MOZIONE 2 LE RAGIONI DI QUESTO DOCUMENTO. UNA PREMESSA Il VI Congresso del Partito della Rifondazione Comunista cade in un momento difficile per il Paese e per l’intero pianeta. L’Italia è al bivio tra la possibilità di porre fine alla stagione del berlusconismo e il rischio – troppo spesso sottovalutato – di subire per un’altra legislatura i guasti prodotti da un governo di centrodestra. Il mondo si trova in una grave crisi a causa della politica del governo degli Stati Uniti e tutto, dopo la rielezione di Bush alla Casa Bianca, lascia prevedere che la strategia di guerra della superpotenza americana perdurerà, alimentando il rischio di una generalizzazione del conflitto armato. Nel nostro Paese le elezioni politiche si avvicinano. Saranno elezioni in qualche modo decisive, tanti e tali sono i danni provocati dal centrodestra nel sistema sociale, nell’apparato produttivo, nel quadro costituzionale e nel tessuto morale del Paese. È dunque più che mai necessario che la sinistra e le forze democratiche vincano e si impegnino per invertire la tendenza di quest’ultimo decennio, che ha visto dilagare la guerra e i disastri del neoliberismo. A sei anni dalla scissione del ’98, il Partito della Rifondazione Comunista è tornato al centro della scena politica italiana ed è oggi forza determinante per il mutamento degli equilibri politici del Paese. Concordi sull’importanza di questo obiettivo, siamo chiamati a discutere su come perseguirlo. Ciò pone al centro del nostro Congresso la questione politica e, più precisamente, il problema del governo. È questo, oggettivamente, il tema all’ordine del giorno. Lo è per la rilevanza delle decisioni da assumere, e lo è anche per la portata dei rischi che queste comportano. Occorre dunque promuovere tra noi il confronto più sereno e franco possibile, dare a tutto il Partito la possibilità di prendere parte a scelte che ne ridefiniranno la collocazione e che potrebbero metterne in gioco la stessa ragion d’essere. Le differenze, la pluralità di orientamenti sono risorse, non ostacoli: procurano strumenti, non difficoltà. Per tale ragione riteniamo che sarebbe stato più utile un congresso su documenti a tesi emendabili. Non è stato possibile e perciò contribuiamo alla discussione congressuale con questa nostra mozione, cominciando in premessa a segnalare cinque questioni fondamentali. Al governo solo a precise condizioni. Ferma restando l’inderogabile necessità di unire le nostre forze a quelle degli altri Partiti di opposizione per cacciare Berlusconi, ci interroghiamo sulle condizioni di una nostra eventuale partecipazione al governo in caso di vittoria delle attuali forze di opposizione. Siamo consapevoli dell’importanza che potrebbe avere la presenza di Rifondazione Comunista in un governo di coalizione con un programma avanzato. Pensiamo che il nostro Partito sarebbe in grado di fornire un contributo indispensabile a qualificare in senso progressivo la piattaforma programmatica del futuro governo. Ma vediamo anche molti problemi. L’attuale quadro politico non legittima grande ottimismo: pur con contraddizioni, le forze che hanno imposto le politiche di “libero mercato” restano egemoni in tutto il mondo capitalistico; l’ideologia neoliberista esercita ancora una forte influenza sugli orientamenti delle forze democratiche e sulla sinistra moderata del nostro Paese e, come si diceva, la conferma di Bush alla presidenza degli Stati Uniti lascia prevedere che nel prossimo futuro la strategia della “guerra preventiva” continuerà a ispirare l’agenda politica della superpotenza e dei suoi alleati. Non possiamo non vedere i rischi che tale stato di cose porta con sé. Unendo le proprie forze, il centrosinistra e Rifondazione Comunista possono vincere le prossime elezioni. Nonostante ciò, non è affatto detto che il futuro governo si farà carico di quelli che consideriamo obiettivi prioritari: la difesa del lavoro contro la precarietà; la difesa dei salari e delle pensioni, duramente colpiti dall’inflazione e dalle politiche economiche di tutti i governi di quest’ultimo decennio; l’abrogazione delle “leggi-vergogna” di Berlusconi; la difesa della Costituzione nata dalla Resistenza antifascista; la messa al bando della guerra, da chiunque dichiarata e la fine di ogni occupazione militare. Se ciò non avvenisse, una eventuale partecipazione del Partito della Rifondazione comunista al governo con dei ministri rischierebbe di avere gravi conseguenze sul nostro Partito, sui nostri militanti, sui settori di società e di movimenti che oggi guardano a noi. Per questo – e anche per il fatto che un programma chiaro, che preveda risposte efficaci ai bisogni della nostra gente, costituisce una premessa indispensabile per motivare il “popolo della sinistra” nella battaglia elettorale contro le destre – pensiamo che, prima di decidere se entrare o meno nel prossimo governo, il Partito debba pretendere precise garanzie a difesa dei soggetti che intende rappresentare, evitando di firmare cambiali in bianco. Prima i programmi, poi gli schieramenti: questo principio, che ha sempre guidato le scelte politiche di Rifondazione Comunista, è oggi più che mai la nostra bussola. I diritti del lavoro, questione cruciale. Un terreno per noi decisivo è costituito dalla difesa e anzi dalla riconquista dei diritti del lavoro, contro i quali si è abbattuto già nel corso degli ultimi due decenni del Novecento (e con particolare violenza nel corso degli anni Novanta) l’attacco del padronato e dei governi. Per anni – benché l’area del lavoro salariato continuasse ad espandersi in Italia e nel mondo – ha imperversato, anche a sinistra, la tesi della “fine del lavoro”. Questa ideologia è servita a distogliere l’attenzione dal massacro sociale subìto dalle classi lavoratrici. Nel frattempo la condizione dei lavoratori si è fatta insostenibile. I salari e gli stipendi sono divorati da un’inflazione reale assai più elevata di quella programmata. La precarietà e la flessibilità sono divenute norma. Si vorrebbero superare i contratti collettivi nazionali. Le imprese ricorrono quasi esclusivamente ai rapporti “atipici”, a tempo determinato e senza tutele. Le norme sulla sicurezza sono sistematicamente eluse (l’Italia è ai primi posti nelle statistiche sugli incidenti mortali sul lavoro, con oltre 1400 vittime l’anno). La riforma delle pensioni ha duramente colpito il sistema previdenziale, trasformando per i più in un miraggio il raggiungimento dell’età pensionistica e gettando milioni di pensionati in condizioni di povertà. Tutto questo accade in una Repubblica che il primo articolo della Costituzione dichiara “fondata sul lavoro”. Occorre prendere sul serio questa dichiarazione, che riposa sulla consapevolezza del fatto che è il lavoro – e non certo un capitale che si accresce sul suo sfruttamento – la vera fonte della ricchezza del Paese. Occorre reagire contro il dogma della “centralità dell’impresa”, che in Italia non ha nemmeno significato investimenti produttivi e sviluppo industriale, ma privatizzazione di risorse pubbliche, regalie a una borghesia parassitaria e accumulazione di profitti e di rendite. Occorre anche smascherare la retorica della concorrenza e del mercato, che, lungi dal significare smantellamento degli oligopoli, è servita solo a giustificare concentrazioni di capitale e rafforzamento delle rendite di posizione. A questi criteri è necessario sostituirne altri, di segno opposto: piena occupazione e lavoro stabile; difesa del salario (mediante una nuova “scala mobile”); difesa del contratto collettivo nazionale e democrazia sindacale; rilancio della programmazione economica e dell’intervento pubblico, a cominciare dai settori a bassa redditività immediata (infrastrutture, ricerca, formazione); potenziamento dei servizi sociali. Non basta. È tempo anche di prendere sul serio quanto la Costituzione prescrive in materia di funzione sociale dell’iniziativa economica privata, prevedendo forme di controllo “dal basso” sui piani d’impresa, sull’organizzazione del lavoro, sull’impatto ambientale delle produzioni e sull’impiego dei finanziamenti pubblici ricevuti. La difesa del lavoro e dei suoi diritti è il fondamento di una reale democrazia e il centro delle preoccupazioni dei comunisti. Data per morta, la contraddizione capitale-lavoro resta in realtà centrale. E il lavoro dipendente rimane, nelle sue molteplici forme, il fulcro del