Partito
della Rifondazione Comunista
X Congresso
Intervento di Ramon Mantovani
Basta frasi scarlatte e demagogia. Il
comunismo e la politica sono cose serie
Il nostro X
Congresso è un congresso di un partito che ha resistito, che è
sopravvissuto a numerosi tentativi di liquidarlo (dall’esterno e
dall’interno), che ha elaborato un’analisi delle contraddizioni
economiche e sociali originale e confermata dall’evoluzione, della
crisi, che ha ostinatamente insistito su una linea politica unitaria per
il conflitto e nella sfera ineludibile della rappresentanza elettorale
ed istituzionale.
Credo sia noto che io sono d’accordo con il 1°
documento. Che mi sembra all’altezza del compito, che è frutto di una
elaborazione collettiva non improvvisata, che contiene punti aperti ad
approfondimenti dell’analisi e della discussione e che, con gli
emendamenti collegati, anche su punti controversi colloca ed incanala la
nostra discussione futura in un ambito di ricerca analogo, se non
identico, a quello che attraversa tutte le forze comuniste e di sinistra
radicale in Europa.
Non è su questo, quindi, che mi soffermerò in
questo modesto contributo.
Nei congressi si vota. E spesso, purtroppo, si
vota senza aver studiato i documenti e aver discusso approfonditamente.
Tornerò più avanti sulle cause che hanno prodotto un tale impoverimento
dei livelli di militanza e di direzione politica. Ma intanto voglio
subito dire che questo limite innegabile richiederebbe, da parte di
tutti, una maggiore serietà, onestà intellettuale e modestia nella
discussione.
Evitando di utilizzare facili suggestioni, demagogia,
semplificazioni ed altri espedienti ancor più nocivi ancorché
apparentemente utili a conquistare voti. Per il semplice motivo che
producono divisioni artificiali, impediscono l’approfondimento della
discussione e soprattutto cristallizzano posizioni astratte ed
incomunicanti fra loro. Il cui primo effetto nefasto è quello di
allontanare dal partito militanti che non hanno nessuna voglia di
doversi iscrivere ad una fazione in perenne lotta con altre.
Per
evitare fraintendimenti voglio chiarire che considero questo
impoverimento un problema generale, che riguarda tutte le culture
politiche e posizioni e su cui, ripeto, tornerò alla fine di questo
scritto.
Tuttavia mi pare proprio di rintracciare questo problema
negli argomenti usati nel 2° documento per contrapporsi al 1°.
Spero mi si perdoni la schematicità ed anche
l’incompletezza dell’esposizione che farò, soprattutto perché questo mio
scritto non sarà breve. Ma perseguo esplicitamente l’obiettivo di
enucleare i punti che a me paiono viziati dagli espedienti di cui sopra.
1) il primo è quello che giustifica l’esistenza stessa del 2°
documento. Ed è forse il più importante perché inerisce la stessa
concezione del partito e della sua dialettica interna.
Nel 2°
documento si dice: “A partire da questa importante premessa abbiamo
proposto di svolgere un congresso unitario e a tesi, non di conta, non
di riaffermazione di maggioranza e minoranza, non di ripetizione di noi
stessi: di fare, invece, di questo congresso un momento di rivoluzione e
rifondazione di noi stessi. Di rivoluzione e rifondazione, a partire dai
noi, come ci ha insegnato il femminismo. In breve, abbiamo proposto un
congresso unitario che consentisse la costruzione di una elaborazione
teorica condivisa a partire dalle pratiche, un bilancio della nostra
storia recente e un confronto circoscritto sulle differenze nella linea
politica attraverso le tesi. Abbiamo provato a rendere possibile un
congresso diverso: i numeri non ce lo hanno permesso. Di certo un
congresso diverso non è possibile con un regolamento che di fatto invita
alla presentazione di documenti contrapposti non garantendo alcuna
rappresentanza proporzionale alle tesi. In un congresso unitario a tesi
non ci possono essere padroni di casa e ospiti di cui “tenere conto”. Se
la maggioranza di questo gruppo dirigente preferisce sedersi dalla parte
della ragione dei numeri, ci sediamo orgogliosamente e gioiosamente
dalla parte del torto.”
Mi spiace doverlo dire in modo crudo ma
questo argomento è purtroppo un imbroglio bello e buono.
Un classico
espediente demagogico molte volte usato nella storia del movimento
operaio, sintetizzabile nel detto “grida all’unità e prepara la
divisione”, per scaricare sugli altri la colpa di una divisione che si
promuove ed apparire unitari allo stesso tempo.
Fondo questo mio
giudizio su due argomenti. Uno banalmente materiale e tecnico ed uno
squisitamente politico.
Da un punto di vista materiale è impossibile
attribuire una rappresentanza proporzionale a tesi alternative
presentate a corredo di un documento di tesi complessivo. Per il
semplice motivo che ogni tesi è diversa e può insistere su punti di
analisi, di proposta o di aggiunta.
