Partito
della Rifondazione Comunista
X Congresso
TESI C
Il Sindacato, la lotta di classe, la
redistribuzione della ricchezza e il nodo dei rapporti di proprietà
“Se non ci si identifica seriamente con la condizione
dei
lavoratori e delle lavoratrici, se non li si ama,
non si può fare il
sindacalista, non è possibile.
Quindi, gli atti di cinismo, di
furbizia sono delle
sciocchezze autolesioniste. Sciocchezze contro di
sé
più che contro gli altri. (Quello del sindacalista) è un lavoro
difficile e per farlo bisogna avere un certo livello di moralità, e
bisogna credere davvero che sia possibile la giustizia,
la giustizia
sociale, perché se non si crede neanche
in questo, non si può fare il
sindacalista”
(Claudio Sabattini)
1. La deriva
“collaborazionista” del sindacato confederale, che un tempo trovava
nella Cisl e nella Uil i suoi principali interpreti, ha nell’ultimo
decennio fagocitato, con una progressione impressionante anche la Cgil.
Ciò è avvenuto attraverso un processo speculare a quello che ha
coinvolto la sinistra prima post e poi anti-comunista, in progressiva,
rapida transumanza dal Pds ai Ds al Pd e approdata ad una ideologia
dichiaratamente libero-mercatista.
La circostanza che lo
smantellamento feroce del sistema di protezione sociale, del diritto del
lavoro, della contrattazione collettiva, del potere di coalizione dei
lavoratori sia potuto avvenire non soltanto senza una reazione, ma
spesso con il consenso di gran parte della Cgil e del suo gruppo
dirigente, parlano di una vera e propria mutazione nella cultura
profonda dell’organizzazione, lungo una china difficilmente reversibile,
se non attraverso una rottura di cui, tuttavia, non sembrano oggi
esservi le premesse.
Ci troviamo di fronte ad un sindacato che ha via
via mutato il proprio codice genetico.
La contrattazione collettiva
nazionale è congelata da tempo o ridotta ad un simulacro, mentre quella
aziendale, anche nel settore manifatturiero dove vantava la sua più
antica e consolidata tradizione, si è strada facendo trasformata in un
aziendalismo intrinsecamente segnato dalla subalternità.
La
proliferazione degli enti bilaterali e le forme esplicite o surrettizie
di finanziamento del sindacato ad esso connesse ne hanno compromesso
l’autonomia e l’indipendenza.
Il peso dei servizi a rapporto
individuale (uffici vertenze, patronati, assistenza fiscale, ecc.) ha
assunto un peso sempre più rilevante rispetto alla contrattazione
collettiva e sta mutando radicalmente il rapporto stesso fra il
sindacato e gli iscritti.
Si attenua sino a smarrirsi del tutto il
significato del sindacato come strumento di riscatto collettivo: il
riferimento non è più la classe, ma le persone che avendo un lavoro
cercano nel sindacato, ciascuna per sé, una qualche forma di assistenza
e di protezione individuale. Così la più elementare coscienza di classe
si stempera sino ad evaporare. Di quello che fu il più grande sindacato
europeo, inventore di inedite forme di democrazia operaia e direttamente
produttore di politica non esiste più né traccia né memoria.
1.1
Lo sconquasso sociale generato dalle politiche dei governi ha finito per
costringere la Cgil a fare i conti con una crisi interna senza
precedenti e con la sconfortante impotenza a cui si è consegnata.
La
“nuova” Carta dei diritti dei lavoratori, la promozione dei referendum
sociali, il pur tiepido pronunciamento per il “no” nel referendum
costituzionale sono tentativi tardivamente risarcitori, ma del tutto
scardinati dal terreno specifico sul quale un sindacato dovrebbe
caratterizzare la sua iniziativa. Sono gesti che servono a dare corpo ad
un’immagine pubblica, priva però di sostanza sindacale.
La stessa
confessione di impotenza – sia pure dentro un profilo politico non così
prono ed arrendevole – è venuta dalla Fiom, che ha creduto di
esorcizzare le difficoltà squisitamente sindacali della propria
organizzazione spostando il focus dell’iniziativa fuori dal rapporto
contrattuale, fuori dal rapporto fra capitale e lavoro, attraverso la
proposta della più improbabile “coalizione sociale”, non per caso
spentasi nel nulla con la velocità del baleno.
Lo stesso recente
contratto dei metalmeccanici ha fatto segnare uno dei punti più bassi
della storia negoziale di quel sindacato. Non solo per l’irrisoria
entità del risultato economico, ma più ancora per il rovesciamento
qualitativo dell’intero modello contrattuale: aumenti salariali
collegati ad una sorta di scala mobile alla rovescia, premi aziendali
totalmente variabili e collegati alla produttività, raddoppio dello
straordinario obbligatorio, penalizzazione delle malattie brevi, sanità
integrativa, strumenti di fidelizzazione dei lavoratori attraverso
welfare e benefits aziendali. Mentre temi come l’articolo 18, i
demansionamenti, la videosorveglianza, i contratti di lavoro precari
sono stati sottratti al confronto.