blocco sociale in grado di realizzare la trasformazione dello stato di cose presente. In Iraq c’è una Resistenza di popolo. Il dramma della guerra in Iraq occupa da oltre un anno e mezzo il centro della scena internazionale. L’attacco imperialista a uno Stato sovrano da parte degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dei loro più stretti alleati (tra cui figura purtroppo anche l’Italia) ha sin qui causato la morte di oltre 100mila civili innocenti: un massacro che pesa come un macigno sugli uomini e sui governi che hanno messo in atto questa infame impresa bellica, un gravissimo crimine contro l’umanità, che rende più che mai necessario l’immediato ritiro dall’Iraq di tutte le truppe di occupazione, a cominciare da quelle italiane. Ma le cose non vanno secondo le previsioni di Bush, di Blair e di Berlusconi. La guerra, che si sarebbe dovuta concludere in poco più di un mese, dura ancora, e ciò rende più difficile agli Stati Uniti, almeno per il momento, nuove aggressioni, già pianificate, a danno di altri Stati sovrani (a cominciare dai cosiddetti “Stati canaglia”: Iran, Siria, Corea del nord e Cuba). La macchina bellica più agguerrita del mondo stenta ad avere la meglio contro un Paese distrutto e contro una popolazione stremata. Ciò si deve al fatto che all’occupazione militare il popolo iracheno ha risposto con straordinario coraggio e orgoglio, mettendo in campo una capillare Resistenza armata che i continui bombardamenti e gli attacchi di terra delle truppe anglo-americane non sono ancora riusciti a piegare. Questa Resistenza di popolo deve essere riconosciuta e sostenuta quale espressione della legittima aspirazione della popolazione irachena all’indipendenza e all’autonoma determinazione del proprio futuro. Per questo dissentiamo da chi, con la complicità dei media, evoca una presunta “spirale guerra-terrorismo”. Non solo questa formula cancella dalla scena la Resistenza irachena, ma per di più suggerisce una inammissibile equivalenza delle responsabilità. Ferma restando la più netta condanna del terrorismo, noi riteniamo invece che la responsabilità di questa guerra criminale incomba esclusivamente su Bush e sui suoi alleati, che hanno scatenato l’attacco all’Iraq per tutt’altre ragioni (il controllo delle risorse energetiche; la competizione geopolitica con la Cina, la Russia e l’Unione europea; gli enormi profitti legati alla spesa militare e al business della “ricostruzione”, ecc.). Ha ragione il premio Nobel Pérez Esquivel quando afferma che è Bush oggi il più pericoloso terrorista. Da questo giudizio deve, a nostro giudizio, prendere avvio qualsiasi discorso sulla guerra in Iraq. La nostra storia è un patrimonio, non un problema. Essere comunisti oggi è difficile anche perché più che mai violento è l’attacco alle nostre idee, alle nostre aspirazioni, alla nostra storia. Il revisionismo storico, che punta a criminalizzare l’idea stessa della lotta di classe, stravolge l’intera esperienza del movimento rivoluzionario operaio e comunista presentandola come una sequenza di violenze e di fallimenti. Di recente questa tesi liquidatoria si è fatta strada anche a sinistra. Autorevoli intellettuali hanno rappresentato l’eredità del secolo scorso come un cumulo di macerie. Contro le rivoluzioni proletarie e la stessa Resistenza antifascista sono stati intentati processi sommari con condanne senza appello. Da ultimo si è giunti a dichiarare politicamente morti tutti i più grandi dirigenti comunisti del Novecento. Non ci riconosciamo in questi bilanci, che riteniamo storicamente e politicamente errati. Il movimento comunista ha dato forza alla rivendicazione dei diritti fondamentali delle masse lavoratrici e si è sempre schierato contro la guerra, per la pace e per la giustizia sociale. L’insegnamento dei suoi più grandi dirigenti del Novecento – da Lenin a Gramsci – è ancora un contributo prezioso per l’analisi critica della società capitalistica. Le grandi rivoluzioni che si sono susseguite dopo il 1917 hanno liberato sterminate masse di popolo e inaugurato una nuova epoca storica, nella quale si colloca la nostra esperienza di comunisti. La Resistenza antifascista – nella quale furono in prima fila i partigiani comunisti – ha permesso al nostro paese di riconquistare dignità e democrazia dopo l’infame vicenda del fascismo, delle sue leggi razziste e della guerra al fianco di Hitler. Di questa storia siamo orgogliosi. Non ne dimentichiamo limiti e pagine buie, ma non condividiamo atteggiamenti liquidatori. Pensiamo che occorra, certo, procedere nella ricerca e nella riflessione. Ma rivisitare la storia non significa rimuoverla. Non condividiamo la assunzione della teoria della nonviolenza come nuovo tratto identitario di Rifondazione Comunista. Le forme di lotta dipendono dal contesto in cui si praticano: oggi in Italia è possibile praticare la lotta pacifica anche perché ieri i partigiani, con le armi in pugno, hanno sconfitto il fascismo; per contro, in Iraq – dopo una guerra e una occupazione illegittime – il popolo iracheno è costretto a dare vita ad una resistenza anche armata per sconfiggere gli invasori. Anche il concetto secondo il quale i comunisti non lottano per conquistare il potere ci pare non solo estraneo alla nostra storia, ma incomprensibile. Essere in un governo con dei ministri non significa forse “contaminarsi” col potere? Non c’è mai, nella realtà, un vuoto di potere. Perdere di vista questo terreno, per rimanere puri e incontaminati, significherebbe rinunciare alla lotta politica e renderebbe nei fatti impraticabile l’obiettivo della trasformazione della società in senso socialista. Il Partito: uno strumento essenziale. Gli straordinari impegni che ci attendono impongono di dedicare particolare cura al Partito, al suo rafforzamento organizzativo, al suo insediamento sociale e territoriale. Occorre un Partito comunista capace di organizzare lotte, promuovere conflitti, sviluppare movimenti, radicato nella società e nel mondo del lavoro e culturalmente autonomo dalle ideologie dominanti: un Partito, in ultima analisi, che consenta di tenere aperta la prospettiva del superamento del capitalismo. Ciò pone in primo piano la necessità di una politica per l’organizzazione, tesa in particolare alla formazione di quadri e militanti, al rafforzamento e al rilancio delle strutture di base. I circoli, sia quelli territoriali che di luogo di lavoro, vivono oggi uno scarso coinvolgimento nella elaborazione della linea politica del Partito. Ciò determina un senso di disorientamento che in alcuni casi produce situazione di passività, di disaffezione e di calo della militanza. Per queste ragioni, si richiede una correzione di linea rispetto alle “innovazioni” introdotte nel V Congresso, che, accentuando questo processo, sono andate nella direzione di costruire un Partito “leggero” e “mediatico”. Ne sono conferma il calo degli iscritti e, ancora di recente, la scarsa partecipazione alla nostra ultima manifestazione nazionale: tutti elementi in controtendenza rispetto allo sviluppo di importanti movimenti verificatosi nel corso di questi anni. Occorre una netta inversione di tendenza, che consenta di recuperare i gravi ritardi nella discussione sullo stato dell’organizzazione, e di riconoscere nel Partito e nella sua forza organizzata uno strumento essenziale per la trasformazione della società. TESI 1 PER IL SUPERAMENTO DEL CAPITALISMO L’obiettivo del superamento del capitalismo verso il socialismo e il comunismo non è semplicemente un’aspirazione: esso nasce dalle stesse contraddizioni antiche e nuove che il capitalismo non è in grado di risolvere. Il capitalismo è entrato nel terzo millennio portando con sé contraddizioni sempre più profonde. Nonostante la dinamicità e l’opulenza che manifesta in ambiti anche rilevanti, esso si rivela incapace di offrire una vita dignitosa alla maggioranza degli abitanti del pianeta. Centinaia di milioni di esseri umani vengono privati dei più elementari diritti. Adulti e bambini muoiono di fame e di sete. Epidemie e guerre affliggono gran parte della popolazione mondiale, mentre si riaprono piaghe – la guerra, il razzismo, la schiavitù, l’analfabetismo, il lavoro minorile – che ci si era talvolta illusi di aver sanato o ridotto. Negli stessi paesi capitalistici più sviluppati tornano guerre e tentazioni autoritarie e, come sempre, sono le fasce più deboli della popolazione (i proletari, i giovani e i più anziani, i migranti) a pagare il prezzo più alto della regressione. Il diffondersi di vecchie e nuove forme di sfruttamento, di povertà e di emarginazione nel cuore stesso dell’Occidente capitalistico è indice di come il sistema non riesca a congiungere le immense potenzialità del progresso scientifico con il progresso sociale e la umanizzazione delle relazioni fra gli esseri umani. Non è colpa di un “destino cinico e baro”, ma dei meccanismi stessi del sistema capitalistico, fondato sulla indiscriminata ricerca del profitto, sul saccheggio delle risorse naturali e sullo sfruttamento della forza-lavoro di sterminate masse umane a vantaggio di un pugno di banche e di multinazionali di Paesi capitalistici del “libero Occidente”. A questo insieme di cause si deve anche il fatto che, a quindici anni dal 1989, lo stato di guerra sia il tratto dominante del quadro internazionale. Si tratta di una tendenza che non accenna ad attenuarsi e della quale la rielezione di Bush lascia piuttosto prevedere una recrudescenza. Mentre i motivi addotti a giustificazione del massacro iracheno – connivenza col terrorismo, detenzione di armi di distruzione di massa – si sono rivelati falsi, diventa ogni giorno più evidente la vera finalità della guerra: controllare la regione del mondo più ricca di risorse energetiche e colonizzare militarmente una zona decisiva per tenere sotto minaccia missilistica i più pericolosi concorrenti della superpotenza statunitense, in particolare la Cina. L’Afghanistan e l’Iraq (insieme alle ex-repubbliche sovietiche dell’Asia centrale) sono regioni nelle quali gli Stati Uniti stanno insediando importanti basi militari. Lo scenario è quello di una competizione per l’egemonia mondiale nel XXI secolo. Gli Stati Uniti, di fronte alle proprie difficoltà economiche, a un debito estero che è il maggiore del mondo, all’emergere di nuove aree economiche, geopolitiche e valutarie che ne minacciano il primato mondiale, scelgono la guerra “permanente” e “preventiva” per tentare di vincere la competizione globale sul terreno militare, dove sono ancora i più forti. E dove si propongono di raggiungere una superiorità schiacciante sul resto del mondo, per cercare di invertire una tendenza crescente al declino del loro primato economico. TESI 2 LA TEORIA DELL’IMPERO SMENTITA DAI FATTI La mondializzazione capitalistica smentisce la tesi dell’azzeramento del ruolo degli Stati, ponendo in risalto piuttosto due tendenze: da un lato, l’esistenza di Stati sempre più forti, collocati ai vertici del mondo; d’altro lato, la realtà di Stati deboli o in via di disgregazione. Le guerre e le aggressioni imperialiste condotte nell’ultimo decennio hanno evidenziato questo processo: significativi esempi sono la divisione della ex-Jugoslavia e i tentativi in atto di smembramento della Federazione russa. Gli Stati forti disgregano e attraggono entro le proprie “aree di influenza”. Ciò fa parte della perdurante tendenza alla costituzione di poli capitalistici e imperialistici in competizione tra loro, entro cui i singoli Stati si coordinano – pur con contraddizioni interne – nell’intento di conseguire una dimensione ottimale per reggere la concorrenza internazionale. L’odierna gerarchia capitalistica si ridisegna intorno a tali entità continentali e alle principali compagini statuali e inter-statuali che le costituiscono (gli Stati Uniti; l’Unione europea con l’asse franco-tedesco; il Giappone). Lo Stato resta dunque un elemento chiave e ciò conferma la piena attualità della nozione di “imperialismo”. Pur entusiasticamente accolta da vasti settori della “sinistra critica”, la teoria dell’“Impero” (secondo cui ai governi nazionali sarebbe ormai subentrata una sorta di direttorio mondiale composto da Usa, Cina, Russia, Giappone) si è dimostrata totalmente infondata. Gli stessi organismi internazionali (Fondo monetario, Banca mondiale, Wto, ecc.) sono diretta espressione degli Stati guida e ciascun polo capitalistico cerca di proteggere le proprie imprese transnazionali predisponendo (con gli strumenti della diplomazia e, se necessario, con la guerra) le condizioni più favorevoli al loro sviluppo. Le tensioni tra Stati Uniti ed Europa si sono accentuate e tutto lascia prevedere che, in seno all’Unione europea, il contrasto tra filo-americani e sostenitori di una maggiore autonomia europea nelle relazioni transatlantiche sia destinato ad approfondirsi. Usciti vincitori dalla Guerra fredda, gli Stati Uniti hanno puntato tutto sulla conservazione del proprio status di unica superpotenza mondiale e per questo intendono impedire l’emergere di qualsiasi potenziale competitore. Inevitabilmente ciò li sospinge verso una crescente rivalità nei confronti delle potenze regionali emergenti e, soprattutto, del gigante cinese, i cui vertiginosi ritmi di crescita economica non possono non impensierire la dirigenza statunitense. Non è un caso che – anche per la sua direzione politica – oggi la Cina sia considerata dalla Casa Bianca l’antagonista più pericoloso dei prossimi decenni. TESI 3 IL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA E IL NEOLIBERISMO E LA RESISTENZA ANTIMPERIALISTA DEI POPOLI Dalla contestazione dei vertici economici e politici delle maggiori potenze capitalistiche si è venuto sviluppando un grande movimento di massa che ha saputo diffondere la consapevolezza della distruttività dell’attuale modello di sviluppo. A Seattle, a Porto Alegre, a Bombay e a Cancun, i Forum sociali mondiali hanno costituito straordinari appuntamenti nei quali si è via via consolidato un “comune sentire” critico contro la violenza del capitalismo, la fame, le guerre, la devastazione ambientale. Questa spontanea e tenace mobilitazione è di per sé una risorsa preziosa per la lotta di massa contro il capitalismo neoliberista e contro la guerra. L’aggressione anglo-americana all’Iraq ha indotto decine di milioni di donne e di uomini a scendere in strada in diversi Paesi per manifestare la propria volontà di pace. Benché non sia di per sé riuscita a impedire la guerra, la massiccia mobilitazione del popolo della pace (che in Italia ha tratto vigore anche dal ritorno della conflittualità operaia di cui a sua volta ha favorito la crescita) ha contribuito in modo determinante alla crescente delegittimazione, etica ancor prima che politica, dell’azione militare. Il movimento mondiale contro il neoliberismo e la guerra non è l’unico elemento positivo sul quale investire contro la politica bellicista di Bush. In Iraq la superpotenza americana è messa in difficoltà da un’imprevista ed efficace azione di Resistenza. Senza la Resistenza degli iracheni (che dopo trent’anni dalla fine della guerra in Vietnam conferma come la superiorità tecnologica statunitense non sia sufficiente per piegare un popolo) oggi assisteremmo a nuove guerre e ancor maggiori sarebbero le difficoltà per quanti si oppongono all’aggressività dell’imperialismo anglo-americano. Tutto ciò significa anche che è sbagliato rinchiudere queste vicende nella formula della “spirale guerra-terrorismo”. Non è in questione il fatto che il fenomeno terroristico (nei cui confronti i comunisti hanno sempre espresso una condanna chiara e senza appello) possa avere un suo autonomo progetto politico. A parte il fatto che alcuni episodi (a cominciare dall’11 settembre) restano per molti versi oscuri, altri sono i punti in questione e da ribadire con forza. Va detto che la responsabilità più grave della violenza nel Medio Oriente incombe oggi sul terrorismo bellico di Bush e Sharon. E va sottolineato con la massima chiarezza che la resistenza armata contro l’invasore non è terrorismo. Ciò è valso ieri per i popoli che hanno dovuto impugnare le armi contro il colonialismo, il fascismo, il nazismo e le aggressioni imperialistiche di ogni tipo, ed è vero oggi per i resistenti iracheni, per l’Intifada palestinese, per la guerriglia colombiana e per ogni altra lotta di popolo e antimperialista. Chi riduce queste realtà entro l’uniforme contesto del terrore di fatto nega la legittimità di qualunque forma di resistenza armata all’oppressione violenta di popoli e classi. Al contrario, è necessario esprimere piena solidarietà alla Resistenza dei popoli aggrediti, a cominciare, oggi, dal popolo iracheno. TESI 4 AL FIANCO DEI POPOLI CHE LOTTANO CONTRO L’IMPERIALISMO Accanto al sostegno alla Resistenza