Va da sé che se si è d’accordo
sull’impianto di un documento e sulla linea politica complessiva ma non
su un punto di analisi anche importante e si propone, su quel punto, una
tesi alternativa, non si potrà pretendere che su quella tesi
alternativa, e su ognuna delle altre possibili tesi alternative si
elegga una rappresentanza proporzionale negli organismi dirigenti. È
impossibile materialmente.
Il principio del “tener conto” dei voti
ottenuti da emendamenti o tesi alternative che dir si voglia non è
discriminatorio. Al contrario serve a far si che quella posizione, anche
se minoritaria, sia rappresentata negli organismi dirigenti in modo che
si possa procedere ad approfondire la discussione. È invece impossibile
che diverse tesi alternative, che possono per altro essere totalmente
contraddittorie fra loro, ottengano una rappresentanza proporzionale.
In altre parole, per esempio, se c’è un documento considerato base
comune da tutti e poi otto tesi alternative che ottengono ognuna una
certa percentuale di voti, come si fa ad eleggere proporzionalmente un
organismo dirigente? Chi rappresenterà il/la militante che avrà votato
una o due tesi alternative e contro le altre?
Confesso che sento un
certo imbarazzo a dover spiegare cose così elementari.
Ma non c’è
solo un impedimento materiale all’elezione proporzionale di organismi
dirigenti sulla base di emendamenti o tesi alternative.
C’è anche un
punto politico sostanziale.
Se si sostiene che l’unità della
sinistra si deve costruire dal basso e nei conflitti e NON in modo
“politicista” e “verticista”, ed è questo il punto di vera divergenza di
linea politica in questo congresso, per quanto ci si dica d’accordo su
analisi e per quanto si indichino gli stessi esempi da seguire (come
Barcellona) è giusto che una divergenza che inerisce non la discussione
teorica e approfondimenti di analisi, bensì l’azione immediata e
concreta di tutto il partito il giorno dopo il congresso, venga
sottoposta ad un vaglio democratico definitivo. E questo si può fare
solo con documenti contrapposti. Se su questo punto fondamentale si ha
un giudizio così negativo dell’operato del gruppo dirigente dal
congresso di Chianciano ad oggi è legittimo ed anche democratico
presentare un documento alternativo. Se si propone di cambiare linea
politica (come dimostrerò nel punto successivo) tutto si può fare tranne
che far finta di “essere stati costretti” a presentare un documento
alternativo al solo scopo di imbrogliare militanti che giustamente
malsopportano le divisioni del gruppo dirigente.
Se invece si fa si
tratta di un elemento inquinante la discussione che crea appositamente
confusione.
Magari “gioiosamente” (sic) ma ci si siede non dalla
“parte del torto” intesa come controcorrente, bensì dalla parte del
pensiero dominante che si nutre di demagogia e false suggestioni.
2) L’unità dei conflitti e dei movimenti sociali, oggi dispersi ed
isolati, e l’unità di tutte le organizzazioni alternative alle politiche
neoliberiste, contrarie a qualsiasi riedizione del centrosinistra e
collocate nel campo del Partito della Sinistra Europea e del Gruppo
parlamentare della Sinistra Unitaria Europea (GUE), sono entrambe
indispensabili ed intimamente collegate al fine della costruzione di una
alternativa in Italia ed in Europa. Senza questo collegamento e senza
queste unità i conflitti e i movimenti sociali sono destinati a rimanere
dispersi ed isolati e ad essere sconfitti, e le forze politiche, siano
esse coalizioni o partiti, sono destinate ad un ruolo nel migliore dei
casi testimoniale, o ad essere riassorbite in una dialettica
politico-istituzionale dalla quale è esclusa ogni possibile alternativa
reale.
Questo punto politico è ineludibile per chi si proponga di
costruire un’alternativa di governo al campo delle forze interne al
sistema dominante e alle politiche neoliberiste e d’austerità.
Non
c’è lotta, grande o piccola, che non rivendichi leggi e/o misure di
governo per risolvere in modo vincente il conflitto. Sia a livello
locale sia a livello nazionale vertenze e rivendicazioni, per vincere,
necessitano di un rovesciamento dei rapporti di forza nelle istituzioni
in modo che leggi e provvedimenti di governo soddisfino i bisogni che le
hanno prodotte. È così per la TAV come per la chiusura di un
inceneritore. Per ripubblicizzare acqua e servizi. Per perseguire
l’omofobia e per ampliare diritti civili. Per tornare al sistema
contributivo e per abbassare l’età pensionabile nel sistema
pensionistico. Per nazionalizzare i settori strategici in economia. Per
ristrutturare il debito. Per abrogare le leggi che hanno precarizzato il
lavoro. Per uscire dall’euro e dalla NATO. E così via.
Grazie alla
Costituzione, alla natura parlamentare della Repubblica, ai partiti di
massa che rappresentavano direttamente interessi sociali, tutto ciò era
ed è stato possibile anche dall’opposizione. Oggi no.
