Partito della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 19 e 20 aprile 2008

Relazione di Franco Giordano

I motivi della sconfitta, i luoghi da cui ripartire
Compagne e compagni,
credo sia giusto e utile disporsi, in questo organismo, ad una assunzione collettiva di responsabilità. Propongo quindi che la segreteria si presenti rimettendo il proprio mandato, con l'indizione del congresso nazionale dal 10 al 13 luglio.
Dopo l'esito disastroso delle elezioni politiche, ho avanzato subito la proposta di anticipare il congresso, perché a fronte della catastrofe è necessario che a prendere la parola siano tutte le compagne e tutti i compagni, in un percorso partecipato e democratico. Non inventiamoci - lo dico con responsabilità e passione - soluzioni che mirano a ostacolare questo processo prefigurando sin d'ora l'esito del congresso. Non costruiamo un diaframma, ora, al dispiegarsi pieno della democrazia congressuale. Insisto, la parola spetta a tutte le compagne e a tutti i compagni. Il gruppo dirigente dimissionario deve disporsi con umiltà all'ascolto. Ma deve anche saper evitare che la discussione, necessariamente approfondita, forse aspra, abbia effetti distruttivi. Che si risolva in un cupo processo di dissoluzione. Significherebbe sommare catastrofe a catastrofe. Scontiamo già un drammatico deficit di consenso: modalità di discussione distruttive, ridotte a cieca conflittualità tra aree o correnti, tutte interne a logiche autoreferenziali e rancorose, sarebbero esiziali. Non ci sarebbe appello.
Tra noi non ci sono vincitori e vinti. A fronte di questa catastrofe delineare una simile immagine sarebbe grottesco. Siamo stati sconfitti tutti, qualunque fosse la posizione dalla quale, ciascuno di noi, si è cimentato nella direzione politica di questi due anni: dal partito ai gruppi parlamentari alle postazioni di governo. E' preciso dovere di tutti noi, oggi, garantire, pur nella diversità delle rispettive posizioni, la tenuta unitaria del partito: la cura verso quanti, già da ora, intendono intraprendere con noi la dura traversata del deserto che ci attende.
Per parte mia intendo, con scelta del tutto unilaterale, evitare ogni forma di personalizzazione che ridurrebbe la nostra discussione a mera futilità. Per quanto mi riguarda personalmente, in questi giorno ho assistito con amarezza a una campagna, tutta giocata sugli organi di stampa, che attribuiva a me e ad altri compagni l'intenzione di sciogliere questo partito. E questa accusa è entrata in corto circuito con le analisi della sconfitta subìta, è stata annoverata tra le cause principali della disfatta. Sfido chiunque a trovare un mio scritto, un mio intervento, una qualsiasi parola in questa direzione. Non ve ne sono.
Penso che da questo Cpn debba arrivare subito l'indicazione di organizzare in ogni territorio discussioni degli organismi dirigenti e dell'intero partito a tutti i livelli, ma anche assemblee aperte, di massa, con tutti coloro che si sono cimentati nell'esperienza politica della costruzione di una sinistra unitaria. Perché fuori dal nostro perimetro c'è la stessa angoscia, lo stesso sgomento misto a una volontà di reazione. C'è persino in chi non ha creduto in noi, delegando al Pd una sorta di consenso passivo in chiave antiberlusconiana oppure affidando la sua criticità all'astensione.
E' proprio dalla bellissima assemblea di oggi a Firenze che dobbiamo ripartire. Questa iniziativa ci chiede di scommettere sulla partecipazione delle donne e degli uomini della sinistra unita. Dobbiamo attivarci con tutta la nostra energia, da subito, per fare degli appuntamenti del 25 aprile e del primo maggio l'occasione per una ripresa immediata dell'iniziativa politica diffusa. Dobbiamo investire, con ogni mezzo a nostra disposizione, sulla ripresa di una cultura democratica e antifascista, sulle ragioni del conflitto sociale nella società contemporanea. E' proprio su questi fronti che bisogna riannodare immediatamente i fili di una possibile e necessaria risposta dal basso e di massa al tentativo di sfondamento finale da parte di una cultura autoritaria che si propone di espungere dalla scena politica del paese e persino dalla sua storia tanto il conflitto quanto la sua rappresentazione.
