche la possibilità di nuove e più profonde rotture della pace sociale, sulle quali costruire la nostra prospettiva di alternativa alla crisi economica e sociale. In assenza di ciò possono solo prevalere nuove politiche di feroce austerità, come dimostra la situazione greca.

È netta tuttavia la distanza tra le aspirazioni espresse nelle lotte di questi mesi e la natura della proposta politica di un centrosinistra riverniciato, che obiettivamente emerge egemone da queste elezioni. Non basta battere Berlusconi, bisogna battere la Marcegaglia e Marchionne. Ed è qui che cominciano i problemi, perchè il principale partito di opposizione, il Pd, su tutte queste tematiche difende posizioni non molto distanti da quelle di Confindustria, anzi sogna di formare un asse con essa per creare un'alternativa al centrodestra.

Pochi giorni prima del voto lo sciopero convocato dalla Cgil aveva riempito le piazze, nonostante una mobilitazione rinviata all’infinito (oltre tre mesi dopo il successo dello sciopero dei metalmeccanici del 28 gennaio). Abbiamo visto scendere in piazza settori nuovi e particolarmente sfruttati che dimostravano una combattività inedita: dal commercio alla sanità privata, che si collegavano agli spezzoni tradizionalmente più combattivi dei metalmeccanici e che saldavano le loro rivendicazioni con quelle di un pubblico impiego e di un mondo della scuola sotto attacco.

A questa mobilitazione il governo e il padronato hanno risposto con un silenzio sprezzante, mentre i sindacati complici, come la Cisl, hanno gridato allo scandalo per i disagi creati agli utenti del trasporto pubblico.

La reazione della maggioranza della Cgil è stata la proposta di un “patto per la crescita” rivolto al padronato a e Cisl e Uil nel quale si ripropongono le solite logiche perdenti di indebolimento del contratto nazionale, dell’abbassamento del livello di tutele e diritti, si apre alla logica delle deroghe dai contratti nazionali, nei fatti se non nelle parole. Un regalo per giunta neppure apprezzato dal padronato che tira diritto per la sua strada, e che indebolisce e annulla le stesse ragioni della partecipazione allo sciopero. Qualche giorno prima sul palco del primo maggio a Marsala, la segretaria generale Camusso non aveva battuto ciglio davanti alla rivendicazione della reintroduzione delle gabbie salariali da parte di Bonanni e Angeletti. È grave che questo arretramento sia stato sancito nel Direttivo della Cgil con la partecipazione di una componente sindacale come Lavoro Società, interna alla Fds. Lo stesso dicasi per le posizioni assunte riguardo la guerra in Libia.

La prospettiva di una alternanza di governo spingerà la maggioranza del gruppo dirigente della Cgil a moderare ulteriormente le proprie piattaforme nella speranza di una nuova stagione concertativa. Si tenta di stringere una tenaglia attorno alla Fiom, la cui strategia rischia di entrare in crisi, come dimostra la vicenda Bertone, in assenza di una proposta di generalizzazione e rilancio del conflitto che dia pieno protagonismo ai lavoratori metalmeccanici e non solo. Nostro compito non è osservare passivamente le modifiche negli schieramenti degli apparati, ma intervenire con tutte le nostre forze nei luoghi di lavoro per raccogliere e strutturare la spinta al conflitto che comunque rimane inevitabile, stanti le posizioni di Marchionne, Confindustria, Cisl e Uil.

Ciò che vogliamo indicare è quindi la enorme contraddizione che esiste tra la ricerca di un cambiamento profondo e le proposte dei vertici. Quanto vale per il terreno sindacale e sociale, è presente anche in queste elezioni e la giustificata soddisfazione di fronte alla sconfitta di Berlusconi nella sua roccaforte non deve farci perdere di vista questo punto essenziale.

Dopo il 2008 si disse che la sinistra era sparita. Oggi è invece chiaramente percepibile una ricerca di alternative a sinistra del Pd; il punto è che in assenza di una forza capace, per programma e per consistenza, di raccogliere questa domanda, essa si sfaccetta in una serie di dati consistenti sul piano elettorale, ma del tutto privi di una risposta strategicamente credibile e soprattutto coerente con i bisogni dei lavoratori e dei ceti popolari colpiti dalla crisi. In parte si riflette nel voto ai grillini, il voto alle nostre liste segna una parziale ripresa solo in alcune aree del paese, Sinistra ecologia e libertà raccoglie in modo più omogeneo, per non dire delle sconfitte già subìte dal Pd nelle primarie (Milano, Cagliari) o del caso Napoli. Lo stesso De Magistris va ricordato, rappresenta nell’Italia dei Valori (che in generale arretra) la parte più disposta ad alleanze a sinistra, ed era stato di fatto emarginato da Di Pietro con la candidatura alle europee.

Tutto questo non fa una alternativa, ma una semplice appendice, più o meno ben confezionata, del Partito democratico. Peraltro Sinistra Ecologia e Libertàn pur crescendo rimane troppo al di sotto delle smisurate ambizioni del suo leader (e di sondaggi fin troppo benevoli e pilotati), e qui si manifesterà nel prossimo futuro più di una contraddizione, poiché se Vendola insiste nel suo tentativo di scalare il ponte di comando del centrosinistra attraverso la leva delle primarie, dovrà andare oltre il recinto di Sel (già essa un partito zeppo di contrasti) e aprirsi a ben altri abbracci.