Fin dalla
nostra nascita abbiamo detto che l’elezione diretta del sindaco e lo
svuotamento dei poteri del consiglio comunale e le riforme elettorali
maggioritarie avrebbero privato le forze antagoniste della possibilità
di incidere dall’opposizione sulle scelte legislative e sulle decisioni
del governo. Condannandole all’impotenza, e cioè a non poter conquistare
nulla per le lotte, e quindi espellendole tendenzialmente dalle stesse
istituzioni. O trasformandole in una appendice comunque impotente del
centrosinistra anche quando erano decisive per la stessa vita del
governo.
Certamente abbiamo commesso errori, anche gravi, nel corso
di questi 25 anni. Ma sottovalutare i problemi oggettivi, totalmente
estranei alle nostre responsabilità, come la natura escludente del
sistema politico per ogni rivendicazione e programma antagonista, è un
errore enorme.
Credere e predicare che l’unità dei conflitti possa
rovesciare i rapporti di forza sul piano politico senza proporsi la
costruzione di una forza unitaria e nettamente antagonista nei
contenuti, capace di conquistare il consenso necessario, è un’illusione
nefasta, fondata proprio sulla sottovalutazione della natura del sistema
politico. Credere e predicare che si possa influenzare positivamente la
politica di un governo di centrosinistra dal suo interno lo è
altrettanto.
Sono due facce della stessa medaglia. E del resto non
per caso sono all’origine di tutte le innumerevoli scissioni che ha
subito il PRC.
Se c’è qualcosa che ancora manca pienamente nel corpo
del nostro partito è la consapevolezza di questa realtà. Ovviamente ciò
vale altrettanto, se non di più, sia per i protagonisti dei conflitti
sia per i militanti delle ormai molte organizzazioni e aggregazioni
politiche. Da Sinistra Italiana al Partito Comunista del Lavoratori.
Proprio per questo accusare il gruppo dirigente del PRC di aver
perseguito l’unità della sinistra in modo verticistico e politicista,
oltre ad essere una falsità, è la fuga dalla realtà concreta del
rapporto fra le lotte e i conflitti e la “politica” quale essa è
percepita e poi praticata dagli stessi protagonisti dei conflitti.
Le persone in carne ed ossa che lottano, scioperano, manifestano, quando
si vota alle elezioni assumono comportamenti separati e spesso
contraddittori con le rivendicazioni per cui si impegnano. Da chi vota 5
Stelle, a chi vota centrosinistra, a chi vota uno dei 4 o 5 partiti
comunisti, a chi si astiene, tutti lo fanno o illudendosi che sia la
volta buona (salvo poi deludersi inevitabilmente) o per un qualche
motivo che nulla c’entra con gli obiettivi della lotta alla quale
partecipano. Per scegliere il meno peggio, per affidarsi ad un leader,
per evitare che qualcun’altro vinca, e così via. Se questo vale per le
persone che lottano figuriamoci per la gran massa di
individui-consumatori che non sono nemmeno consapevoli di avere
interessi che solo con la lotta si possono difendere.
Perciò, fin
dal congresso di Chianciano, la linea politica del partito è sempre
stata: costruire, praticare e sostenere il conflitto sociale su
obiettivi radicali e antagonisti, e costruire l’unità di tutte le forze
suscettibili di essere unite sulla base di tre precise discriminanti:
programma antiliberista, alternatività al centrosinistra e al Partito
Socialista Europeo, pluralità e rispetto delle identità ideologiche ed
organizzative di tutti.
Per poter unificare e connettere le lotte è
necessaria l’unità di tutte le culture e forze politiche che si
riconoscono nelle lotte e che elaborano un programma capace di
conquistare gli obiettivi di lotta rovesciando i rapporti di forza
politici.
Va da sé che la base di tutto sono le lotte e gli
interessi delle classi subalterne, e che nessuna unità è utile se
finalizzata ad insediare rappresentanze istituzionali fini a se stesse.
Ma le elezioni esistono, sia a livello nazionale che a livello
locale. E i loro tempi e modalità non sono a disposizione delle nostre
decisioni.
Per questo abbiamo dovuto tentare ad ogni occasione
possibile di costruire liste, coalizioni e programmi unitari. Non nel
tentativo banale, ma non per questo inutile, di eleggere qualche
compagno o compagna del PRC. Bensì esattamente nel tentativo, difficile
ma indispensabile, di costruire l’unità sufficiente a rendere
minimamente incisive le lotte.
Ci siamo sempre rivolti a tutti
coloro che dicevano di essere in sintonia con le lotte. Anche se
propensi a stare nel centrosinistra dicendogli di dismettere
l’illusione. Anche se propensi alla pura testimonianza dicendogli che la
competizione elettorale fra diverse liste identitarie è nociva per le
lotte. Abbiamo sollecitato persone, comitati di lotta, realtà sociali a
promuovere loro liste unitarie, consapevoli che nella realtà delle
divisioni a sinistra sarebbe stata più efficace la loro iniziativa che
quella del nostro partito.