Dobbiamo impegnarci al massimo, con convinzione e determinazione per assicurare la vittoria di Francesco Rutelli nel ballottaggio di Roma. Ora è chiaro che nella Capitale si gioca una partita decisiva e di portata nazionale. Si tratta qui di capire se è ancora possibile far vivere esperienze di vertenzialità diffusa, movimenti, forme di partecipazione democratica. Non possiamo permettere il dilagare della peggiore destra. Perché l'Italia che ci viene consegnata da queste elezioni è un paese che ha subito una impressionante svolta a destra, una sterzata inaudita, di dimensioni e portata mai viste dal dopoguerra a oggi. A noi, lo so, può sembrare una banalità il dirlo, eppure non è certo questo l'oggetto delle disamine mediatiche, non è di questo che discutono e si preoccupano i grandi giornali e i talk show, ed è, la loro, una distrazione assai eloquente.
La destra di Berlusconi dispone dopo questo voto di una forza enorme, e al suo interno si registra una crescita più che significativa ed estremamente inquietante della Lega, con tutto il suo corredo di culture regressive, xenofobe, antisolidariste, a tratti apertamente reazionarie. Nella storia repubblicana non esiste alcuna analogia possibile, né per le dimensioni della vittoria della destra, né per lo squilibrio subìto dai rapporti di forza né, soprattutto, per egemonia culturale. Dietro la retorica e la foglia di fico della "semplificazione del sistema politico" si cela una realtà minacciosa e drammatica. Il Pd ha impresso una brusca accelerazione verso l'americanizzazione del sistema politico italiano. Sembra non accorgersi del quadro disastroso che questa svolta ha partorito. Se per noi è una catastrofe per loro è, nella migliore delle ipotesi, un secco insuccesso. La forma concreta che l'americanizzazione ha assunto, in Italia, altro non è che questo violento, massiccio, traumatico spostamento a destra. Trovo persino incredibile che nessuno segnali l'esistenza di un nesso evidente tra la cocente sconfitta della sinistra e il trionfale risultato di Berlusconi e della Lega. Non è così. La correlazione c'è, ed è strettissima. Se si cancella la sinistra, sfonda la destra. Se cede la sinistra, resta in campo solo il populismo della destra berlusconiana e della Lega. Si è aperta una curiosa e singolare discussione su chi possa rappresentare oggi le istanze di trasformazione sociale e di tutela del mondo del lavoro proprie della sinistra nella sfera istituzionale. Il Pd non può farlo. E' interno a un orizzonte strategico che nega la trasformazione e rimuove il conflitto. La sua logica è quella della razionalizzazione e del governo dell'esistente, non della sua trasformazione. Ma non si può esportare in Italia - noi comunque lavoreremo per contrastarlo - la logica propria del modello americano: la costruzione cioè di modalità lobbistiche. Una concezione utilitaristica della politica che separa gli interessi concreti dai progetti di alternativa.
Oggi, al contrario esatto, contrastare seriamente la precarietà significa mettere in discussione la forma concreta di produzione di questo capitalismo. Intervenire sui salari significa fuoriuscire dal quadro stretto della logica della competitività di prezzo. Rivendicare i diritti civili è tutt'uno con il ricostruire una dimensione laica della politica.