irachena, l’agenda dell’iniziativa internazionalista ci consegna altri impegni prioritari. Va intensificato l’appoggio alla Resistenza del popolo palestinese contro il terrorismo di Stato di Sharon e i progetti neocoloniali di matrice sionista. Occorre incalzare la comunità internazionale (in particolare l’Europa) perché si impegni per la restituzione ai palestinesi dei loro territori occupati da Israele nel 1967 (inclusa Gerusalemme est), per la creazione di un loro Stato sovrano e indipendente, e per la scarcerazione di tutti i prigionieri politici detenuti nelle carceri israeliane. Va richiesto l’immediato l’abbattimento del “muro della vergogna” voluto dal governo di Israele. È indispensabile sostenere Cuba che, insieme alla propria sovranità, difende – tra mille difficoltà e nonostante i rigori imposti da un infame embargo – le conquiste della propria rivoluzione. Sostenere la rivoluzione cubana significa anche valorizzare, rispetto al contesto dato, un modello sociale e politico in grado di rappresentare per molti Paesi un’alternativa alle devastazioni del capitalismo. Il livello raggiunto da Cuba in materia di sanità, istruzione, aspettativa di vita, tutela dei bambini non ha confronti in tutta l’America Latina e Centrale. A ciò si aggiunga (senza per questo negare le difficoltà) che Cuba potrebbe ulteriormente migliorare il livello di vita del proprio popolo e investire di più nella solidarietà internazionalista, se non dovesse difendersi dalla continua aggressione militare, terroristica ed economica degli Stati Uniti. Altrettanto importanti, per un’America Latina autonoma dagli Usa, sono l’esperienza avviata dal governo venezuelano e la vittoria del Frente Amplio in Uruguay. Lo stesso governo Lula – nonostante talune criticabili scelte di politica economica – conferma il risveglio del continente latinoamericano nel suo complesso. Si inscrivono in questo quadro le iniziative per l’estensione del patto di cooperazione e integrazione economica tra i Paesi dell’America Latina (il Mercosur), che cercano di percorrere strade diverse da quella dell’Alca, il patto di libero scambio fortemente perseguito dagli Usa. Siamo parimenti solidali con le lotte dei popoli e dei Paesi progressisti afroasiatici, a partire da quelle emblematiche dei lavoratori e dei popoli del Sudafrica, della Nigeria, dell’India non allineata, del Vietnam socialista. TESI 5 CONTRO LA GUERRA, FUORI DALLA NATO Occorre sviluppare una intransigente iniziativa volta a impedire ulteriori violazioni dell’articolo 11 della Costituzione. L’Italia non dovrà mai più partecipare ad interventi militari (nemmeno sotto copertura Onu, né indirettamente tramite la concessione di basi militari, spazi aerei, strutture logistiche) se non in difesa del proprio territorio da una invasione straniera. Tale iniziativa (resa ancor più urgente dalla rielezione di Bush) deve interagire con tutte le forze che si oppongono ai progetti di riarmo connessi al progetto di esercito europeo, sostenuto da alcuni Paesi dell’Unione. Inoltre occorre ribadire la necessità di giungere allo smantellamento di tutte le basi militari Nato e Usa presenti in Italia. Tale obiettivo – posto all’ordine del giorno dalla dissoluzione del Patto di Varsavia – è divenuto inderogabile in seguito alla trasformazione del Patto atlantico in una alleanza con scopi ancor più dichiaratamente offensivi. Infatti (come si è già verificato anche in Italia, in occasione della guerra contro la Jugoslavia) la nuova Nato può oggi intervenire in ogni parte del mondo, senza neppure una decisione formale dei parlamenti dei Paesi coinvolti. La battaglia pacifista richiede che i comunisti siano attivamente presenti nel movimento mondiale per la pace. Occorre essere consapevoli che dalla vitalità di questo movimento dipendono in larga misura i risultati dell’impegno profuso in ogni continente dai governi, dai popoli, dalle forze politiche e sociali, sindacali e religiose che si battono contro la guerra. È essenziale che questo movimento rafforzi i propri legami con le organizzazioni del movimento operaio. Nulla è più urgente oggi della ricomposizione dei diversi settori di movimento e della costruzione di piattaforme unitarie di lotta contro la guerra e contro il neoliberismo, a partire dalla lotta per il disarmo, per lo smantellamento di tutte le basi militari straniere e per un Trattato internazionale di non proliferazione che metta al bando e distrugga tutte le armi di sterminio, cominciando dagli arsenali dei Paesi che ne possiedono di più. TESI 6 PER UN’ALTRA EUROPA Negli ultimi tre decenni i Paesi dell’Unione europea hanno dovuto far fronte alla generale crisi del processo di accumulazione. La “cura” prescritta dalle autorità economiche dell’Unione si è rivelata peggiore del male. Il “Patto di stabilità e di crescita” ha imposto il dogma dell’equilibrio di bilancio, impedendo politiche espansive e rendendo inevitabili drastici tagli alla spesa pubblica. In un quadro che non mette in discussione la continua crescita dei profitti e degli alti redditi (e impedisce quindi un uso redistributivo della leva fiscale), le uniche leve compatibili con tale impostazione risultano essere la privatizzazione dei servizi e delle grandi imprese pubbliche, e la riduzione delle tasse (a beneficio dei ricchi). Gli effetti di queste scelte sono sotto gli occhi di tutti: drastico ridimensionamento dello Stato sociale, privatizzazione di settori di pubblico interesse, stagnazione e distruzione di sempre più vasti segmenti di attività produttiva, crescita della disoccupazione e aumento delle disuguaglianze. Dilagano la liberalizzazione del mercato del lavoro e con essa la precarietà. I contratti nazionali e tutte le conquiste operaie (a cominciare dall’orario di lavoro) sono sotto attacco. Ove ciò non bastasse, la recente decisione di allargare l’Unione a dieci Paesi ex-socialisti ha ulteriormente acuito le dinamiche di concorrenza interna alle classi lavoratrici europee. Contro questo stato di cose è necessaria un’azione congiunta di tutte le forze sociali e politiche democratiche e di sinistra volta ad affermare una politica economica opposta a quella sin qui praticata in sede comunitaria. È giunto il momento di attuare scelte economiche con finalità di ordine sociale quali la piena occupazione, l’effettiva eliminazione delle aree di povertà, la ricostruzione di efficienti sistemi pubblici di welfare, la garanzia della casa per tutti, una politica pubblica di rilancio delle aree depresse e un concreto impegno nella lotta contro l’analfabetismo e per l’innalzamento generalizzato dell’obbligo scolastico. A questa Europa di pace e di giustizia sociale servirebbe un’autentica Costituzione, completamente diversa dal Trattato costituzionale recentemente approvato. Le ragioni per le quali quest’ultimo va respinto sono molte e gravi: l’assenza di un percorso democratico alla base della sua elaborazione, il rifiuto di qualsiasi politica di regolazione del mercato, l’attribuzione di funzioni meramente residuali all’intervento pubblico, l’incoraggiamento di meccanismi di concorrenza interna sul costo del lavoro e la mancanza di una parola chiara contro la guerra. La battaglia per un’Europa politica unita e autonoma, democratica e pacifica dovrà necessariamente passare per una Costituzione nettamente contraria alla guerra, che ruoti intorno alla difesa dei diritti del lavoro e promuova politiche economiche espansive. Chi vuole un’Europa davvero autonoma dagli Usa e dal loro modello di società deve avere un progetto alternativo, che comprenda tutti i Paesi del continente andando oltre l’attuale Unione europea e le basi neoliberiste, transatlantiche e neo-imperialiste su cui essa è venuta formandosi. È vero che oggi l’imperialismo franco-tedesco è meno pericoloso per la pace mondiale di quello Usa e può fungere, a volte, da ostacolo per le spinte più aggressive. Ma sarebbe sbagliato trarne una linea di incoraggiamento al riarmo dell’Unione europea: i movimenti operai e i popoli europei, e ogni progetto di Europa sociale e democratica, verrebbero colpiti al cuore da una politica di militarizzazione del continente su basi neo-imperialistiche. Essa stimolerebbe la corsa al riarmo a livello internazionale e il costo di una crescita esponenziale delle spese militari, in un’Europa neo-liberale dove già oggi vengono colpite le condizioni di vita e di lavoro dei ceti