Partito
della Rifondazione Comunista
X Congresso
TESI A
L’Europa, l’euro, la lotta contro i trattati
europei e l’austerity
“Quando la dissoluzione della
sovranità nazionale non
mette capo ad una democrazia sovranazionale
ma al
dominio delle nazioni più forti, la rivendicazione della
sovranità non è un regresso agli albori dell’assolutismo,
ma un
progresso verso la riconquista della democrazia”
(Mimmo Porcaro)
1. Sin dalla metà degli anni Settanta, il capitalismo ha abbandonato
ogni velleità prometeica, di progresso universale, e ha rotto il
compromesso post-bellico con la democrazia.
Nell’indirizzo al vertice
della Commissione trilaterale del giugno ’91, David Rockefeller tracciò
con chiarezza la nuova linea: “la sovranità sovranazionale di una élite
intellettuale di banchieri mondiali è sicuramente preferibile
all’autodeterminazione nazionale dei secoli scorsi”.
Più
esplicitamente ancora si esprimerà la banca J.P. Morgan nel maggio del
2013 col noto documento in cui essa “suggerisce” di liquidare “le
Costituzioni adottate in seguito alla caduta del fascismo”, poiché
troppo permeate dalle idee socialiste, dalla eccessiva presenza di un
movimento sindacale organizzato, da un ingombrante sistema di protezione
sociale e da un sovraccarico di democrazia.
Per il capitale che si
internazionalizza, che abbatte ogni frontiera e non riconosce altro
statuto che quello insito nel suo codice genetico, lo Stato-nazione è il
nemico da abbattere, perché lì e solo lì possono materializzarsi forze
antagonistiche potenzialmente capaci di ostacolare il progetto di
sussunzione al capitale di ogni rapporto economico, sociale, umano.
Portare la lotta “al livello del capitale” non significa dunque
accettare il terreno di scontro ad esso più favorevole (quello di
un’eterea, inafferrabile dimensione sovranazionale, nel nostro caso
europea), ma di porsi rispetto ad esso in una posizione asimmetrica,
costringendolo a calcare gli stivali nella “palude” degli stati
nazionali, nella dimensione territoriale, cioè nei luoghi dove è
concretamente possibile – nelle forme date – organizzare il conflitto e
la resistenza contro le politiche di austerity.
L’ “unità minima”
ove portare il conflitto antagonistico si identifica con lo Stato
nazionale perché, nella situazione presente, solo esso può avere la
forza di reperire – in piena coerenza con la legge fondamentale della
Repubblica - i mezzi finanziari indispensabili per riattivare la mano
pubblica, non in un recinto autarchico ma, al contrario, per ostacolare
i movimenti destabilizzatori del capitale e aprire nuovi spazi
cooperativi internazionali.
Occorre infatti non perdere di vista che
l’Ue è prima di tutto la forma politica di un rapporto sociale e,
precisamente, di un rapporto sociale imperniato sul dominio del capitale
finanziario; l’architettura monetarista che esso ha posto a suo
fondamento serve a stabilizzare e “blindare” quel potere.
Siamo cioè
di fronte ad una vera e propria ristrutturazione della formazione
economico-sociale capitalistica che coinvolge la struttura economica
(cioè il modello di accumulazione), i rapporti di proprietà, la
sovrastruttura politica e giuridica, i modelli istituzionali ed
elettorali e l’ideologia che rende coeso il blocco sociale dominante.
L’ambizioso progetto è quello di liquidare in radice il welfare
novecentesco, ridurre i salari a livello di sussistenza, consegnare alla
marginalità le forme di aggregazione sociale e politica di impronta
classista con l’obiettivo di rendere permanente l’estrazione di
plusvalore assoluto dal lavoro vivo, condizione indispensabile in una
fase della storia in cui la composizione organica e la stupefacente
concentrazione del capitale hanno raggiunto un livello tale da non
riuscire a offrire agli investimenti un adeguato rendimento.
Il
livello dello stato nazionale e i vincoli costituzionali che ne plasmano
la sovranità rappresentano per il capitale un ostacolo da rimuovere in
quanto intrinsecamente contraddittori con quel progetto: un progetto non
negoziabile perché ne va della stessa missione delle classi dominanti.
2. L’ordinamento comunitario, il combinato disposto dei trattati, è
radicalmente antinomico rispetto a quello della Costituzione italiana
del ’48 perché sovverte la gerarchia delle fonti del diritto,
distruggendo sovranità popolare e indipendenza nazionale. Esso mira a
costruire uno spazio economico senza frontiere interne ispirato al
“principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.
Aderendovi e applicandone i dispositivi in via esecutiva il parlamento
italiano ha sovvertito la gerarchia delle fonti del diritto, generando
“norme distruttive ed eversive della stessa Costituzione”.
La
Costituzione del ’48 non accoglie né il modello dell’economia di
mercato, né il generale principio della libera concorrenza. Anzi:
l’articolo 41 afferma con chiarezza che la libertà d’azione dei soggetti
economici privati trova il suo limite nei “programmi” e nei “controlli”
necessari affinché tanto l’attività economica pubblica quanto quella
privata “possano essere indirizzate a fini sociali”.
La Costituzione
– in termini di principio e prescrittivi – affida alla mano pubblica il
disegno globale dell’economia, esattamente per la ragione che Palmiro
Togliatti espose nel dibattito alla prima sottocommissione
dell’Assemblea Costituente (1947) intorno al tema delle “Relazioni
economico-sociali” e a quello che diventerà poi il Titolo III della
Carta. E cioè che “il non intervento dello Stato in una società
capitalistica equivale ad un intervento a favore della classe
dominante”. Vale a dire “al riconoscimento che chi è più forte
economicamente può dettare le condizioni di vita di chi è economicamente
più debole”.