Per stare al tema sinteticamente e per semplificare, io vedo tre ragioni all'origine della nostra sconfitta. Due, per così dire, "oggettive" e una, che tutte le sovrasta e le sovraordina, invece "soggettiva". Prima di tutto lo scarto tra le aspettative di cambiamento di cui ci eravamo fatti portatori e i risultati profondamente deludenti dell'azione di governo. Indipendentemente dal lavoro positivo svolto dai nostri compagni nella delegazione di governo. Questo scarto è stato avvertito come ancor più cocente perché venivamo da cinque anni di opposizione al governo Berlusconi, da una stagione grande di protagonismo dei movimenti e di diffusa conflittualità sociale nel paese. Tanto più alte le attese maturate in quel ciclo, tanto più violenta la delusione. La posta in gioco nelle elezioni del 2006 - lo vediamo oggi con massima chiarezza - non era solo la vittoria contro Berlusconi: c'era una diffusa speranza di cambiamento generale del paese, che all'atto pratico si è rovesciata nel suo opposto. Faccio tre esempi eloquenti, tre grandi manifestazioni: quella di Vicenza contro la base, il gay pride, l'immensa manifestazione contro il precariato del 20 ottobre. Di tutte e tre quelle manifestazioni noi eravamo stati, a diversi livelli, protagonisti. Dell'ultima, la più grande manifestazione contro il precariato degli ultimi decenni, eravamo tra i principali organizzatori. Ma quando abbiamo cercato di tradurre i temi di quelle manifestazioni, le istanze sociali di cui ci eravamo fatti interpreti, nell'azione di governo, ci siamo scontrati contro un muro di impermeabilità. E ciò ha prodotto disincanto, delusione, disaffezione, passività, astensionismo. Negata negli impegni della vigilia, si è prodotta la solita politica dei due tempi - prima il risanamento, poi la redistribuzione - salvo poi fermare le macchine al momento di passare dalla prima alla seconda fase, dal risanamento e dai nuovi sacrifici alla redistribuzione e alla restituzione, al risarcimento sociale.
Non è certo difficile, oggi, interpretare quel muro di impermeabilità, alla luce della forma concreta che ha assunto il Pd nel corso della campagna elettorale. E' sin troppo facile spiegarsi quella sorda resistenza, dopo aver visto i temi e le candidature schierate da quel partito, dopo aver registrato la presenza nei suoi ranghi di tutte le diverse anime di Confindustria: un en plein che non era mai riuscito neppure alla Democrazia cristiana. E' in questo contesto che nasce e prende corpo il paradigma fondamentale del Pd. Ed è per questo che la ricostruzione della sinistra non può che avvenire in un orizzonte strategico nettamente distinto da quello in cui si muove il Partito democratico. Io credo che questa dimensione, questa scesa in campo di tutte le aree confindustriali, questa martellante insistenza degli organi di stampa più vicini all'azienda sulla necessità di inaugurare forme di intesa tra la destra e il Pd, persino a fronte della vittoria netta di Berlusconi, si profili proprio perché emerge una crisi internazionale di carattere non solo congiunturale: crisi finanziaria, di liquidità generalizzata, il cui motore recessivo parte dall'America. All'interno di questa crisi della globalizzazione possono tornare ad avere un ruolo e una funzione, pur in forme diverse da quelle del passato, i governi nazionali.
Ci troviamo così di fronte a un'alternativa secca: la crisi può avere effetti devastanti, abbattendosi sui soggetti più deboli, oppure può spingere verso la riapertura di uno spazio pubblico in economia, verso la sottrazione al mercato dei beni comuni, verso un mutamento del paradigma produttivo che comporti l'investimento su alternative economiche e sul mutamento degli stili di vita. I nuovi referenti sociali del Pd lavorano, all'interno di questa alternativa, per privilegiare la competitività del sistema delle imprese e per forzare brutalmente la mano con l'obiettivo di stravolgere strutturalmente il segno delle relazioni sindacali, mettendo in mora il contratto nazionale e persino modificando la natura stessa del movimento sindacale. Come attestano le esplicite dichiarazioni di ieri di Montezemolo che, con un gesto gravido di conseguenze sottrae al sindacato persino la legittimità della rappresentanza. Dalla politica alla società. In questo quadro di crisi della globalizzazione torna potentemente in campo la proposta complessiva avanzata dal movimento No Global, mentre la Sinistra appare non attrezzata culturalmente e socialmente per misurarsi con una simile fase. E' infatti sconfitta sia quando si presenta nella forma classica del partito, come nel caso del Pcf, sia quando invece tenta esperimenti diversi, come Izquierda Unida in Spagna o la Sinistra Arcobaleno in Italia.