popolari, distruggerebbe quel poco che rimane dello Stato sociale europeo. Più in generale va contrastata l’illusione che una Unione europea sotto l’egemonia del grande capitale possa rappresentare una alternativa di progresso all’imperialismo Usa. E che i processi di integrazione in atto in Europa, nei loro assi portanti, siano una sorta di contenitore neutrale che possa essere, a seconda dei casi, riempito di contenuti di destra o di sinistra, e non invece – come in realtà sono – un progetto strategico coerente di integrazione capitalistica e neo-imperialistica. TESI 7 COMUNISTI IN EUROPA E NEL MONDO Siamo per sostenere tutte quelle iniziative che, su scala europea e mondiale, favoriscono – nel pieno rispetto dell’autonomia di ogni partito – una incisiva e strutturata unità d’azione delle forze comuniste e di sinistra anticapitalistica e antimperialista. La convergenza sempre più forte di tutti coloro i quali oggi lottano contro la guerra e l’imperialismo rappresenta un obiettivo in vista del quale debbono impegnarsi le forze comuniste e rivoluzionarie. Da questo punto di vista i Forum sociali mondiali e continentali sono luoghi importanti che possono favorire questo processo. La consapevolezza che il terreno nazionale resta importante per dare basi di massa ad ogni iniziativa, non ci induce a rinunciare a lavorare sul piano internazionale. Anzi. Le nostre critiche a come si è operato per dar vita al Partito della Sinistra europea sono indirizzate alla proposta politica e organizzativa che esso configura e non sono certamente ispirate ad un progetto di chiusura autarchica. La piattaforma su cui si è costituito il Partito della Sinistra europea manca di una connotazione di classe e anticapitalista; essa propone un profilo identitario e progettuale genericamente di sinistra. Le nostre riserve erano e sono dettate dalla preoccupazione per la insufficiente capacità aggregativa del nuovo soggetto, al quale infatti non hanno aderito numerosi Partiti comunisti e di sinistra anticapitalistica. Resta l’esigenza di superare questi limiti che hanno contraddistinto la costruzione del Partito della Sinistra europea. Proprio la consapevolezza dell’importanza del terreno europeo e la necessità di coinvolgere tutte le forze che si collocano a sinistra della socialdemocrazia, ci inducono a ribadire la necessità di costruire un Forum o un Coordinamento permanente e strutturato (sul tipo di quello realizzato a San Paolo del Brasile), in grado di comprendere l’intera sinistra comunista, anticapitalista e antimperialista dell’Europa, dall’Atlantico agli Urali. TESI 8 IL NOSTRO IMPEGNO UNITARIO PER BATTERE LE DESTRE E BERLUSCONI Benché indebolito dai disastrosi effetti della sua politica economica e duramente provato dai recenti risultati elettorali, il governo Berlusconi continua la sua politica antipopolare, grazie anche alle debolezze dell’opposizione. Un sostegno al governo in carica proviene anche dal quadro internazionale, al quale la rielezione del presidente Bush imprime una marcata tendenza conservatrice. Il Paese continua a subire le pesanti conseguenze di quella miscela di populismo, autoritarismo e affarismo che costituisce l’essenza del berlusconismo. Sia sul terreno delle politiche sociali ed economiche (legge 30, riforma delle pensioni, Bossi-Fini, privatizzazioni) che su quello delle politiche istituzionali (devolution, presidenzialismo, leggi Moratti) la destra ha sistematicamente sfruttato i gravi errori compiuti dai governi di centrosinistra negli anni Novanta, radicalizzandone il segno antipopolare. Oggi, mentre la scelta di allineare l’Italia alla politica estera Usa e di coinvolgerla nella guerra in Iraq non viene rimessa in discussione, sul fronte interno vanno avanti l’offensiva contro i diritti del lavoro e l’attacco contro la Costituzione, lo Stato di diritto e l’unità del Paese. Vengono promulgate riforme costituzionali di chiara marca piduista tese a concentrare tutto il potere decisionale nelle mani del “capo del governo”. Vengono varate normative che colpiscono pesantemente libertà civili e diritti della persona (si pensi alla legge sulla fecondazione assistita). E mentre la morsa di Berlusconi sul sistema informativo non accenna ad allentarsi, si annunciano nuove misure volte a cancellare qualsiasi vincolo a garanzia del pluralismo in campagna elettorale (par condicio). La battaglia per cacciare le destre dalla guida del Paese non è ancora vinta. È e resta l’obiettivo prioritario, da realizzare unitariamente. Sarebbe pertanto un grave errore ragionare come se si trattasse di un dato acquisito. Ci sono segnali positivi: l’unità di tutte le opposizioni, la persistenza dei movimenti e l’affermazione anche elettorale della sinistra di alternativa. Ma ciò non basta a rovesciare la situazione e a modificare complessivamente i rapporti di forza sociali e politici, come dimostrano – tra l’altro – il mancato avvio del confronto programmatico e una inadeguata mobilitazione contro le iniziative reazionarie del governo. TESI 9 IL DISSESTO ECONOMICO E SOCIALE DEL PAESE Dall’inizio del 2001 l’economia italiana è bloccata. Dagli anni Ottanta è in atto un progressivo ridimensionamento della grande industria. Gli imprenditori preferiscono scegliere la strada della flessibilità o della delocalizzazione. In una parola, si è imboccata con decisione la “via bassa” dello sviluppo, basata sul contenimento dei costi: bassi salari e flessibilità. Per questo corriamo verso il baratro: non si dà fiato ai settori industriali strategici e non si dà risposta né ai bisogni né ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. I riflessi sociali di queste scelte sono gravi, in particolare nel Mezzogiorno. Il potere d’acquisto di salari e pensioni si riduce (-2,6% nel triennio 2000-02, a fronte di un aumento del 4,5% del potere d’acquisto dei redditi di imprenditori e professionisti); la povertà cresce espandendosi dentro il mondo del lavoro; la questione abitativa – tra caro-affitti e sfratti – diviene sempre più grave per effetto del fallimento dei “patti in deroga”. L’occupazione perde in qualità: il lavoro (soprattutto quello delle donne, su cui si scaricano i più pesanti contraccolpi del declino produttivo del Paese e dello smantellamento del welfare) è precarizzato, dequalificato e sottopagato. Al servizio pubblico in via di smantellamento si sostituiscono, nella erogazione di servizi essenziali, cooperative sociali che, smentendo la retorica del cosiddetto “privato sociale”, operano costringendo i propri addetti a condizioni di supersfruttamento e di azzeramento di diritti e tutele. Per contro crescono le grandi ricchezze. In tale contesto, l’aumento reale di salari, stipendi e pensioni sarà il tema su cui dovrà concentrarsi il massimo di attenzione delle forze politiche e sociali che sostituiranno la destra alla guida del Paese. I giovani sono i più colpiti, privi di tutele e diritti sul lavoro ed espropriati di un’istruzione pubblica e di massa che diventa, al contrario, merce al servizio delle imprese. Più in generale, la condizione dei soggetti più deboli non costituisce un’eccezione, ma la spia della tendenza regressiva in atto. I cittadini stranieri di recente immigrazione nel nostro Paese – che sono ormai una componente importante del mondo del lavoro – sono oggetto di sistematiche e incostituzionali discriminazioni, esposti all’arbitrio delle autorità di polizia, privati del diritto di asilo, segregati in campi di reclusione la cui istituzione figura tra le più gravi responsabilità degli ultimi governi di centrosinistra. La popolazione detenuta nelle carceri italiane (costituita in gran parte da migranti e tossicodipendenti, molti dei quali affetti da Aids) soffre i mali cronici di un sistema penitenziario sovraffollato, ospitato in edifici spesso fatiscenti, privo dei servizi essenziali, tale da rendere improponibile qualsiasi riferimento al fine rieducativo della pena. Occorre intervenire per offrire una prospettiva di svolta al Paese: per consentirgli di imboccare la “via alta” dello sviluppo, fondata sulla qualità (sociale e ambientale) e sull’innovazione (di processi produttivi e di prodotti), sul lavoro non precario e sulla qualificazione professionale e salariale, sull’equità redistributiva (si inserisce qui anche l’inderogabile necessità di ripristinare il regime dell’“equo canone”), sull’investimento in ricerca e sulla programmazione