Per costruire queste esperienze unitarie
non abbiamo mai sacrificato nessun contenuto importante e, al contrario,
proprio in nome dei contenuti e dell’autonomia del nostro partito,
quando abbiamo dovuto presentarci da soli l’abbiamo fatto a testa alta,
sapendo che avremmo avuto risultati deludenti e che ci avrebbero
accusati di essere settari e derisi come irrilevanti.
In ogni
esperienza unitaria che si conosca è necessario concordare fra i
soggetti che vi partecipano per lo meno l’inizio di un processo
unitario. Altrimenti è impossibile.
L’accusa di verticismo e di
politicismo sarebbe fondata se il PRC avesse come obiettivo, come fu per
la Sinistra e L’Arcobaleno, la costruzione di una lista e poi di un
partito nuovo nel quale sciogliere il PRC. Sarebbe giusta se noi non
avessimo sempre detto ai 4 venti che il nostro obiettivo era promuovere
un’aggregazione unitaria su precise discriminanti che una volta avviata
cominciasse a funzionare con il criterio di una testa e un voto.
Noi abbiamo sostenuto e continuiamo a
sostenere che una forza politica antiliberista e democratica, con un
programma di fase e collocata in Europa nel campo del GUE è necessaria
ed indispensabile. Non al nostro partito. È vitale per le lotte e per la
possibilità che queste ricomincino a conquistare vittorie. Lo è proprio
nel momento in cui la crisi ha scavato un solco abissale fra i governi e
gli stessi sistemi politici e la gran parte della popolazione. Nel
momento in cui, anche se confusamente, la coscienza che le politiche
liberiste e d’austerità sono incompatibili con la difesa dei diritti
sociali. E che le forze sedicenti di sinistra che le hanno prodotte,
promosse, difese e appoggiate non possono essere alleate.
Il gruppo
dirigente del PRC ha portato avanti questa linea politica, per altro
confermata puntualmente dai congressi. Ed ha dovuto farlo controcorrente
rispetto alla stessa concezione della “politica” corrente, ed anche
nonostante le minoranze interne abbiano spesso agito come opposizioni
dedite ad impedire che quanto deciso dai congressi potesse realizzarsi.
Minoranze che non hanno esitato a promuovere campagne interne ed esterne
al partito sostenendo che si voleva sciogliere il partito, che il
“partito sociale” era sbagliato e che era roba da dame di san vincenzo,
oppure che con le nostre discriminanti sul centrosinistra ci
condannavamo all’irrilevanza, oppure che invece che l’unità della
sinistra antiliberista dovevamo promuovere l’unità dei comunisti con un
partito che aveva rotto con noi esattamente sull’internità o meno al
centrosinistra. E potrei continuare a lungo.
Oggi il 2° documento ci
accusa di insistere su questa linea politica che sarebbe fallita.
E
ne propone un’altra. I rapporti di forza si rovesciano unificando le
lotte. E promuovendo la rete delle “città ribelli”. Non c’è altro.
Null’altro che un’illusione movimentista di vecchia e più recente
memoria per cui il movimento è il fine e la politica un inganno e un
cedimento, e l’altrettanto illusoria idea che il municipalismo sia la
vera ed unica dimensione di una possibile alternativa.
Sono opinioni
e posizioni rispettabili ed anche legittime. E non sono nuove giacché
esistono organizzazioni e aggregazioni che le propongono da anni. Ma a
mio parere sono profondamente sbagliate.
È vero che ad oggi non siamo riusciti a
realizzare l’obiettivo di avviare la costruzione di una forza unitaria.
Ma se l’obiettivo è giusto per le classi subalterne e per lo stesso
paese perché dovremmo dismetterlo? Perché Sinistra Italiana ha in animo
di fagocitare tutto? Perché Rossa o altre organizzazioni propongono
contenuti e discriminanti tali da non unire nemmeno se stesse? Perché
forse arriverà l’uomo della provvidenza nella persona di un sindaco
meridionale che si deciderà a fondare una aggregazione intorno a se
stesso?
La nostra proposta è vieppiù difficile da realizzare in
Italia. A causa della mutazione che il sistema politico maggioritario ha
prodotto nelle forze organizzate, noi compresi. A causa del delirio
leaderistico e personalistico prodotto dal sistema elettorale e dai mass
media. A causa del trasformismo dei gruppi dirigenti sindacali e
politici della sinistra. A causa della frammentazione e isolamento delle
classi subalterne e delle lotte.
Ma questi ostacoli e problemi sono
oggettivi ed esterni alle nostre responsabilità. Non sono addebitabili a
nostri errori. Tornerò su questo punto nell’ultima parte che riguarda
direttamente il partito e la sua dialettica interna.
Rimane il fatto che contro ogni difficoltà è
necessario unire tutto quel che si può unire contro il sistema
attualmente dominante sconfiggendo sia la deriva testimoniale sia la
deriva politicista, questa si, della costruzione di un nuovo partito
modellato secondo il sistema elettorale vigente e nel quale tutti
dovrebbero sciogliersi.
