Partito della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 17 - 18 luglio 2010

Proposto da: Fosco Giannini, Urbano Boscoscuro, Francesco Maringiò, Gualtiero Alunni, Nadia Schavecher.

La grande crisi capitalistica sta spingendo le classi dominanti europee - come in Grecia - verso soluzioni socialmente di destra : potrebbero esserlo anche politicamente e ciò dipende dalla reazione delle masse popolari.
In Italia abbiamo alcune peculiarità:

a) Una debolezza strutturale del capitalismo italiano rispetto agli altri capitalismi occidentali. Il modello affermatosi negli anni 80 della piccola e media impresa diffusa (a partire dal nord-est) è divenuto prevalente con lo smantellamento della grande industria pubblica (attuato in buona parte da governi di centro sinistra negli anni 90); esso si avvaleva delle periodiche ‘svalutazioni competitive’ della lira, divenute impossibili con il passaggio alla moneta unica dell’euro. Il peso della piccola e piccolissima impresa è divenuto prevalente. Per l’esiguità delle sue dimensioni è sempre meno capace di sostenere la concorrenza sul mercato mondiale. La soluzione del capitalismo italiano è stata reazionaria. Ha investito poco in innovazione e nuove tecnologie, ha vissuto di bassi salari, supersfruttamento, lavoro sempre più precarizzato (opera anche dei governi di centro-sinistra, cfr. il pacchetto Treu nel 1997) e nero. Il nanocapitalismo italiano è stato la base sociale della Lega Nord.

b) Un’irrisolta ‘transizione politica italiana’, cioè la fuoriuscita completa dal quadro costituzionale politico della ‘prima repubblica’ e il passaggio compiuto ad una forma costituzionale fondata sul maggioritario bipolare, il presidenzialismo, una costituzione liberista e proprietaria, antitetica a quella sociale del 1948 (come mostrano gli espliciti attacchi dei ministri di Berlusconi all’art. 1, all’art. 41, ecc.).

c) Una profonda crisi morale, un sistema politico fondato su spese eccessive e clientele, ipertrofico rispetto agli altri capitalismi occidentali. Il berlusconismo, l’aperto uso del pubblico per interessi privati, ha fatto il resto.

L’Italia attraversa quindi una crisi nella crisi. Data la debolezza strutturale del capitalismo italiano, la distruzione del settore pubblico dell’economia, le classi proprietarie scelgono l’arroccamento a difesa dei propri privilegi. La manovra di Tremonti è un modello esemplare in questo senso : si colpiscono gli interessi popolari, non si intaccano rendite e redditi elevati.

Il modello Marchionne tentato a Pomigliano è l’espressione più chiara delle tendenze del capitalismo italiano, alla cui guida si pone ciò che è rimasto della grande industria privata, la FIAT. A Pomigliano – e ora a Melfi – si tenta l’affondo antioperaio. Il capitale richiede piena libertà di manovra, totale potere sull’uso della forza lavoro in fabbrica, praticando rappresaglie e licenziamenti politici. Contro la scelta della Fiom a Pomigliano, che ha colto il significato politico dell’attacco di Marchionne, si è schierato un blocco proprietario che va ben al di là della compagine berlusconiana e comprende, oltre i sindacati gialli e filo padronali, un’ampia area del PD e tutta la grande stampa. La resistenza operaia è stata perciò tanto più importante.

La grande crisi capitalistica è destinata a durare a lungo. Al di là di alcuni fenomeni occasionali, di giochi di potere e ambizioni personali, al fondo delle fibrillazioni della compagine governativa – scontro Berlusconi-Fini, tensioni tra PdL e Lega – vi è la crisi, che mette in difficoltà la piccola e media impresa del nord-est e non solo (ci dice qualcosa il suicidio di oltre una decina di piccoli imprenditori del nord-est? Sono decine e centinaia le piccole imprese che chiudono, con poco clamore ancora, poiché intervengono i paracadute di precedenti riserve familiari). Il fatto più evidente è stato lo scontro tra governatori regionali e rappresentanti delle autonomie locali con Tremonti, che alla fine è riuscito ad imporre la sua linea politica di pesanti tagli di trasferimenti alle regioni.

Il federalismo fiscale (la legge quadro fu approvata lo scorso anno con i voti, oltre che del centro-destra, dell’Idv e l’astensione del PD, e solo una manciata di contrari dell’UDC) rivendicato dalla Lega nord acuirà la competizione e lo scontro tra regioni per la ripartizione delle risorse, mettendo in crisi l’unità del Paese.

Le classi proprietarie italiane non costituiscono un blocco unico e sono divise circa il rapporto con la UE.