I dati ufficiali della
consultazione dei lavoratori parlano di un 20% di dissensi, in un quadro
regolamentare dove il voto è libero, ma dove nelle assemblee si è potuto
sostenere soltanto il Sì.
La rivendicazione della democrazia di
massa, per lungo tempo bandiera della Fiom - in opposizione ad una
confederazione che malgrado i vincoli statutari tendeva a sbarazzarsene
- si è rovesciata nell’esercizio di un rito plebiscitario dall’esito
scontato.
Dovrebbe tuttavia sollevare qualche riflessione il fatto
che il No è prevalso in molte fra le realtà dove ancora resiste una
capacità di combattimento. In particolare alla Same, alla GKN, negli
stabilimenti Electrolux, nei principali cantieri navali di Fincantieri,
alla Marcegaglia di Forlì, alla Danieli di Udine, alla Piaggio di
Pontedera, alla Continental, all’ex Avio di Pomigliano, alla Jabil di
Caserta, alla Motovario di Modena, all’ILVA di Genova, all’Ansaldo, in
molti siti di Sirti e della ST Microelectronic. Impossibile citare tutte
le fabbriche, ma ognuna di queste e molte altre pesano tanto, anche
oltre il numero di voti che hanno espresso. Perchè sono quelle più
grandi, le più combattive e militanti, quelle su cui un sindacato può
contare quando decide di mobilitarsi e scioperare. Qualsiasi sindacato
che non viva come un serio problema il fatto che i settori più
combattivi e organizzati della classe abbiano respinto questa linea
contrattuale, rischia di perdere (o ha già perso) il contatto con la
realtà.
1.2 Ora, è evidente che una svolta non può che passare
attraverso la ricostruzione del sindacato e il difficilissimo compito
che è di fronte a noi è quello di dare una mano in questa direzione, per
rimettere in piedi e rifondare un modello contrattuale inclusivo, capace
di riunificare i segmenti in cui tutto il mondo del lavoro eterodiretto
è stato scomposto, disaggregato, per ricostruire quella trama solidale
la cui disintegrazione sta alla base della guerra tra poveri su cui i
padroni hanno in questi anni costruito la propria fortuna economica e
politica.
Questa linea contrattuale deve saldarsi ad una proposta di
politica economica generale da tempo uscita dall’orizzonte strategico
del sindacato, dove programmazione economica, ruolo decisivo della mano
pubblica per una politica di investimenti che il capitale non vuole né
può sostenere, piena occupazione, riduzione dell’orario di lavoro a
parità di salario possano tornare ad essere il fulcro unificante delle
lotte.
Perché ciò avvenga la nostra critica al sindacato deve essere
dunque chiara, senza sconti, senza cerchiobottismi condizionati dal
timore di logorare i rapporti con l’establishment sindacale.
Non si
tratta di impartire come partito “ordini di servizio” ai comunisti che
militano nel sindacato, né di dire loro qual è il sindacato dove
spendere la propria militanza. Ciascuno stia dove ritiene stare, dove
ritiene sia più efficace la propria iniziativa, ma comune sia il terreno
sul quale si dà battaglia.
I comunisti nei sindacati ci sono, ma
spesso non si conoscono e non lavorano insieme. La costruzione di una
commissione nazionale che coinvolga i quadri che abbiamo nei luoghi di
lavoro e nelle strutture sindacali è il primo atto da compiere per dare
corpo ad una linea chiara, riconoscibile, dotata di un profilo
nazionale, innervata nel processo produttivo e nei servizi.
2.
Abbiamo da gran tempo imparato che la rivoluzione comunista non è un
destino scritto nel codice genetico del proletariato al quale
spetterebbe solo di scoprire ciò che è occultato dall’ideologia delle
classi dominanti. Alimentare questo equivoco consolatorio, per giunta
nelle modeste condizioni in cui siamo, servirebbe solo a produrre un
involontario quanto poco raccomandabile effetto comico.
E’ invece
indispensabile riprendere con umiltà il trascuratissimo lavoro di
inchiesta e di analisi della composizione di classe nel tempo presente,
delle condizioni oggettive e soggettive di ogni segmento del lavoro
subordinato o eterodiretto.
Si deve tornare ad indagare innanzitutto
le differenze, cioè le specifiche modalità attraverso le quali si
materializza il rapporto di capitale nel tempo presente, come esso
cambia la concreta condizione di lavoro e forma le idee, la coscienza di
sé, le aspettative di quanti entrano nel processo di produzione e
riproduzione.
La composizione tecnica di classe è il primo punto da
cui partire: comprendere come ogni segmento si colloca nella complessità
dell’organizzazione della produzione sociale, come ogni tessera del
mosaico contribuisce alla generazione della catena del valore. Non per
ridurre tutto, meccanicamente, ad omogeneità ma, esattamente al
contrario, per cogliere gli aspetti differenziali, quelli attraverso i
quali il capitale divide e contrappone il lavoro subordinato, quello
formale e quello informale, quello materiale e quello intellettuale,
quello cognitivo in ogni sua sfaccettatura e quello in cui la fatica
fisica è ancora l’elemento prevalente.