pubblica. Un ruolo chiave nel rilancio del sistema produttivo del Paese dev’essere affidato all’intervento pubblico, al quale vanno riservate funzioni non solo di programmazione, ma anche di iniziativa in settori strategici (infrastrutture, trasporti, energia, manutenzione del territorio, ecc.) e nella diretta gestione di grandi imprese (a cominciare dalla Fiat) vitali per l’intera economia del Paese. Per quanto riguarda in particolare i diritti del lavoro, occorre avviare iniziative che affrontino i temi della programmazione economica democratica e della democrazia aziendale, per giungere al riconoscimento del diritto dei lavoratori a contrattare tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, ad essere consultati tramite le loro organizzazioni circa la modifica degli indirizzi produttivi, l’adozione di nuove tecniche produttive e di nuovi assetti dell’organizzazione del lavoro. In vista di questi obiettivi le opposizioni hanno il dovere di sviluppare una forte iniziativa unitaria, capace di ostacolare i piani della destra attraverso la mobilitazione nel Paese e nelle istituzioni. TESI 10 GIOVANI, SCUOLA E LAVORO In questo quadro di regressione economica e sociale, la questione giovanile non è una semplice questione generazionale. Essere giovani oggi in Italia significa trovarsi in una condizione di particolare esposizione all’attacco delle politiche neoliberiste, che producono incertezza, precarietà, mercificazione di tutti gli aspetti della vita dei giovani. Per questo, all’interno dei movimenti, i giovani, esprimendo il totale rifiuto dei guasti prodotti dal neoliberismo, sono portatori di una critica radicale nei confronti di un modello di società oggettivamente intollerabile. È il caso degli studenti (che subiscono i contraccolpi della violenta offensiva scatenata dal governo contro la scuola pubblica e l’Università) e soprattutto dei lavoratori – in particolare, dei precari – la cui spinta rivendicativa ha già trovato importanti momenti di visibilità come in occasione degli scioperi degli autoferrotranvieri, del “May Day”, organizzato lo scorso primo maggio a Milano, e della manifestazione del 6 novembre scorso a Roma. Per questo occorre muoversi su due terreni, strettamente connessi tra loro. Da un lato è necessario restituire centralità ai conflitti del lavoro: l’obiettivo dev’essere quello di unire le vecchie e le nuove forme di sfruttamento in una battaglia contro la precarietà e il lavoro nero e per l’occupazione giovanile, stabile e qualificata, urgente soprattutto nel Mezzogiorno. Dall’altro lato, occorre suscitare una iniziativa di massa in difesa del diritto allo studio, impegnandosi per una riforma che restituisca la scuola alla sua autentica funzione sociale e battendosi contro la scuola della selezione di classe e contro la devastazione dell’Università pubblica. La mobilitazione per il diritto allo studio è, in sé, critica della precarietà e pone contemporaneamente le basi per un impegnativo intervento dei comunisti e della sinistra sul terreno della formazione e dei saperi. Abbiamo il compito di aprire con urgenza una nuova stagione di conflitto che metta al centro la lotta alla precarietà del lavoro e dell’istruzione. Ciò diviene possibile nella misura in cui il Partito, tramite le sue strutture di base e insieme ai Giovani comunisti, è in grado di rapportarsi al crescente disagio giovanile, materiale e morale, sviluppando, a partire da esso, una forte iniziativa politica contro il neoliberismo. TESI 11 IL QUADRO DELLE FORZE DI OPPOSIZIONE La necessaria iniziativa unitaria delle forze di opposizione incontra tuttavia un serio ostacolo nelle divergenze che permangono tra le due anime del centrosinistra: l’area moderata (maggioranza dei Ds, Margherita, Sdi e Udeur) e la componente di sinistra (sinistre Ds, Pdci, Verdi). Si danno letture diverse e spesso contrapposte del quadro delle forze di opposizione. Non riteniamo corretta, purtroppo, la valutazione secondo cui la componente maggioritaria del centrosinistra si sarebbe spostata a sinistra. Pur in presenza di ripensamenti critici su alcune scelte compiute nello scorso decennio, non è stata operata una cesura rispetto alle politiche messe in atto nella seconda metà degli anni Novanta. Ciò è vero in relazione a tutti i terreni qualificanti: le politiche economiche (privatizzazioni e “Patto di Stabilità”), le politiche sociali (pensioni) e del lavoro (flessibilità e precarizzazione), le questioni istituzionali (maggioritario e presidenzialismo), la politica estera (“guerre umanitarie”, atlantismo e fedeltà alla Nato), i cedimenti al revisionismo storico (foibe e “ragazzi di Salò”) e un sostanziale arretramento della cultura e del costume (familismo e restrizione dei diritti delle donne e delle libertà civili). Non è un caso che tale istanza moderata abbia trovato un suo momento di coagulo elettorale con la presentazione della lista “Uniti per l’Ulivo”, in vista di un più ambizioso e organico progetto di costituzione di un Partito riformista. Per contro, la componente più radicale del centrosinistra è venuta assumendo, nel corso degli ultimi anni, posizioni più avanzate. Si pensi alle ripetute convergenze nel voto parlamentare contro la guerra; alla partecipazione alle manifestazioni del movimento per la pace; al sostegno al referendum sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori; alle numerose iniziative sociali al fianco della Fiom, dei sindacati di base e della Cgil. I risultati positivi delle scorse elezioni europee hanno raccolto i primi frutti di questo lavoro e ci testimoniano dell’esistenza di una consistente area politica di sinistra di alternativa con una forte convergenza programmatica. TESI 12 LA “NUOVA FIOM” E LA RIPRESA DELLE LOTTE OPERAIE Un ruolo determinante in questo risveglio della soggettività antagonista e di classe lo ha svolto l’organizzazione sindacale dei meccanici. Gli scioperi nazionali proclamati dalla Fiom sin nella primavera del 2001 – quando ancora la Cgil esitava a prendere atto dei danni prodotti dalla concertazione – hanno impresso una scossa all’intero movimento dei lavoratori, dimostrando che le lotte erano possibili, che si poteva resistere all’arroganza padronale, esaltata dal ritorno delle destre al governo del Paese, e persino tornare a vincere (come è avvenuto a Melfi). Anche il sindacalismo extraconfederale – nonostante non sia riuscito a porsi come espressione generale del mondo del lavoro – ha offerto un significativo contributo all’organizzazione del conflitto, in particolare nei settori della scuola, dei servizi e del pubblico impiego. Queste lotte hanno contribuito a riaprire la questione operaia, oggi più urgente che mai. La crisi della capacità di rappresentanza e tutela da parte del sindacato ne è parte essenziale. Basti un dato: in Italia nel 1972 le quote di reddito da lavoro costituivano circa metà del Pil, mentre oggi si attestano intorno al 40%. Ciò significa che, in questi trent’anni, circa il 10% della ricchezza nazionale è stata trasferita da salari e pensioni a rendite e profitti. Alla base di questo processo è anche la subalternità del sindacato, sancita dall’accordo del ’93. Con la vertenza Fiat e gli accordi di Melfi e Fincantieri la Fiom ha interrotto questa tendenza all’arrendevolezza e ha riaperto la strada per restituire al sindacato il ruolo di soggetto autonomo della negoziazione. Il recupero di una pratica di lotta operaia è stato di per sé una vittoria, oltre che una prima, importante risposta al bisogno – diffuso ma da tempo ignorato – di protagonismo e di autonomia delle masse lavoratrici. Ne è seguito, in questi ultimi tre anni, un intenso lavoro di ricostruzione di esperienze di mobilitazione e di elaborazione di piattaforme rivendicative sempre più avanzate. Le battaglie dei meccanici sul salario e sull’orario, per la democrazia nei luoghi di lavoro e contro flessibilità, precarizzazione e licenziamenti hanno aperto la strada a un nuovo impegno di lotta anche da parte della Cgil, culminato nella grande mobilitazione in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Questi elementi di positiva evoluzione della Cgil, confermati dalla sua internità ai grandi movimenti di massa contro la guerra e contro il neoliberismo, convivono tuttavia contraddittoriamente con scelte discutibili, quali la firma di contratti caratterizzati da contenuti tutt’altro che avanzati, e