Nella UE si è affermata la linea economica del capitale a base tedesca (la Germania copre oltre ¼ del pil della UE) che ha imposto – nella crisi del debito sovrano greco, portoghese, spagnolo, ecc., che esprimeva anche l’attacco del dollaro all’euro nella competizione interimperialistica tra le due aree valutarie - una politica di lacrime e sangue per tutti i partner subalterni della UE. Politica alla quale si sono piegati tanto i governi di destra che quelli – e spesso con maggior zelo - di centro sinistra (Zapatero, Papandreu).

La borghesia italiana non si mostra in grado di fornire una via d’uscita dalla crisi, che non sia quella di confermare il modello di attacco alle condizioni delle masse, tagliando le spese sociali (che tecnicamente sono salario indiretto), le pensioni (salario differito) e i salari diretti e chiedendo totale e assoluto potere sulla forza lavoro. Un modello che comprimendo ulteriormente i consumi interni punta all’esportazione sui mercati emergenti. La FIAT è la punta di diamante di questa operazione e si propone alla guida del capitalismo italiano, egemone sulla piccola e media impresa.

Al di là di questo, non vi è nessuna politica industriale italiana. Lo smantellamento delle imprese pubbliche e il rifiuto di un intervento pubblico nell’economia continuano ad essere gli assi portanti non solo del governo Berlusconi, ma anche dei partiti dell’opposizione parlamentare (PD, IDV, UDC). L’unico soggetto che abbia provato a proporre un’idea di rilancio dell’intervento pubblico è stata la CGIL nel suo ultimo congresso, e appare oggi priva di una sponda politica.
Il governo berlusconiano del malaffare (dalla protezione civile alla ‘p3’, con un elenco di ministri e viceministri costretti alle dimissioni) perde consensi sia rispetto alla propria base naturale di classe (dal grande al piccolo capitale), che rispetto a quelle masse conquistate dalla figura e dal mito dell’uomo più ricco d’Italia. Le politiche antipopolari, i tagli alle spese, i tentativi di tagliare le tredicesime rendono meno solido il consenso.

La frazione borghese ‘illuminata’, quella che fa capo al gruppo De Benedetti-L’Espresso Repubblica, e che ha in Scalfari uno dei suoi principali esponenti, cerca soluzioni di ricambio, cerca una repubblica borghese ‘normale’, senza le intemperanze e gli eccessi del berlusconismo.

In periodi di crisi economica l’ostentazione della corruzione – come accade col governo Berlusconi - può essere pericolosa. E così il conflitto di interessi, lo sfrontato uso privato del bene pubblico. Si va componendo quindi all’interno delle classi proprietarie uno schieramento, ancora magmatico, che pensa ad una fuoriuscita dal berlusconismo, senza modificare la politica neoliberista. Si può ipotizzare che, se la crisi economica si accentuerà, magari con un attacco speculativo al debito pubblico italiano (come è stato per Grecia e Portogallo), potrebbe darsi una soluzione simile ad un 25 luglio 1943, un fronte ampio liberista e proprietario, ma vestito di normalità, senza eccessi populistici, e più in linea con la grande borghesia europea. Nel PdL vi è già chi si candida al ruolo di Badoglio…

Tuttavia il berlusconismo, con i suoi eccessi e intemperanze, col capo carismatico, col presidenzialismo de facto, ha alla base del suo successo ragioni non effimere né casuali: solo esso è riuscito a mediare tra le diverse frazioni capitalistiche italiane e ad ottenere consenso popolare. La sua affermazione è stata accompagnata e favorita dalla personalizzazione estrema della politica, dalla trasformazione in senso presidenzialistico degli statuti delle regioni italiane (1999), dalla scelta di adottare il modello USA delle primarie, per cui è il personaggio e non il programma di un’organizzazione collettiva come il partito politico ad essere in primo piano. Il superamento del berlusconismo, in quanto leadership carismatica del singolo, potrebbe richiedere l’affermazione di un altro leader della provvidenza, di un altro capo carismatico, capace di catturare consenso popolare. Al berlusconismo ‘cattivo’ si potrebbe contrapporre un berlusconismo ‘buono’, al Berlusconi di destra un Berlusconi di sinistra…

Non si può ignorare che questa è una delle possibili soluzioni cui stanno lavorando alcune frazioni del capitale che fanno capo al gruppo Repubblica-l’Espresso. E che – indipendentemente anche da ciò che soggettivamente esprime il governatore pugliese – egli viene oggi sponsorizzato come possibile alternativa al berlusconismo di destra, in un modello politico che, con la definitiva fuoriuscita dalla Repubblica del 1948, si pensa fondato sulla delegittimazione dei partiti politici e l’affermazione del rapporto diretto tra il capo e le masse. Si moltiplicano in modo preoccupante le dichiarazioni di Vendola sui partiti politici come luoghi della morta gora, stantii, decrepiti, cadaverici.