Insistere su una cosa giusta è una virtù,
spesso costosa e faticosa. Abbandonare un obiettivo giusto perché
difficile è una scorciatoia fallimentare, questa si fallimentare.
Quando si scende nel concretissimo e si indicano esempi importanti a
convalida delle proprie proposte curiosamente entrambi i documenti
citano Napoli e Barcellona. Dico curiosamente perché nessuna delle due
esperienze a mio parere conferma le posizioni del 2° documento.
Su
Napoli sarò brevissimo perché è una realtà ben conosciuta in Italia.
L’esperienza nasce nel 2011, come ormai non può essere diversamente dato
il sistema elettorale comunale in Italia, perché il signor De Magistris
si candida a sindaco e perché Italia dei Valori, Federazione della
sinistra, una lista civica dal nome “Napoli è tua” e un fantomatico
Partito del Sud, decidono di essere alternativi al centrosinistra. 27 %
al primo turno e 65 % al secondo. E nel 2016 la coalizione si allarga a
ben 12 liste e PRC, SEL, Pdci ed altri ancora formano una lista dal nome
Napoli in Comune-A Sinistra. 43 % al primo turno e 67 % al secondo.
Si tratta di un’esperienza molto interessante, cui segue quella
altrettanto interessante di Palermo. Interessante perché dimostra che si
può vincere contro destra e centrosinistra, che si può avere un
programma minimamente controcorrente, che si può incarnare
un’alternativa e raccogliere consensi in una giusta direzione nonostante
la coalizione sia tutt’altro che radicale e antagonista. De Magistris
era dell’Italia dei Valori ed infatti la lista del suo partito e la
lista civica “Napoli è tua” prendono 23 consiglieri contro i 6 della
Federazione della Sinistra nel 2011. E le sue liste civiche 18
consiglieri contro i 4 della lista Napoli in Comune e 2 dei verdi.
La personalità di De Magistris e i necessari accordi di vertice fra
partiti hanno permesso che una parte grande della città votasse una
coalizione con un programma alternativo. Senza queste due cose sarebbe
stato impossibile.
Parlare di Napoli come se i conflitti e i
movimenti sociali dal basso avessero costruito un’unità capace di
costringere le forze politiche a seguirli è una balla grande come una
casa.
Resta il fatto che grandissima parte del grande successo della
coalizione (ma non si può certo parlare di grande successo delle liste
di sinistra in essa presenti) è dovuta al sindaco.
Ma non si può
certo affidarsi alla speranza che qualcosa di analogo succeda a livello
nazionale, come ha dimostrato inequivocabilmente l’esperienza di
Rivoluzione Civile promossa intorno alla figura di Ingroia. E alla
quale, come è noto o dovrebbe esserlo ai militanti del PRC, noi ci siamo
associati perché era quello che passava il convento e perché una
divisione del campo alternativo al centrosinistra avrebbe dimostrato il
contrario di quel che noi volevamo.
Barcellona, invece, è
esattamente l’esperienza che noi indichiamo come modello da seguire.
Tenendo ovviamente conto delle differenze oggettive dei sistemi politici
istituzionali e della realtà sociale e politica.
La portavoce del
forte movimento contro gli sfratti (sconosciuta alla grande opinione
pubblica) a nome di un collettivo politico (Guanyem Barcelona) propone
che tutte le forze della sinistra radicale e alternativa, che esponenti
dei movimenti sociali e dell’associazionismo, si uniscano in un’unica
lista per tentare di vincere il governo della città. Una ad una quasi
tutte le forze politiche della sinistra radicale, a cominciare da
Esquerra Unida i Alternativa, accettano di discutere la proposta.
Seguono riunioni di vertice fra le 6 forze politiche che partecipano e
alla fine concordano programma, liste (e quindi gli eventuali eletti
perché le liste sono bloccate) e capolista (possibile sindaco giacché
non esiste l’elezione diretta). Si autoesclude la CUP (Candidatura
d’Unitat Popular) che è l’estrema sinistra indipendentista con la
motivazione che non vuole far parte di una lista che vede presente il
partito Iniciativa per Catalunya giacché questo ha partecipato in
passato ai governi della città insieme al Partito Socialista.
È
evidente che dopo il Movimento degli Indignados la proposta di un
movimento di lotta organizzato per conquistare il governo della città
era difficilmente rifiutabile da parte delle forze politiche. Ma è
altrettanto evidente che la stessa proposta non sarebbe nemmeno stata
fatta se non fossero prima intercorsi colloqui ed accordi di vertice
informali. E che la gestione di programmi e liste non potevano che
essere discussi e prodotti da accordi di vertice.
Non mi dilungo sull’ottima esperienza
amministrativa. Ma è necessario sapere che la lista Barcelona en Comù ha
vinto le elezioni nel senso che ha ottenuto, come lista più votata il 25
% dei voti e 11 cosiglieri su 41. Giacché nei comuni spagnoli si può
governare in minoranza se le opposizioni non riescono ad esprimere una
maggioranza alternativa, la Sindaca Ada Colau è stata eletta in
consiglio con i 5 voti di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), i 4
dei socialisti e 1 voto su 3 della CUP dato esplicitamente per decisione
politica perché indispensabile. Analogamente è stato approvato il
bilancio e dopo il primo anno di governo Barcelona en Comù ha chiesto a
ERC, PSC e CUP di entrare nel governo. Solo i socialisti hanno
accettato.