Insomma, l’omogeneità della
classe, oltre la dimensione seriale, non è un dato di partenza, prodotto
necessario di una sorta di “ontologia” proletaria, ma l’obiettivo per
cui lottare.
L’indagine deve anche sapere indagare la struttura
soggettiva dei bisogni, senza la quale il concetto di composizione
tecnica rimane ancorato ad una descrizione sociologica.
Solo dentro
questo complesso processo è possibile tentare di conquistare una
ricomposizione politica di classe e definire nel concreto (non
astrattamente, non “in vitro”) una politica capace di riaggregare ciò
che l’organizzazione capitalistica del lavoro ha diviso, trasformando il
mondo del lavoro in un caleidoscopio, fratturandone la coesione
solidale, separandone gli interessi, ponendoli in reciproca concorrenza.
In questo complesso lavoro ricognitivo occorre rifuggire da talune
teorizzazioni in base alle quali nella modernità capitalista tutto è
lavoro, anche quando apparentemente non fai nulla, perché anche il gesto
più anonimo e apparentemente insignificante verrebbe fagocitato
dall’onnivora capacità digestiva del capitale.
Estremizzare il
concetto di universale messa al lavoro, di colonizzazione del general
intellect equivale a perdersi in un ginepraio dal quale poi non si sa
più come uscire.
Lo sfruttamento capitalistico è sì pervasivo, ma non
si sviluppa in una superficie liscia, senza gerarchie di luoghi e di
settori, di cui bisogna invece costruire delle mappe gerarchiche, da
mettere in relazione con le modifiche intervenute nel meccanismo di
accumulazione.
Con questo schema teorico e nella temperie del
conflitto si può individuare il piano comune, concreto e insieme
politico e simbolico su cui far leva per ridare vita ad un punto di
vista di classe oggi completamente sradicato.
3. La formula che
recita “non c’è nessuna scarsità ma soltanto ricchezza maldistribuita”
può ingenerare la convinzione che, nel tempo presente, il capitale sia
nel pieno della sua capacità di implementare lo sviluppo delle forze
produttive e, dunque, che la contraddizione non risieda tanto nel modo
di produzione quanto piuttosto a valle del processo di accumulazione,
appunto nella distribuzione.
In realtà il capitale è entrato in
quest’epoca in una crisi sistemica, non paragonabile con altre fasi
della sua proteiforme storia.
Le misure antagonistiche adottate dal
capitale per fronteggiare la caduta del saggio medio di profitto sono
sempre meno efficaci.
La distruzione delle forze produttive
(capitale, lavoro), la colonizzazione distruttiva della natura, il
ricorso alla guerra delineano uno scenario fatto di implosione e di
stagnazione con i caratteri della permanenza, proprio mentre il capitale
si concentra e drena - in dimensioni predatorie che fanno impallidire la
stagione dell’accumulazione originaria - tutta la ricchezza prodotta dal
lavoro sociale.
Tutto ciò pone, naturalmente, il tema di una diversa
distribuzione della ricchezza, perché la concentrazione che essa ha
assunto nel tempo presente e la disuguaglianza hanno spalancato vere e
proprie voragini fra l’alto e il basso della società. La funzione del
sindacato e la stessa lotta politica di classe non possono certo
prescindere da questa irrinunciabile missione e infatti è un guaio
serissimo che da tempo non si sappia più farlo.
Ma qual è la causa
che dà origine ad una squilibrata distribuzione del reddito? Qui ci
viene in aiuto Marx, spiegandoci che “secondo le concezioni più
superficiali la distribuzione appare come distribuzione dei prodotti e
quindi più lontana dalla produzione e quasi indipendente da essa. Ma
prima che la distribuzione sia distribuzione di prodotti essa è
distribuzione degli strumenti di produzione”, ed anzi “la distribuzione
dei prodotti è chiaramente solo un risultato di questa distribuzione”.
Lo squilibrio di cui parliamo sta, dunque, nei rapporti di
proprietà.
Ebbene, la nostra critica deve spingersi sin qui e solo i
comunisti lo possono e lo debbono fare, esplicitamente, e non solo
assumendola come presupposto tacito, mai dichiarato apertamente.
Insomma, nessuna profonda redistribuzione sarà possibile, oggi molto più
di ieri, se non mettendo in discussione i rapporti di proprietà che la
rendono impraticabile. Del resto, non è questo che constatiamo ogni
giorno quando vediamo che pur grandi e generose lotte non riescono a
cavare il ragno dal buco?
La tesi che il cuore del sistema funziona e
che ci si deve dedicare ad una rifondazione etica del capitale,
sospingendolo verso una più equa capacità “redistributiva”, riproduce il
limite insuperabile che fu delle socialdemocrazie culturalmente
rinculate nell’ordine di cose esistente e protese, nella migliore delle
ipotesi, a riscoprire le antiche radici di un capitalismo “buono”, senza
capire che il capitalismo “cattivo” di oggi è esattamente il risultato
del (presunto) capitalismo “buono” di ieri.
Fontana Luca
Greco Dino
Guerra Tonia
Miniati Adriana
Moro Domenico
Nobile
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Scarpelli Pino