La crisi italiana, in cui vengono al pettine i nodi di una transizione reazionaria ancora incompiuta - dalla Repubblica democratico-sociale del 1948 alla repubblica neoliberista presidenziale - e quelli della grande crisi capitalistica si presenta aperta a diverse possibili soluzioni, in una situazione ancora magmatica e in movimento.

A. Il colpo d’ala berlusconiano – con una messa a tacere dell’opposizione finiana e una ristrutturazione del Pdl.

Ma ciò non è facile. La crisi economica è reale e non si ferma con i proclami. E la borghesia italiana potrebbe non gradire la permanenza di un governo che non è più in grado di mediare tra le diverse frazioni e non cattura più il consenso. E può essere screditato a livello internazionale.

Di qui le possibili soluzioni borghesi di alternativa al berlusconismo senza intaccare il dogma neoliberista.

B. Larghe intese proposte da Bersani.

C. Nuova leadership del fronte antiberlusconiano affidata a Vendola nelle prossime elezioni (anticipate o meno che siano).

L’opposizione di classe

Sul terreno sociale e culturale si esprimono resistenze, e volontà di opposizione alle politiche capitaliste. Il 36% di NO al piano Marchionne a Pomigliano, contro un enorme blocco di forze, dalla grande stampa al Pdl a gran parte del Pd, ne è un esempio. E le lotte operaie dall’Asinara a Melfi, da Torino a Milano. Il milione di firme raccolte nella campagna per l’acqua-bene comune è un altro. Il potenziale di opposizione sociale non è stato del tutto azzerato. La resistenza è possibile, ma bisogna registrare l’enorme divario tra potenziale di opposizione sociale e espressione politica di essa. C’è oggi un drammatico vuoto politico.

In questa situazione di crisi è esiziale la mancanza di un forte e organizzato partito operaio di classe, del partito politico comunista. La crisi economica, politica, sociale, morale italiana richiede una direzione politica di classe, che indichi uno sbocco, tappe intermedie, un programma di transizione. Un partito comunista capace di essere il perno di una politica di alleanze sociali e politiche, capace di costruire un fronte di resistenza popolare e di indicare uno sbocco politico concreto.

Questa forza politica comunista oggi non c’è, è divisa in diversi rivoli; l’unità dei comunisti, a partire dall’unificazione di Prc e Pdci è stata osteggiata e rimossa, in un modo o nell’altro, dalla maggioranza del Prc e dall’intera segreteria nazionale, lasciando incancrenirsi una situazione bloccata e senza sbocco visibile.

Sulla scena politica di questo Paese squassato da una crisi multilaterale i comunisti e le forze della sinistra di classe (e cioè anticapitalista e per il socialismo) non hanno voce, né proposta politica.

Occorre al più presto ricostruire un partito comunista degno di questo nome, un partito che, guardando alla prospettiva del XXI secolo, con tutti i nuovi aspetti e questioni che la fase attuale dell’imperialismo mondializzato pone, sappia recuperare e rilanciare le esperienze migliori e più avanzate del comunismo del ‘900 e della storia e della cultura del movimento comunista italiano e della “sinistra di classe”, che contribuì allo sviluppo del movimento operaio e popolare nel decennio 1968-77. Un partito comunista non si costruisce in laboratorio, ma nel fuoco della lotta. È la situazione di crisi mondiale e la specifica e peculiare crisi italiana dentro di essa che lo richiede.

Occorre rilanciare con forza, superando preclusioni ideologiche, settarismi, manovre di ceti politici autoreferenziali, il percorso di unità dei comunisti per la costruzione di un rinnovato partito comunista.
La Federazione della sinistra

Bisogna prendere atto che, nel pieno della crisi economica e politica italiana, la FdS non è decollata come soggetto politico. Si contano forse sulle dita di una mano le iniziative politiche che essa ha assunto in tutto il territorio nazionale. Sono rare eccezioni le province e le regioni in cui si sono costituiti formalmente dei coordinamenti, e in gran parte dei casi sono rimasti sulla carta. Ha prevalso all’interno del Prc o il rifiuto pregiudiziale per un’alleanza con i comunisti italiani, percepiti come ‘vetero’, estranei alla cultura del Prc, ancora fortemente impregnata di bertinottismo nelle sue diverse versioni, o il tentativo di annessione e azzeramento di essi. Oppure si è tentato di stravolgere ciò che inizialmente era la federazione – che, in quanto tale, è per definizione accordo tra parti politiche distinte, e queste sono nella stragrande maggioranza il Prc e il Pdci, con una presenza pressoché simbolica di Socialismo 2000 e, spesso incerta e contraddittoria, di Lavoro e Solidarietà. Il coordinamento della FdS si costituiva solo se intervenivano altri improbabili soggetti (anche singoli e non rappresentativi di alcun partito o forza organizzata).