La Federazione della sinistra conferma la sua sostanziale natura di cartello elettorale e tale rimarrà a prescindere dagli ennesimi tentativi di rilancio. Il flusso verso sinistra ci sfiora solo marginalmente collocando il nostro risultato nei Comuni capoluogo poco al di sotto di quello delle regionali. Vi sono territori dai quali il partito è praticamente stato cancellato, mentre in altri emerge un drammatico indebolirsi del suo insediamento sociale e del suo profilo politico. Clamoroso il caso di Bologna, dove due liste in qualche modo alternative al Pd (la lista civica alla quale partecipa Sel e, più nettamente, i grillini) raccolgono il 20 per cento dei voti mentre la Fds si ferma all’1,5), così come è da analizzare il dato di Torino, dove in uno dei punti critici dello scontro di classe, nulla della radicalità espressa nel referendum di Mirafiori e nello sciopero della Fiom viene raccolto nel nostro voto; la collocazione esterna al centrosinistra, per nulla preparata né dalle precedenti scelte (alleanza alle regionali un anno fa), né dall’azione del partito precedente alla presentazione, può essere incolpata del risultato deludente solo in base a una posizione precostituita e non a una analisi obiettiva. Bologna e Torino smentiscono chi vuole leggere il nostro risultato in base all’internità o meno alle coalizioni, peraltro nessuno ha azzardato una proposta diversa per Torino, a fronte della candidatura Fassino schieratosi apertamente con Marchionne.

Restiamo quindi un partito le cui sorti sono strettamente ancorate alla presenza di un corpo militante capace di sviluppare iniziativa nei luoghi di lavoro e di studio, nel territorio. Il sommovimento politico aperto dalle elezioni, che potrebbe accelerare fortemente nei prossimi mesi, ci permette di investire questa nostra forza in un quadro più aperto in cui la richiesta di cambiamento torna a farsi sentire. Il vero e decisivo pericolo nella nuova fase è che di tali speranze noi non raccogliamo gli aspetti più radicali, ma solo le inevitabili illusioni in un centrosinistra riverniciato, che affidandosi a qualche “volto nuovo” possa far dimenticare i disastri delle precedenti esperienze di governo. A tale pericolo non si risponde con alchimie tattiche ed organizzative, che già ci hanno fatto perdere due anni in un surreale dibattito all’interno di una Federazione della sinistra così artificiale da non poter neppure eleggere regolarmente i propri organismi dirigenti interni.

Tantomeno si risponde con le geometrie variabili delle alleanze elettorali di governo, che gettano il partito in una discussione sul nulla, proponendo ipotesi di schieramenti per elezioni che non si sa neppure in quali condizioni (schieramenti, leggi elettorali, ecc.) si terranno, e per governi che, al di là delle variabili, non potranno che configurarsi come governi dominati dagli interessi confindustriali e da una politica estera persino peggiore di quella di Berlusconi (si veda la vicenda libica e il comportamento del Pd).

Il nostro investimento deve essere a medio e lungo termine, rivolto a costruire quella rappresentanza di classe oggi assente, contribuendo in modo autonomo alla battaglia contro le destre ma tenendo ferma la barra sul terreno degli interessi dei lavoratori e delle classi sfruttate.

Il progetto a cui lavorare è quello di un polo della sinistra di classe che si candidi a rompere l’alternanza bipolare interna alle compatibilità. La crisi profonda delle destre pone come necessità stringente quella di costruire un’alternativa ai futuri governi confindustriali che vedranno nel partito di Bersani il loro perno fondamentale.

Il terreno non è quello delle geometrie elettorali, ma quello di una battaglia a tutto campo per l’egemonia nel movimento operaio, nello spazio aperto tra la radicalità del conflitto di classe come si è espresso nelle sue punte più alte, dal 16 ottobre allo sciopero della Fiom, e la subordinazione alle politiche confindustriali che permea il Pd, come confermato in tutti i momenti decisivi dai referendum di Pomigliano e Mirafiori in avanti. Nessuna riaggregazione vera a sinistra è possibile fintanto che questa subordinazione non viene rotta.

Il “fronte democratico” contraddice questa idea, e ci riporta sull’asse inclinato del governismo che avevamo abbandonato a Chianciano e che ha ridotto il Prc ai minimi termini. Per queste ragioni chiamiamo i militanti del partito a respingere nel prossimo congresso un’ipotesi che ci riporterebbe su strade che già due volte si sono dimostrate fallimentari. Il fatto che la maggioranza del gruppo dirigente tenga assieme il rilancio della rifondazione comunista, l’espansione della Fds, il Polo di sinistra e l’alleanza con il Pd è la dimostrazione di una ambiguità di fondo dietro la quale si nasconde il ritorno del sempre uguale. Se la svolta nata a Chianciano è stata soffocata nella culla, le esigenze più autentiche che l’avevano generata rimangono valide e devono, in un quadro mutato, essere alla base del dibattito congressuale che si apre.

Claudio Bellotti, Alessandro Giardiello, Andrea Davolo, Mario Iavazzi, Lidia Luzzaro, Jacopo Renda, Dario Salvetti.

Respinto con 7 voti a favore

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