Tutte le altre esperienze di città grandi e piccole nello
stato spagnolo sono state analoghe.
Alle elezioni comunali sono
seguite le elezioni catalane e poi due turni di elezioni spagnole.
L’esperienza unitaria è stata ripetuta con un relativo insuccesso nelle
elezioni regionali e con grande successo della lista unitaria catalana
“En Comù Podem” alle elezioni spagnole che per due volte è stata la
lista più votata con il 25 %.
Dopo due anni e 4 passaggi elettorali
ora la lista ha deciso di trasformarsi in forza politica funzionante con
il metodo di una testa un voto. I partiti coinvolti parteciperanno
rinunciando a presentarsi alle elezioni in proprio e potranno decidere
autonomamente se sciogliersi o meno nella nuova formazione.
Come si
vede dire che bisogna unire i conflitti e le città ribelli per far
nascere una forza capace di tentare di cambiare realmente le cose, senza
ottenere dalle forze politiche esistenti l’impegno unitario, è una pura
suggestione.
Insistere su una proposta politica giusta non è
insistere nell’errore. È condurre una battaglia affinché lotte,
movimenti e conflitti dispongano di uno spazio unitario per portare
nelle istituzioni rivendicazioni e programmi alternativi.
Fare
incontri di vertice, come del resto fa qualsiasi organizzazione politica
che non sia una setta, serve ad impedire che progetti sbagliati sia sul
versante del centrosinistra che sul versante della testimonianza
producano divisioni elettorali infinite che lasciano attonite milioni di
persone impossibilitate a capire perché chi si oppone all’austerità, chi
lotta contro le guerre, per i diritti sociali e civili, per rimettere il
lavoro al centro della politica, si presenti diviso alle elezioni
litigando per contendersi voti nella stessa base elettorale.
Insistere perché la forza nascente funzioni sulla base di una testa un
voto è necessario perché la stragrande maggioranza delle persone che
possono partecipare, e sono molte volte più numerose degli iscritti ai
partiti, sono indubitabilmente radicali sui contenuti, unitarie e
indisponibili a farsi usare per piccoli calcoli di bottega di questo o
quel presunto leader e di questo o l’altro partito. Ed è unendo questo
corpo politico e sociale che si può far egemonia. Non separandosene o
contribuendo a frantumarlo.
È ovvio ed anche scontato che possiamo
non riuscire a realizzare questo obiettivo. Ciò può produrre un effetto
indesiderato: la presentazione di due o anche tre diverse liste.
Ma
sarebbe una sconfitta proprio per le lotte e i movimenti sociali. Non un
chiarimento. Non una prova di coerenza.
3) il 2° documento inizia citando i negativi dati
del tesseramento. Per poi dire che è vero, abbiamo resistito e tenuta
ferma la discriminante sul centrosinistra e sullo scioglimento del
partito. Ma immediatamente propone una critica secondo la quale sono i
fallimenti del politicismo il vero problema.
Si dice: “gli anni che
ci separano da Chianciano sono all’opposto costellati da un susseguirsi
di simboli che rappresentano tutti la stessa cosa: il fallimento di
tentativi politicisti che hanno assorbito gran parte delle energie del
partito di costruzione dall’alto dell’unità della sinistra come
precondizione per attivare partecipazione, fino ad arrivare a parlare
della necessità di costruire una sinistra di governo.”
Prima di
parlare del tema del tesseramento e cioè della militanza, vorrei dire
alcune cose su questo passaggio della seconda mozione che considero
molto importante.
a) credo di aver spiegato che per creare
qualsiasi aggregazione è indispensabile che le forze sociali e politiche
che vi possono partecipare parlino tra loro per concordare il minimo per
poter attivare una partecipazione di massa. Sono i contenuti a definire
se si tratta di politicismo o meno. Non le forme. Non si può dire che
abbiamo difeso l’idea di comunismo, che ci siamo rifiutati di sciogliere
il partito, che abbiamo posto discriminanti programmatiche e di
schieramento chiarissime, e poi dire che siamo stati politicisti perché
abbiamo promosso e ci siamo seduti a tavoli unitari ai quali abbiamo
sempre proposto la stessa cosa, la costruzione di una forza unitaria dal
basso (perché proporre il criterio una testa un voto vuol dire mettere
d’accordo i vertici per dare potere e parola al basso).