Il secondo elemento "oggettivo" alle origini della nostra sconfitta è stato l'utilizzo truffaldino, disonesto e persino cinico della campagna sul voto utile da parte del Pd. La distanza tra questo partito e la destra è sempre stata incolmabile, e i leader del Pd ne erano perfettamente coscienti. E' stato messo in scena un inesistente "testa a testa", il Pd ha così giocato freddamente la carta della nostra distruzione solo per garantirsi quella soglia minima di consensi, sotto la quale sarebbe entrato in crisi il suo intero progetto. E' stata una politica furbesca, ma a mio parere è stata anche una strategia miope. La batosta inflitta alla sinistra non ha comportato la vittoria del Pd e neppure un sostanziale miglioramento delle sue posizioni. I frutti della nostra sconfitta sono stati raccolti dalla destra. La conseguenza dell'offensiva truffaldina sferrata contro di noi è stato lo sfondamento pieno della destra. Per quindici anni due fronti si sono mantenuti più o meno alla pari. Oggi questo equilibrio è saltato, spostandosi decisamente a vantaggio della destra. Forse, con pacatezza, si può discutere di ciò almeno con alcuni dirigenti del Pd. Sulle conseguenze del "voto utile" per le nostre sorti elettorali non è possibile alcun dubbio. Basta mettere a confronto i risultati che abbiamo raggiunto, nello stesso giorno, nelle stesse città, nelle elezioni politiche e in quelle amministrative, dove pure, tradizionalmente, i nostri risultati sono inferiori a quelli delle politiche. Siamo invece, in questo caso, di fronte a un drastico rovesciamento. A Roma come a Massa, a Foggia come in decine di comuni della Campania, solo per fare alcuni esempi, il consenso nelle amministrative si rivela doppio, triplo, in qualche caso addirittura quadruplo di quello nelle politiche. Dati che non richiedono ulteriori commenti e che comunque non servono a lenire le nostre difficoltà anche sul terreno delle amministrative.
Ma se queste sono, schematicamente, le ragioni "oggettive" della sconfitta, il vero tema centrale per noi è il problema "soggettivo", le nostre difficoltà, la nostra inadeguatezza. E' questo il vero oggetto della nostra discussione. Perché tutto il resto, le conseguenze del "voto utile" e persino quelle della delusione provocata dal governo Prodi, sarebbero state assai meno devastanti senza questa nostra difficoltà soggettiva. In questo senso siamo stati davvero un fuscello nella tempesta e, come è stato giustamente detto nella discussione sul voto, siamo stati «percepiti come un residuo». Questa inadeguatezza, credo che derivi dall'intreccio di due fattori: la difficoltà nel delineare una ipotesi credibile di alternativa di società e, contestualmente, il nostro largamente insufficiente radicamento sociale e territoriale. Un orizzonte di alternativa di società, per essere credibile, non può essere semplicemente evocato: deve essere vissuto, praticato. Deve essere partecipato e sentito, a livello emotivo oltre che politico, come un qualcosa di vivo e collettivo. Le modalità con cui siamo stati costretti a costruire in fretta e furia la Sinistra Arcobaleno, incalzati dall'appuntamento elettorale, scontando la disposizione strumentale e utilitaristica di alcune delle forze che partecipavano con noi a quel progetto, ci hanno impedito di lavorare su questo terreno. Hanno reso impossibile costruire qualcosa che fosse sentito dagli elettori come un loro patrimonio, un loro progetto, una loro casa comune. Io - ma la mia è solo un'opinione - penso tuttavia che se fossimo andati da soli alle elezioni il risultato non sarebbe stato dissimile. Al contrario, un maggior numero di competitori si sarebbe rivolto a una stessa area, già esigua, sulla quale la sirena del voto utile, di fronte a una ulteriore frammentazione, avrebbe avuto un richiamo ancora più allettante.
La Sinistra Arcobaleno ha pagato un forte deficit di tenuta sociale e di progettazione in termini di alternativa di società. A maggior ragione io voglio qui ringraziare Fausto Bertinotti, che si è messo con generosità e passione al servizio di un progetto di cui certo non gli sfuggivano i limiti, nel tentativo coraggioso di supplire, con la sua intelligenza politica, con la sua forza culturale e con la sua passione di sempre, ai vuoti e alle carenze della Sinistra Arcobaleno. Permettetemi di dire qui apertamente che ho trovato molto ingenerose, molto ingiuste e molto sgradevoli, umanamente ancor più che politicamente, le critiche che sono state rivolte a Fausto per aver accettato di rendersi disponibile a un'impresa difficilissima. Permettetemi anche di esprimergli, a titolo personale ma sono certo anche a nome di molti, moltissimi compagni, in questa sala e fuori di qui, la più sincera gratitudine.