Il mandato del Cpn di aprile che affidava alla segreteria il compito di costruire coordinamenti della Fds è stato ampiamente disatteso dalla segreteria, al cui interno si sono espresse posizioni apertamente critiche verso il processo federativo e il suo imminente congresso. La FdS è stata osteggiata, vi sono state forti resistenze al processo federativo sia nel centro che in periferia, con motivazioni di destra e di ‘sinistra’.

A parole si è affermata la necessità dell’unità, nella pratica essa si è boicottata. E da parte di un settore del Prc si è promossa un’alleanza che superava nei fatti la FdS per costituire un altro soggetto (cfr. appello per la sinistra unita).

In conclusione la Fds si è bloccata perché non si voleva l’incontro col Pdci.

Da ‘sinistra’ si è avversata la Fds nel timore che essa sostituisse il progetto di unità dei comunisti.

Da un lato e dall’altro si è operato in una logica miope e settaria.

Abbiamo sempre sostenuto (cfr il nostro doc al cpn di settembre 2009) che i processi della Fds e dell’unità dei comunisti sono distinti e convergenti. Che l’unità dei comunisti era il mezzo migliore, il perno essenziale intorno a cui costruire un ampio fronte di resistenza e di lotta sociale e politica. E ciò rimane tuttora valido.

La Federazione è un percorso di alleanza tra soggetti che mantengono la loro autonomia politica e organizzativa e stringono un patto su un programma politico e sociale. Essa dovrebbe essere meno di un partito politico, ma più di una mera alleanza elettorale.

Se si vuole una ripresa della Fds è necessario liberare il Prc della pregiudiziale anticomunista verso il Pdci. Rimuovere tale questione, fingere che non esista, non favorisce nessun processo unitario, né della Fds, né della costruzione del partito comunista. I due processi distinti e convergenti vanno rilanciati insieme. Al di fuori di ciò vi sarà la colpevole assenza di una forza comunista e di un fronte della sinistra di classe che abbia il minimo di forza, di massa critica, per rispondere alle pressanti questioni che la crisi italiana pone.

Un programma politico di transizione

I comunisti hanno il compito, oltre che di promuovere, sostenere, organizzare le resistenze e le lotte di classe, di darsi un programma politico per questa fase. Ne indichiamo schematicamente i punti:

- Sostegno alla FIOM e al sindacalismo di base nella resistenza agli attacchi padronali, in un progetto generale di ricomposizione/ricostruzione di un sindacato di classe, democratico e di massa.

- Organizzarsi come componente comunista di classe all’interno della CGIL per spostarne l’asse politico verso una più coerente lotta sindacale – che comprenda anche il recupero salariale – e per sviluppare i punti programmatici del piano del lavoro approvati dall’ultimo congresso, quali gli investimenti per la ricerca, il rilancio della scuola pubblica e della formazione. La CGIL è oggi la più grande organizzazione sindacale, è l’unica grande forza organizzata che pone, seppure in termini generici, la questione dell’intervento pubblico in economia. Per questo una battaglia organizzata dei comunisti nella CGIL diviene un fronte importante.

- Battersi per un intervento pubblico e sotto controllo democratico e sociale in economia, ricostruendo la presenza pubblica nei settori strategici quali, ad esempio, quello delle telecomunicazioni, contrastando i licenziamenti in atto alla Telecom rilanciando la programmazione pubblica e democratica. Questo obiettivo, che oggi appare molto difficile e lontano, ha comunque un forte valore simbolico, e può essere subito concretamente praticato, a determinate condizioni, a livello di regioni.

- Ritrovare le ragioni della questione meridionale

- Battaglia per la difesa e il rilancio della Costituzione repubblicana, per il suo carattere democratico-sociale e non liberista, per la centralità del parlamento contro il presidenzialismo, per il ripristino del sistema elettorale proporzionale puro senza forme di sbarramento.

- Riprendere con forza la questione morale come questione politica. L’interesse pubblico, sociale, e non quello privato deve guidare l’agire dei politici e dei funzionari dell’amministrazione pubblica in tutti i settori.

- Politica di pace, ritiro dai teatri di guerra a cominciare dall’Afghanistan.

RESPINTO CON 5 VOTI A FAVORE

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