Partito
della Rifondazione Comunista
X Congresso
Intervento di Alessandro Pascale
Non si può costruire il socialismo stando nelle strutture
imperialiste
Nelle diversità delle proposte politiche
tra i due documenti che si confrontano per delineare la linea politica
del PRC per il prossimo triennio ce n'è una di carattere teorico che è
estremamente importante e meritevole di attenzione: il giudizio sulla
possibilità di ottenere un avanzamento dei diritti stando all'interno
delle attuali strutture e sovrastrutture economico-politiche
capitalistiche.
La questione non è di poco conto, perché da essa
derivano una serie di conseguenze nella proposta politica di assoluto
rilievo. Essendo poi il primo documento impostato sull'idea di fornire
“i fondamentali” teorici di riferimento del partito diventa ancora più
pericoloso assumerlo in pieno senza un'analisi minuziosa e critica.
La principale criticità che emerge è la contraddizione netta tra
un'analisi della “società dell'abbondanza” nella quale viviamo,
l'affermazione della crisi del keynesismo e l'affermazione netta per cui
alla prospettiva della “rottura della gabbia di quest'Europa”,
considerata irriformabile, non possa seguire un “ritorno agli stati
nazionali che per l'inefficacia del livello nazionale di incidere sui
processi di accumulazione” finirebbe “per entrare in contraddizione con
gli obiettivi di recupero di sovranità popolare”, rimanendo quindi
destinata inevitabilmente “a subire strutturalmente l'egemonia della
destra”. La conclusione politica che se ne trae è quindi che il livello
europeo si presenti quindi “come il livello adeguato in cui costruire
quel potere politico e democratico in grado di incidere efficacemente
sul capitale”. Il piano della lotta per il primo documento deve restare
quindi sia a livello tattico che a livello strategico quello del livello
continentale europeo; ciò perché si ritiene “impossibile prescindere dal
quadro determinato dalla modifica dei processi di accumulazione esito
della globalizzazione neoliberista”.
La conclusione politica di
tali analisi errate è che in sostanza sia possibile e doveroso (unica
via) costruire il socialismo stando all'interno della globalizzazione
liberista, costruendo un blocco politico-economico su base europea che
sia in grado di competere con il potere del Capitale a livello globale.
Il teorema è però estremamente rischioso, oltre che denso di
contraddizioni: anzitutto perché nonostante si ribadisca
l'irriformabilità dell'Unione Europea gli estensori del documento
affermano nettamente: “non ci battiamo per l'uscita dell'Italia
dall'Unione Europea o per l'abbandono dell'euro”. La soluzione restante
è quindi quella di provare a costruire il socialismo attraverso la
tattica e la strategia della disobbedienza ai trattati europei, così
come era l'intento di Syriza in Grecia prima di andare al governo. Si
afferma quindi che perfino un Paese come l'Italia, seconda potenza
industriale d'Europa e potenza economica di rilievo mondiale, pur
subendo sostanzialmente una “crisi di abbondanza”, non sia in grado di
reggere da sola economicamente e finanziariamente nel momento in cui
dovesse uscire dall'UE e dall'euro. Delle due però l'una: o l'Italia ha
un peso e una dimensione produttiva tale (società dell'abbondanza) da
poter garantire, attraverso un'opportuna serie di riforme strutturali di
sistema, un adeguato tenore di vita per i suoi cittadini, oppure questo
rilievo non ce l'ha, ma in tale seconda ipotesi diventa difficile
pensare che possa reggere da sola agli assalti politici e finanziari che
subirebbe in caso di “attacco coordinato” dalle forze imperialiste
internazionali.