Quella ipotesi di alternativa di società che la Sinistra Arcobaleno non è stata capace di esprimere credibilmente, noi dobbiamo continuare instancabilmente a cercare di definirla. Non può che nascere, lo sappiamo bene, dalla critica della globalizzazione e della sua crisi attuale. Le vecchie forme di cultura identitaria sono mute di fronte a questi scenari, e mute sono destinate a restare. Non è per quella via che riusciremo a ricostruire un pensiero critico adeguato ai tempi e a individuare un agire collettivo conseguente. E' per questo che io penso dovremmo avere la massima cura di Rifondazione comunista cura e valorizzarla. Rifondazione, non la sua caricatura. Rifondazione, una comunità politica e umana che ha investito da sempre, attraversando per questo difficoltà enormi, sull'innovazione, sulla ricerca, sull'apertura che ci ha portati fino all'ultimo congresso. Abbiamo attraversato tornanti stretti nel corso della nostra vicenda. Senza questa innovazione ed apertura saremmo stati sbalzati fuori in questa o in quella curva. Guai a cancellare questo percorso. Questo e non altro è Rifondazione comunista. La proposta unitaria a sinistra, che noi non possiamo e non dobbiamo abbandonare, nasce proprio da questa storia, è figlia di questa cultura. Sono facce della stessa medaglia. E' in difesa di questa storia politica, culturale e umana di Rifondazione comunista, della sua identità basata proprio sul rinnovamento, che noi diciamo no alla Costituente comunista, ipotesi che segnerebbe una tragica regressione culturale e politica. Sarebbe uno scomposto e impaurito ritirarsi in antichi fortilizi, solo per scoprire che quei fortilizi non esistono più. Sono ormai solo fragili capanne. Malinconici simulacri.
Ma se mi si chiedesse qual è, alla radice della radice, il tema dirimente, la causa prima della sconfitta, io risponderei che va rintracciata nello sradicamento. Sradicamento dai luoghi di lavoro. Sradicamento dal territorio. Sradicamento dai luoghi della sofferenza e del disagio sociale. La nostra gente non ci ha visto come parte della loro vita, non ci ha sentiti come partecipanti alla loro stessa quotidiana esperienza. Ci ha vissuto come distanti. Altro da sé. E' in questo contesto che non riesci più a contrastare gli orientamenti culturali più regressivi. A questo limite il Pd tentato di sopperire trasmigrando in una dimensione costituivamente separata, tutta mediatico-istituzionale. Cerca di far leva su una dimensione fortemente spettacolarizzata della comunicazione politica. Ma la tenuta anche di quel tentativo è messa a dura prova dall'egemonia culturale e sociale della destra, e i risultati elettorali ne fanno fede. Nei territori noi assistiamo alla sistematica sostituzione del conflitto sociale verticale con conflitti orizzontali: la guerra dei penultimi contro gli ultimi, le spinte xenofobe, la crescente intolleranza verso ogni forma di diversità, il rapporto contrappositivo con gli altri territori. E' qui la forza della Lega che, come in un caleidoscopio, raccoglie i frammenti culturali più diversi per riunificarli grazie al collante costituito dalla difesa di un'identità territoriale declinata sempre e solo in modalità contrappositive, nello scenario della competizione globale. Ed è in questo quadro che vengono a mancare i soli anticorpi reali: le donne e gli uomini organizzati, capaci di orientare, assistere, promuovere e organizzare sia i conflitti che la costruzione di nuovi legami sociali. Non c'è giorno, dalle elezioni in poi, in cui i giornali non dedichino pagine e pagine alla perdita del voto operaio che, soprattutto nel nord, defluisce dalla sinistra verso la Lega. Credo che la ragione di questo slittamento vada individuata nella classica "divaricazione tra condizione sociale e coscienza politica", in una fase segnata a fondo dalla svalorizzazione del lavoro e dalla sua frantumazione nell'era della precarietà. Al conflitto di classe si tende così a sostituire una dimensione neocorporativa orizzontale, concertativa, sempre nel metro della territorialità contrappositiva.