b) se è vero, come è vero, che diversi tentativi
sono falliti è per responsabilità nostra? Per esempio potevamo
trasformare la lista della Federazione della Sinistra nell’unità
comunista sorvolando sul centrosinistra, sulla cultura politica del
Pdci. Oppure potevamo evitare di proporre che le decisioni importanti
venissero prese con un referendum della base. O potevamo proporre di
allargarla a SEL che avrebbe eletto nel gruppo del PSE. In questo caso
l’accusa di politicismo sarebbe stata fondata. La realtà è che la
Federazione è saltata esattamente perché abbiamo tenute ferme le
discriminanti dei contenuti e perché abbiamo tentato, invece di fare
mediazioni di vertice impossibili, di risolvere le divergenze dando la
parola alla base. È il contrario del politicismo. Analogamente ci siamo
comportati in tutte le altre esperienze.
c) da Chianciano in poi il gruppo dirigente del
partito ha detto, scritto, proclamato ed insistito su un concetto: le
lotte, il conflitto sociale, l’autorganizzazione e le forme vecchie e
nuove di mutualismo solidale devono essere il centro della riflessione e
dell’azione del partito. Le elezioni sono importanti ma secondarie. E
noi usiamo tatticamente le scadenza elettorali per proporre
un’aggregazione ampia e partecipata dal basso. È vero che si è discusso
moltissimo dell’unità della sinistra e pochissimo delle lotte. È vero.
Ma non è vero che i rapporti di vertice con altre forze abbiano
“assorbito gran parte delle energie del partito“. Sono state le accuse
di voler sciogliere il partito, di non volere l’unità comunista, di far
sparire il comunismo dalla scheda elettorale, e così via a costringere
il partito a discutere infinitamente. A organizzare una riunione di
vertice ci vogliono poche ore di lavoro. A difendersi da un’accusa
infondata ed infamante demagogicamente propinata ad un corpo militante
sconfitto e disorientato ci vuole pazienza e molto lavoro. Purtroppo.
d) è vero che i tentativi che abbiamo messo in
atto per promuovere l’unità sono falliti. Ma ci sono altre due cose che
vanno dette. Se non li avessimo fatti la situazione sarebbe migliore?
Davvero si pensa che ad ogni scadenza la presentazione di più liste
avrebbe dato un risultato migliore per la nostra? Davvero si pensa che
sono falliti perché sono stati preceduti dal banale accordo fra forze
diverse?
Da anni diciamo in sede di analisi, nei congressi e fuori
dai congressi, che il sistema politico italiano della cosiddetta seconda
repubblica è esiziale per le forze antagoniste. Per il più che evidente
motivo che tende a condannarle alla testimonianza o alla subalternità
nel centrosinistra. Perché il voto utile (e il voto di preferenza in
comuni e regioni) impera su tutto. Sia a livello locale sia a livello
nazionale le sirene di “contare qualcosa nel centrosinistra è meglio di
non contare nulla” e di “meglio testimoniare la nostra coerenza che
allearci con altri” sono irresistibili per gran parte di coloro che si
considerano comunisti, di sinistra o semplicemente progressisti. Questo
è un fatto oggettivo. Essere antagonisti, alternativi, radicali, ribelli
(tutte parole che dovrebbero essere ben riassunte dall’aggettivo
comunista) oggi significa rifiutarsi di scegliere una delle due parti in
commedia previste dal sistema. È molto difficile andare controcorrente
sul serio. Ed è complesso. Ed è anche facile commettere errori.
Ma
quando si rimuove la natura oggettiva delle difficoltà, degli insuccessi
e delle sconfitte e si dice al militante che è giustamente e
comprensibilmente deluso che è colpa del gruppo dirigente e di una linea
politicista si commette un atto gravissimo. Che fa leva sulla demagogia
e non sull’analisi della realtà.
e) è vero che il tesseramento ci propone dati
sconfortanti. Certo se avessimo accettato di avere 4 ministri e 8
sottosegretari nel primo governo Prodi e non avessimo rotto non avremmo
avuto la scissione, non saremmo passati dall’8 % al 4 % e da 130 a 80
mila iscritti. Se non avessimo impedito col congresso di Chianciano che
il partito si sciogliesse in una SEL più grande e non avessimo subito
una campagna di stampa e televisiva, a dir poco denigratoria, di tre
anni non avremmo perso la metà degli iscritti. E se negli ultimi anni
non avessimo tenuto ferme le discriminanti sul centrosinistra e
rifiutato l’unità comunista non avremmo subito altre scissioni sia
nazionali sia in importanti regioni, federazioni e circoli. Se avessimo
ancora 160 funzionari probabilmente il partito funzionerebbe meglio. Se
avessimo milioni di euro da investire in comunicazione potremmo
sormontare molte difficoltà ad essere “visibili”.
Queste cose fanno
parte della sconfitta e del tentativo di resistere non cedendo e non
svendendo identità e contenuti. Non abbiamo colpe.
Ognuna delle
scissioni, grandi e piccole, di destra e di sinistra, nazionali o
locali, oltre alla fuoriuscita dei protagonisti delle stesse ne hanno
provocato una molto più grande di compagne e compagni delusi,
amareggiati e sfiduciati.
Ed anche questo è un dato sostanzialmente
oggettivo.
E ce ne sono altri.