con tentazioni concertative a tutt’oggi presenti. Affinché questa linea non riemerga (magari sollecitata dalla nuova presidenza della Confindustria, dalla sinistra moderata e da Cisl e Uil), è importante che la Fiom si mantenga sulla posizione attuale. Così come è importante che la sinistra sindacale della Cgil, in tutte le sue articolazioni, assuma questo obiettivo come prioritario. La politica della concertazione non solo ha dimostrato che non è in grado di difendere i lavoratori, ma presuppone un sindacato che è il contrario di quello per cui noi lavoriamo e cioè un sindacato che si basi sul conflitto, autonomo dai governi e che si legittimi esclusivamente attraverso il rapporto democratico con i lavoratori. La ripresa del conflitto di questi anni e l’attacco sistematico operato dai padroni e dal governo contro i diritti sindacali hanno riproposto (confutando la tesi della “fine del lavoro” largamente accolta anche dalla sinistra) la persistente centralità della contraddizione capitale-lavoro, dunque la funzione ancor oggi decisiva delle lotte operaie e dei lavoratori ai fini di un efficace movimento di trasformazione dell’ordine sociale esistente. Ne discende una sollecitazione anche per il nostro Partito, che per molteplici ragioni – da indagare con urgenza e rigore – ancora stenta a conquistare un’adeguata presenza nelle organizzazioni sindacali confederali e di base e in quel mondo del lavoro che, pure, dovrebbe costituire il suo insediamento fondamentale. TESI 13 LA COSTRUZIONE DELLA SINISTRA DI ALTERNATIVA Questo stato di cose rende urgente e al tempo stesso concreta la prospettiva di una unità d’azione politica e programmatica e di un coordinamento efficace della sinistra di alternativa, cioè dell’insieme delle forze politiche, sociali e sindacali che fondano la propria azione sulla opposizione alla guerra e al neoliberismo. In particolare la connessione tra i diversi movimenti che in questi anni hanno occupato la scena politica del Paese e favorito il rilancio del conflitto sociale è un obiettivo prioritario, per la tenuta e per la crescita culturale e politica di queste soggettività. Consideriamo l’autonomia del Partito un valore irrinunciabile. Per questo non proponiamo la costituzione di un nuovo Partito né di un assemblaggio di gruppi dirigenti politici e sindacali, che metterebbe a repentaglio l’autonomia dei soggetti coinvolti e determinerebbe l’esclusione di parti significative della sinistra di alternativa, a cominciare dalle sinistre Ds. Ciò che proponiamo di costituire, insieme a tutte le forze disponibili, è invece un luogo di confronto permanente, aperto e flessibile, e di azione unitaria nel quale tutti – partiti e gruppi politici, sindacati e correnti sindacali, movimenti, associazioni e giornali – possano contribuire a un movimento unitario della sinistra di alternativa: un movimento fondato sul fare, orientato alla costruzione di iniziativa e di conflitto, e impegnato nella elaborazione di una piattaforma programmatica comune a tutte queste forze, in grado non solo di controbilanciare gli orientamenti moderati della parte maggioritaria del centrosinistra e di contrastare la forza attrattiva che essa rischia di esercitare su componenti della stessa sinistra, ma anche di favorire la crescita di una cultura critica e di classe nel Paese. La costruzione di una sinistra di alternativa così concepita è l’unica con potenzialità di massa e tale, al tempo stesso, da non contraddire l’autonomia e il rafforzamento di un partito comunista autonomo con basi di massa, che dalla nascita di Rifondazione Comunista è – e resta – un nostro obiettivo strategico. TESI 14 LA QUESTIONE DELLE ALLEANZE E DEL GOVERNO L’esigenza di costruire in tempi brevi l’unità della sinistra di alternativa deriva dalla necessità di mettere le forze oggi all’opposizione non solo in condizione di battere il centro- destra alle prossime elezioni politiche, ma anche di incidere sul programma del nuovo governo senza che si ripropongano le politiche portate avanti dal centrosinistra negli anni Novanta. Se lo schieramento anti-Berlusconi vincerà le elezioni, il problema vero sarà cercare di porre rimedio ai guasti provocati da questo governo e da quelli che lo hanno preceduto. È necessario in particolare, evitare che i costi della crisi e del risanamento vengano scaricati ancora una volta sulle classi lavoratrici e sui ceti più deboli. Ci batteremo contro tale eventualità, anche perché siamo consapevoli che, qualora ciò accadesse con la corresponsabilità di Rifondazione Comunista, il nostro Partito rischierebbe di essere travolto dal risentimento e dalla delusione (come accaduto più volte alle esperienze di governo del Partito comunista francese). Non solo. Insieme al nostro Partito, rischierebbe di venire archiviata – per un ciclo storico di imprevedibile durata – la possibilità stessa di costruire in Italia un partito comunista con basi di massa. La questione oggi in campo non riguarda dunque soltanto la composizione e l’agenda politica del futuro governo, ma la possibilità stessa di tenere aperta la questione comunista nel nostro Paese. Con la Bolognina prima e con l’introduzione del maggioritario poi, si è cercato di costruire un sistema bipolare basato sull’alternanza tra due schieramenti che, pur contrapponendosi, restassero nella cornice del sistema capitalistico. La presenza di una forza comunista autonoma come è stata Rifondazione ha impedito che questo disegno si realizzasse compiutamente; per tenere aperta questa prospettiva dobbiamo evitare che la necessaria politica unitaria si trasformi in perdita di autonomia. Da ciò consegue l’esigenza di qualificare in termini socialmente e politicamente avanzati l’impianto programmatico generale del futuro governo di centrosinistra, coinvolgendo nella elaborazione del programma tutte le istanze sociali – movimenti, sindacati, associazioni – disponibili a una pratica di partecipazione. Tra le questioni che sarà necessario affrontare rivestono particolare importanza la difesa dei diritti del lavoro e il rilancio dell’apparato produttivo del Paese e della sua economia. Si impongono, in primo luogo, la centralità della questione salariale, la difesa del contratto collettivo nazionale e delle garanzie del posto di lavoro a tempo indeterminato e una profonda revisione del “Patto di stabilità”. Sul terreno istituzionale occorrerà introdurre misure efficaci al fine di garantire il massimo di rappresentatività del sistema politico e di preservare il Paese dal rischio (tutt’altro che scongiurato) di una regressione autoritaria. Pensiamo in particolare all’introduzione di una legge elettorale proporzionale, allo smantellamento della controriforma istituzionale (devolution, presidenzialismo e nuovo ordinamento giudiziario) e alla difesa della Costituzione. Sul piano internazionale la priorità è il ritiro immediato di tutti i militari italiani impegnati all’estero, a cominciare da quelli in Iraq. Come abbiamo detto in precedenza, siamo contro la Nato. Rientra quindi tra gli obiettivi di Rifondazione Comunista anche una politica che (seguendo l’esempio della Francia, che non ha truppe e basi straniere sul suo territorio, o della Danimarca, che non accetta di ospitare armi nucleari e di sterminio) punti all’allontanamento dal territorio italiano di tutte le armi di sterminio (a partire da quelle nucleari) e allo smantellamento progressivo di tutte le basi Usa e Nato. Sappiamo, inoltre, che la maggioranza delle forze del centrosinistra sono subalterne al vincolo atlantico. Ma occorre che sulla scelta atlantica dell’Italia vi siano quanto meno alcune correzioni significative. Il primo compito è rendere noti a tutti i cittadini italiani gli accordi segreti siglati dai governi passati con gli Usa e con la Nato. In secondo luogo riteniamo che occorra sostenere a livello di governo nazionale le richieste avanzate dalla giunta regionale sarda e dal presidente della regione Toscana di riconvertire ad uso civile alcune basi militari presenti sul loro territorio, come Camp Darby e La Maddalena. Ciò diventa tanto più urgente poiché le ultime scelte della Nato coinvolgono maggiormente l’Italia. Sede del quartier generale della “Nato Responce Force”, il nostro Paese rischia di diventare il principale trampolino di lancio della proiezione offensiva statunitense verso Est (Eurasia e Cina) e verso Sud (Medio Oriente e