Per questo il nuovo radicamento sia nostro che del progetto unitario a sinistra non può che passare per un lavoro capillare, diffuso e paziente di ricostruzione, in forme inedite, di una presenza, di un insediamento. Ricostruzione di legami sociali centrati sul solidarismo invece che sulla contrapposizione, ricostruzione di forme inedite, ancora tutte da inventare e sperimentare, di mutualità. I territori sono stati privati, per nostra responsabilità, di anticorpi, di trame democratiche organizzate e socializzate. Sono progressivamente rimasti senza una nostra presenza organizzata, spogliati dall'idea di una politica altra. I lavoratori e le lavoratrici sono rimasti soli in fabbrica, e non ci hanno trovato nei territori, dove, soprattutto a nord, hanno invece incontrato chi diffondeva a piene mani conflitti orizzontali.
Se devo investire, in questo quadro, su un rilancio delle soggettività sociali, immagino che lo si debba fare a partire da quattro ipotesi, che coincidono con quattro forme critiche eminenti della globalizzazione:
- il conflitto sociale, nelle forme inedite in cui questo si presenta oggi, a fronte di una organizzazione del comando tutta diversa da quelle che eravamo abituati a conoscere e a contrastare nel Novecento, e che quindi ci trova a tutt'oggi spiazzati, costretti a inseguire affannosamente l'iniziativa del capitale invece che anticiparla individuandone i punti deboli. La rincorsa della forza lavoro al suo prezzo più basso travolge oggi tutti i diritti preesistenti: nessuno di essi è al riparo. La precarietà è una condizione esistenziale che modifica la tipologia umana: diventa quasi una modalità dell'essere. La modernità è un ossessivo processo di cambiamento, quasi una necessità compulsiva, l'impossibilità di qualunque forma di consolidamento. Scrive Baumann che il gioco della vita si srotola nel quotidiano e che il gioco della vita è di separarti dagli altri se gli altri non ti servono più. L'esclusione è posta come necessità;
- i movimenti sia territoriali che globali, incontrati nella doppia dimensione che caratterizza la mobilitazione sociale nella globalizzazione, quella altermondialista, e quella invece fortemente localizzata, legata indissolubilmente al territorio di provenienza;
- le comunità che hanno saputo in questi anni riscoprire e ripristinare un legame sociale uguale per quantità e contrario per qualità a quello di modello contrappositivo che fa le fortune della Lega, altrettanto radicate localmente e tuttavia solidariste, in grado di coniugare identità non statiche e apertura alle contaminazioni, capaci di cementare vincoli saldi e di ingaggiare conflitti strenui in una difesa non regressiva del proprio territorio;
- la pratica della differenza e il pensiero sessuato, come rottura dell'approccio indistinto e incapace di valorizzare le differenze che aveva caratterizzato il pensiero critico del Novecento, persino nei suoi momenti più alti.
Per tentare di raggiungere questi obiettivi, penso che dobbiamo partire da Rifondazione comunista, dalla Rifondazione di cui ho parlato sinora, ma all'interno di un processo costituente a sinistra al quale non possiamo rinunciare se non vogliamo rassegnarci a una sostanziale superfluità. L'ipotesi federativa, sperimentata con la Sinistra Arcobaleno, si è rivelata impraticabile, incapace di raggiungere il cuore e la mente della nostra gente, tanto dispendiosa in termini di energie quanto improduttiva nei risultati concreti. Non credo sia un caso se oggi proprio chi più rumorosamente l'aveva sostenuta, il Pdci, se ne sfila con poca eleganza per dar vita a quella Costituente comunista sulla quale ho già espresso il mio giudizio.