Il pensiero dominante, fatto di luoghi comuni,
semplificazioni, personalismi, è profondamente penetrato nel popolo. Ed
anche nel nostro partito.
Se non sei in televisione non esisti. Se
non hai un leader carismatico e giovane non hai speranza. Se non vinci
sei un perdente. Se non banalizzi e non semplifichi tutto non sei in
grado di farti capire. Se non compare il tuo simbolo sulla scheda
elettorale vuol dire che ti sei svenduto, che hai rinunciato alle tue
idee, che non sei coerente. Chi la spara più grossa e urla la frase più
scarlatta è più di sinistra. E così via.
La maggioranza dei
militanti non legge, non studia. Quando avevamo 130mila iscritti il
quotidiano del partito vendeva circa 12mila copie. E nei circoli si
discuteva della linea politica del partito così come appariva nei talk
show in TV. Oggi è peggio. Non meglio, nonostante il partito sia più
militante.
Perfino l’individualismo più sfrenato è penetrato fra le
nostre fila.
Spesso uno screzio diventa un dramma e poi una guerra
senza esclusione di colpi.
Una divergenza in un organismo diventa
oggetto di insulti, diffamazioni, processi alle intenzioni non solo
nelle riunioni ma soprattutto sui cosiddetti social network in internet.
Gli imbecilli che appena hanno una discussione nel circolo, nel federale
o addirittura nel CPN corrono ad insultare altri/e compagne/i via
twitter o facebook andrebbero espulsi seduta stante, perché producono
un’immagine oscena del partito che non può che allontanare persone serie
e animate da uno spirito realmente militante.
Una cosa è litigare o
discutere animatamente in una riunione ed un’altra è insultare per
iscritto in modo che il mondo intero possa godere della rissa in
internet. Talk show e reality show fanno egemonia.
In una simile
situazione è perfino scontato che il tesseramento vada male.
Infine
c’è un problema strutturale. Che non dovrebbe proprio esistere in un
partito comunista.
Il partito comunista esiste per agire. Non per
discutere. L’analisi, la discussione e le decisioni conseguenti servono
per metterle in pratica. Un partito comunista dovrebbe decidere a
maggioranza raramente, in presenza di decisioni controverse ed
importantissime. E dovrebbe selezionare dirigenti con il criterio delle
competenze, del valore, della rappresentanza di genere, dell’impegno,
delle doti umane e politiche connesse alla solidarietà e al rispetto
delle posizioni altrui.
Un partito di correnti non funziona così.
Una cosa sono culture politiche, correnti di
pensiero, riviste. Queste cose sono indispensabili e arricchiscono la
vita collettiva del partito. Un’altra cosa sono correnti che tentano di
impedire che le decisioni prese democraticamente si realizzino, che
praticano la “propria linea politica” contrapposta a quella nazionale
nel circolo o nella federazione dove hanno la maggioranza, che praticano
l’ostruzionismo negli organismi dirigenti, che non esitano ad usare la
demagogia, le suggestioni e le semplificazioni più vergognose per
“vincere” la loro battaglia.
Questa situazione produce effetti
deleteri.
Si selezionano dirigenti sulla base della fedeltà perché
la maggioranza tende a farlo per garantirsi di poter procedere
all’applicazione di quanto deciso e le/la minoranze/a per poter
continuare ad oltranza la battaglia contro la maggioranza.
Esistono
cordate, sottocorrenti, e persone che subordinano il voto a decisioni
importanti all’ottenimento di posti di direzione. E possono passare
disinvoltamente da una posizione all’altra secondo interessi che nulla
hanno a che vedere con la politica.
Gli organismi dirigenti invece
che luoghi di pensiero, di approfondimento, di elaborazione diventano
parlamentini ai quali le correnti si presentano dopo aver discusso al
loro interno e dove sono costrette a praticare una disciplina interna in
una guerra permanente con tanto di dichiarazioni di voto a nome della
corrente. Parlamentini dove spesso si usano armi nobili e necessarie in
un parlamento dove ci sono partiti contrapposti e dove l’opposizione ha
il sacrosanto diritto di usare ogni espediente per mettere in difficoltà
il governo, ma che sono totalmente improprie in un partito politico dove
si sta per scelta, per affinità ideologica e programmatica e che per di
più deve, come è il caso del partito comunista, combattere con nemici
potenti e andare controcorrente.
E così si agisce sul numero legale,
si elaborano ordini del giorno al solo scopo di mettere in difficoltà la
corrente opposta, si chiedono conteggi dei voti anche quando è
totalmente superfluo, si brandisce lo statuto con argomenti da
azzeccagarbugli. Anche su questo potrei continuare a lungo.
Ma è
certo che questo modo di essere e di comportarsi degli e negli organismi
dirigenti ha allontanato moltissime compagne e moltissimi compagni.
Penso che durante e dopo il congresso si debba discutere seriamente di
come debba funzionare un partito comunista composto principalmente da
militanti e di come invertire la tendenza a diventare una somma di
partitini in perenne conflitto fra loro.
ramon mantovani