In Grecia infatti questo è successo: di fronte
alla tattica di disobbedire ai trattati, un attacco politico-finanziario
internazionale, guidato politicamente dalla Trojka ed economicamente
dalle principali banche e finanziarie mondiali, ha rischiato di far
collassare un intero Paese, ponendolo di fronte ad un bivio: rottura
completa e quindi rivoluzione, oppure ritirata rovinosa e accettazione
del proprio ruolo di gestione calmierata della dittatura imposta
dall'Europa e dai suoi dogmi neoliberisti. La domanda è quindi come
intenda porsi il PRC di fronte ad un ipotetico scenario di tale tipo. È
indubbio infatti che il potere delle strutture imperialiste
internazionali (UE, BCE, FMI, holding finanziarie private) sia tale da
riuscire a mettere in crisi anche un Paese come l'Italia, se questo è
privato degli strumenti di controllo finanziari e monetari. Ciò è stato
dimostrato dalla crisi del 2011 con cui si attuò un “golpe” finanziario
in grado di far cadere il non più gradito governo Berlusconi. Non c'è da
dubitare che una virulenza anche maggiore si scatenerebbe verso un
governo a tinte socialiste o anche solo vagamente antiliberiste. La
risposta del primo documento su questo punto è assente, perché non
prevede tale scenario.
L'impressione però è che l'importanza
assunta dal tema della necessità di stare all'interno del ciclo di
accumulazione internazionale porti all'introiezione di un'idea
estremamente pericolosa: che sia effettivamente possibile ottenere uno
sviluppo progressista stando all'interno delle strutture imperialiste.
Non si capisce infatti come questo possa essere possibile anche facendo
riferimento alla ribadita impossibilità di dare risposte riformiste di
stampo keynesiano alla crisi. Se lo sviluppo passa dunque
necessariamente dalla rottura dei trattati europei questo atto non può
che avere come logica conseguenza l'uscita stessa dalle strutture
imperialiste internazionali, comprese quelle costruite dalla borghesia
internazionale per favorire i processi di accumulazione capitalistica.
Questo è ciò che darebbe l'avvio di un processo rivoluzionario che
andrebbe a colpire quello che Lenin chiamava uno degli anelli deboli
della catena imperialistica mondiale. Un processo rivoluzionario che
chiaramente non si compierebbe solo attraverso il semplice recupero
della sovranità nazionale, come fingono a volte le destre travestite da
campioni del popolo, ma usando questo strumento in legame dialettico con
l'attuazione della sovranità popolare, la cui prima tappa, comprensibile
per tutte le classi sfruttate d'Italia, consisterebbe nella richiesta di
attuazione della Costituzione Repubblicana del 1948 e delle misure
collegate ad un programma minimo di fase che sappia far fronte alle
emergenze poste dall'uscita dalle stesse strutture imperialiste. Su
questi punti il doc 2, e nello specifico la tesi aggiuntiva B al punto 4
su Europa e moneta unica che sostengo, precisa bene la proposta.
La possibilità di uscire dalle strutture imperialiste, in particolare
l’Unione Monetaria, è invece accettata solo retoricamente nel primo
documento. L’impostazione generale del documento è strettamente
indirizzata alla permanenza, indirizzo del resto confermato dalle
presentazioni nei CPF in cui si parla di “follia” a proposito
dell’uscita. Il primo documento lascia inevasa anche un’altra questione:
davvero si pensa che queste strutture siano eterne? Nello specifico,
l’Unione Monetaria è sottoposta a pesantissime spinte centrifughe, i
sostenitori del primo documento sono davvero disposti a ignorarle
scommettendo sulla tenuta dell’Unione Monetaria stessa? Sul breve
termine, rischiamo di legare il nostro Partito alla difesa di una
struttura imperialista già in fase di disfacimento, o quantomeno di
rapida trasformazione, come evidenziato dalla proposta di “Europa a due
velocità”. Pur di non risolvere i problemi di carattere teorico con
l’idea di poter agire nella dimensione dello stato-nazione, viene
lasciato tutto questo terreno di manovra alla destra.
Non si può
d'altronde davvero credere che un processo rivoluzionario possa avvenire
stando all'interno delle strutture imperialiste, né tantomeno che questo
possa avvenire nella più pacifica quiete sociale, economica e
finanziaria. La rivoluzione è uno strappo violento, una rottura che sul
breve termine determina necessariamente uno stravolgimento dei rapporti
di produzione, dei rapporti tra le classi, dal punto di vista politico,
economico, culturale e sociale. Aver paura delle conseguenze di breve
termine di un esito rivoluzionario è comprensibile per il pavido, per il
ricco e per il “riformista”, ma non lo è affatto per un comunista.
Alessandro Pascale