Ma neppure possiamo congelare la nostra elaborazione nell'alveo novecentesco, e proprio questo significherebbe oggi tentare la scorciatoia del partito unico. La sfida è ben altra: è quella della democrazia reale, della partecipazione, della capacità di innovare forme e pratiche della politica che sono sempre più esangui. Per me la costituente è questo: uno spazio pubblico in cui tutte le donne e gli uomini di sinistra possano intervenire con poteri decisionali; il laboratorio collettivo in cui devono nascere un pensiero critico e una forma dell'agire politico adeguati ai tempi. Nulla di più. Nulla di meno. Se non ci riusciremo è bene dirsi sin d'ora che non potremo rispondere alla crisi della politica, al vuoto di soggettività e allo svuotamento sostanziale della democrazia. Quest'ultima minaccia è oggi più che mai incombente: la scomparsa di ogni rappresentanza politica del conflitto sociale rischia infatti molto fortemente di produrre trasformazioni istituzionali di tipo autoritario e plebiscitario.
Permettetemi, per concludere, di dire qualcosa di più personale. Di più intimo. In questi giorni io sento fortemente, in ogni momento, tutto il dolore delle compagne e dei compagni. Vedo riflessa nei loro visi, nei vostri visi, la mia stessa profonda sofferenza, e so che è giusta, che non la si può e non la si deve evitare. Sento anche tutto lo smarrimento intorno e dentro di me. Ma quello, invece, non possiamo permettercelo. Non possiamo smarrirci, né smarrire quello che abbiamo, quello da cui possiamo ripartire. Dobbiamo tenerci stretto sia questo partito che il progetto di dar vita a una più ampia e moderna sinistra. E per questo dobbiamo avviare un grande processo di rinnovamento. Parlo della necessità di permettere a tutta l'intelligenza politica, a tutta la fantasia, a tutta la passione e a tutta l'energia che ci sono in questo partito, e che troppo spesso non sappiamo usare, di emergere. Altra via per superare questa crisi non ce n'è. E in mezzo a tanto sgomento, io sento anche una grande voglia e un'altrettanto grande capacità di ricostruire e riprogettare.
Ma avverto anche, altrettanto imperiosa, la responsabilità che abbiamo nei confronti di tutte le compagne e i compagni, non solo di quelli che ci hanno votato, ma anche di quelli che non lo hanno fatto, perché irretiti dalla bugia del voto utile o perché troppo delusi dall'esperienza degli ultimi due anni, il cui dolore e il cui senso di vuoto oggi non sono diversi né inferiori ai nostri. Forse, nei loro confronti abbiamo anzi una responsabilità ancora maggiore.
Questa responsabilità verso noi stessi e verso la nostra gente ci impone oggi di mettere prima di tutto Rifondazione al riparo da ulteriori catastrofi. Dobbiamo avere la capacità di confrontarci nella maniera più diretta e trasparente, se necessario anche più aspra, ma allo stesso tempo tenendoci per mano, o sottobraccio, come in un corteo. Le sconfitte possono mettere in moto reazioni appassionate di solidarietà e generosità, l'avete visto proprio oggi a Firenze, ma possono anche innescare processi distruttivi, conflitti che dal confronto politico sconfinano nel risentimento personale e nel rancore. Rifondazione può sopravvivere alla sconfitta elettorale, non sopravvivrebbe a una simile spirale di dissoluzione. Non lo permetterebbe la nostra stessa gente. Viviamo un momento che richiede la massima forza e insieme il massimo rispetto per la nostra stessa fragilità. Non si facciano forzature in nome di logiche di parte.
Decida la politica. Qui si misurino ora in questo Cpn su documenti di indirizzo politico le tesi diverse e su base proporzionale si elegga un comitato di gestione straordinaria. Nessun membro della segreteria nazionale ed i suoi invitati ne faccia parte. Si dia immediatamente la parola alle compagne e ai compagni per il congresso.
Prima di imboccare il percorso che ci porterà al congresso chiedo a tutti, e chiedo anche a me stesso, di fermarsi a riflettere su questa strofa di un inedito di André Gide: «Se l'uomo impiegasse il suo ingegno a proteggere il raro e il soave, il delicato e il fragile, il volto del mondo potrebbe cambiare». Se impiegheremo il nostro ingegno e la nostra energia per proteggere ciò che più ha bisogno oggi di essere protetto, la nostra comunità e quella più larga della sinistra, il volto di questo paese può ancora sperare di cambiare. E' questa la nostra storia personale e collettiva, è questo che la nostra comunità ci chiede.

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