Ciò di cui si incarica la Costituzione è di porre un
limite cogente all’asimmetria di forza fra capitale e lavoro.
Non
occorre essere fini costituzionalisti per capire che l’antinomia fra le
due architetture di sistema condurranno ben presto alla totale
liquidazione dell’articolo 41 della Costituzione, trasformandolo nel suo
rovescio.
Una nuova lettura della Costituzione nel senso del primato
del mercato non può non risolversi nello spostamento delle finalità
dell’intervento pubblico dalla funzione programmatoria alla funzione di
rimozione degli ostacoli al funzionamento del mercato, nella
subordinazione dei fini sociali a quelli della remunerazione del
capitale (cioè del profitto).
Esattamente come nella teoria liberale
classica, lo Stato ha la funzione di assicurare e proteggere da ogni e
qualsiasi turbativa la proprietà e il modo capitalistico
dell’accumulazione privata.
Così stando le cose, tutti i diritti
sociali storicamente conquistati dalle classi lavoratrici diventano,
nella loro integralità – primo fra tutti il diritto al lavoro – come
altrettanti limiti all’esercizio stesso del diritto di proprietà.
Il
diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato, a condizioni
di lavoro sane, sicure, dignitose, la protezione in caso di perdita del
posto di lavoro cessano di essere “giuridicamente vincolanti”.
Si
spiega così la vicenda ormai famosa della lettera che il presidente
entrante e quello uscente della Bce indirizzarono al governo italiano il
5 agosto 2011 (un vero memorandum) in cui si subordinava il sostegno ai
nostri titoli del debito all’adozione di varie misure fra cui, in
particolare, una riforma della contrattazione collettiva che permettesse
di “ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze
specifiche delle aziende” e “un’accurata revisione delle norme che
regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti (…) in grado di
facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori
più competitivi”. Ogni diversa soluzione implicherebbe infatti
un’interferenza inammissibile rispetto all’obiettivo di “un’economia di
mercato aperta e in libera concorrenza” che è l’unico possibile assetto
compatibile con le finalità stabilite dall’articolo 3 del TUE.
In
conclusione: mentre la nostra Costituzione collocava lo Stato – e in
esso il lavoro – in una posizione di primazia, attribuendogli potestà
rilevantissime in ordine alle decisioni circa cosa, come e per chi
produrre, i trattati europei, secondo il dogma liberista, hanno inteso
costruire uno spazio retto dalla libera concorrenza.
La Costituzione
pretendeva di stabilire un proprio ordine entro il quale costringere la
libertà degli affari, l’Ue impone un ordine di libertà per il compimento
degli affari.
3. La nostra linea di attacco deve sapere
individuare l’anello debole della catena e il punto di maggiore
fragilità dell’impianto è l’euro.
Trattati e moneta sono un tutto
organico e l’euro svolge una fondamentale funzione di gerarchizzazione
fra paesi creditori e paesi debitori, fra sud e nord, appunto attraverso
la costruzione forzosa di un’unica area valutaria imposta ad economie
del tutto diverse.
L’avere persuaso che la moneta è un elemento
neutro nell’assetto capitalistico europeo è uno dei più stupefacenti
successi ideologici delle classi dominanti.
Ora, delle due l’una: o
disobbedire ai trattati ha un significato concreto, e allora comporta
l’uscita dall’euro, oppure la disobbedienza si traduce in un puro atto
propagandistico, in attesa di una palingenesi democratica dei popoli
che, più o meno all’unisono, dovrebbero ad un certo punto decidere di
liberarsi dalle proprie catene.
Se “noi non ci battiamo né per
l’uscita dell’Italia dall’Ue, né per l’abbandono dell’euro”, la
dichiarata intenzione di mettere in crisi l’Ue “attraverso forzature” si
risolve in nulla perché nessun significativo atto di rottura è in realtà
nella cifra della nostra politica.
Alle altisonanti affermazioni in
base alle quali “l’Ue va rovesciata” in quanto quella gabbia “non è
riformabile” dall’interno attraverso logiche emendative e va perciò
“spezzata”, corrisponde nella pratica una strategia del tutto priva di
mordente perché mentre si limita ad evocare la necessità di un accumulo
di forze in vista di un futuro rovesciamento, paventa colossali
contraccolpi economico-sociali ove le condizioni di una rottura si
realizzassero sul serio in singoli paesi, trascurando che l’exit di un
paese forte genererebbe una reazione a catena e la frana dell’intero
edificio.
Nella impalpabilità di una linea convincente della
sinistra di classe è la destra a candidarsi a ereditare il consenso
popolare per indirizzarlo verso esiti reazionari, mentre noi veniamo
ignorati o reclutati nel campo di un europeismo malpancista che tuona
molto senza mai fare piovere.
“Mettere nel conto” la possibile
“autocombustione” dell’euro in forza delle contraddizioni interne ai
gruppi dominanti, subirla e basta, significherebbe relegarsi in una
posizione di subalternità non recuperabile, a babbo morto, con
improvvisazioni tattiche dell’ultima ora.
Azzolini Mauro
Greco
Dino
Guerra Tonia
Miniati Adriana
Moro Domenico
Nobile Fabio
Scalia Fulvio