Africa). Un governo nel quale fosse presente il nostro partito dovrebbe operare con determinazione per arrestare tale deriva, incompatibile con lo spirito pacifista della Costituzione e della larga maggioranza del nostro popolo. TESI 15 LE CONDIZIONI PROGRAMMATICHE PER LA PARTECIPAZIONE DEL PRC AL GOVERNO Riteniamo sia stato un errore aver dato per acquisita – attraverso numerose interviste – la partecipazione di Rifondazione Comunista al prossimo governo di centrosinistra ancor prima di aver iniziato il confronto programmatico. Così come riteniamo sia stato sbagliato dire che Rifondazione Comunista accetterebbe di sottostare ad un vincolo di maggioranza sulla guerra, qualora ciò fosse deciso da una consultazione popolare. Siamo contro le “primarie”, poiché si inseriscono in una tendenza perversa alla personalizzazione e spettacolarizzazione della politica, secondo il modello statunitense da cui sono tratte: una tendenza da noi sempre avversata perché incompatibile con una effettiva pratica della partecipazione democratica. Consideriamo infine un errore essere entrati nella “Grande alleanza democratica” senza discuterne nel Partito e prima ancora di avere definito e concordato un programma condiviso. Occorre urgentemente correggere questa situazione, esplicitando le condizioni politiche necessarie all’ingresso VI CONGRESSO NAZIONALE PRC 11 di Rifondazione Comunista in una coalizione di governo costituita dalle attuali forze di opposizione. Non individuare alcune discriminanti programmatiche, oltre le quali il necessario contributo unitario – senza riserve – alla sconfitta di Berlusconi non può automaticamente trasformarsi in un ingresso del Prc al governo equivarrebbe infatti a firmare una cambiale in bianco, tanto più pericolosa ove si considerino i pesanti problemi di ordine economico e politico ai quali dovrà far fronte l’esecutivo che succederà al governo Berlusconi nella guida del Paese. Per parte nostra, consideriamo essenziali alcune condizioni per una partecipazione del Prc al governo: – l’impegno formale al rifiuto della guerra (che non sia azione di difesa da un’invasione straniera), da chiunque promossa, Onu compresa; e il rifiuto, in caso di guerra, di fornire basi militari, spazi aerei, supporti logistici alle operazioni belliche; – l’abrogazione delle leggi più reazionarie varate dalla destra (legge 30; Bossi-Fini; riforma delle pensioni; leggi Moratti; leggi ad personam; legge sulla procreazione assistita); – l’ introduzione di un meccanismo automatico per legge di recupero di salari, stipendi e pensioni, e la lotta all’evasione fiscale (fissando obiettivi misurabili e progressivi di recupero del gettito evaso); – una legge sulla rappresentanza e la democrazia nei luoghi di lavoro, che restituisca ai lavoratori l’ultima parola nelle decisioni che li chiamano in causa; – l’istituzione di una “agenzia per il lavoro” che raccolga risorse in parte precedentemente destinate a obiettivi non sostenibili (quali, per esempio, il Ponte sullo Stretto), in parte reperite in sede europea, e le finalizzi a investimenti produttivi per innalzare il tasso di occupazione (lavoro stabile) e ridurre quello di disoccupazione, in particolare nel Mezzogiorno. Nel caso di un esito insoddisfacente del confronto, pensiamo non possano essere precluse a priori delle vie subordinate, le quali garantiscano comunque al “popolo della sinistra” il raggiungimento di un assetto elettorale che consenta di battere Berlusconi, pur in assenza di ministri comunisti nel futuro governo. Non è evidentemente questo l’auspicio. E tuttavia, stante l’estrema fluidità della situazione politica, non può essere adottata altra metodologia, posto che ancora valga il principio: prima i programmi, poi gli schieramenti. Questa linea, che è sempre stata quella del Partito, deve essere riconfermata. TESI 16 LA “QUESTIONE MERIDIONALE” OGGI E IL RILANCIO DEL MEZZOGIORNO Il tema del Mezzogiorno possiede un rilievo specifico nel quadro degli obiettivi qualificanti l’azione di un nuovo governo di centrosinistra. Qualunque confronto programmatico e culturale sul presente e sul futuro dell’Italia non può quindi che trovare uno dei suoi temi qualificanti nella questione meridionale, intesa come grande questione nazionale. La questione meridionale è stata derubricata negli ultimi anni dall’agenda della politica a causa dei cedimenti delle forze democratiche e dell’aggressività del blocco conservatore che, seppur differenziato al suo interno sul piano degli interessi sociali e territoriali, tende a ricompattarsi sotto la spinta antimeridionale della Lega. Tale rimozione coincide – paradossalmente – con il continuo inasprirsi (nel corso dell’ultimo decennio) di quel divario economico e sociale tra il nord e il sud del Paese che, se di per sé costituisce un carattere originario dello sviluppo capitalistico italiano, oggi si carica di connotati ancor più dirompenti. Da un lato, infatti, pur di raggiungere i loro obiettivi, le forze di governo si mostrano disponibili a percorrere persino la strada della divisione del Paese; dall’altro, avendo acriticamente sposato la tesi della presunta fine dello Stato nazionale, gran parte della sinistra sembra sottovalutare la gravità dei pericoli che ne discendono. La strategia di tali forze – espressione di un nuovo blocco di segno fortemente liberista e classista – affida al sud il ruolo di un’area di “modernità squilibrata”, di flessibilità, di precarietà, di alti tassi di disoccupazione e di illegalità diffusa. A riprova di ciò, l’attuale governo e le forze economiche dominanti pensano al sud come un territorio in cui applicare la politica speculativa delle grandi opere, di cui è esemplare testimonianza il faraonico progetto del ponte sullo Stretto. In questo modello di governo, un ruolo chiave – di controllo del territorio e di sostegno militare ai locali gruppi politici dominanti – è affidato alle mafie e alla criminalità organizzata. Contro di esse occorre sviluppare una battaglia che dev’essere assunta come questione nazionale, poiché nelle regioni meridionali la sconfitta della mafia siciliana, della camorra, della ‘ndrangheta e della sacra corona unita è essenziale per disarticolare il blocco di potere dominante e per affermare la democrazia e lo sviluppo. Sempre più decisivo diviene infine, in questo quadro, il ruolo dell’Europa che, con le sue politiche ispirate al “Patto di Stabilità”, penalizza le aree più deboli dell’intero continente (a cominciare dai lavoratori agricoli del nostro Mezzogiorno). Contro il blocco conservatore e le sue scelte, che rischiano di emarginare definitivamente le regioni meridionali dai processi di sviluppo del Paese, è compito dei comunisti oggi indagare le nuove specificità del Mezzogiorno: non solo rilevarne i ritardi e metterne in evidenza la nuova funzione di laboratorio di sperimentazione del più feroce neoliberismo, ma anche porne in risalto i bisogni e le potenzialità. Nell’ambito della questione meridionale occorre rilanciare la “questione sarda” attraverso il riconoscimento dell’identità di un popolo e delle sue istanze di autogoverno. Occorre valorizzare le risorse esistenti (il turismo, la cultura, l’ambiente), ma c’è soprattutto bisogno di massicci investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno, nella lotta contro la disoccupazione strutturale di massa e nei campi delle politiche industriali, dell’agricoltura (potenziando le colture biologiche), delle infrastrutture, della ricerca e dell’innovazione tecnologica, del credito, dell’istruzione e della formazione culturale. L’intervento dello Stato – che deve tornare ad essere centrale senza però ripetere le storture della Cassa per il Mezzogiorno – va indirizzato verso il superamento di arretratezze e ritardi che rischiano di divenire ancor più drammatici tra qualche anno, quando il Mediterraneo diventerà un’area di libero scambio. Il Sud ha bisogno di opere pubbliche capaci di disancorarlo dalla sua dipendenza; basti pensare allo stato arretrato delle autostrade, alle condizioni infelici delle linee ferroviarie, alle carenze di approvvigionamento idrico delle grandi città, alle quali non sono estranei precisi interessi politico-mafiosi. Per la rinascita del Mezzogiorno è necessario creare un vasto schieramento di forze politiche e sociali e di movimenti che, a partire dalle mobilitazioni operaie e popolari di Termini Imerese, Melfi, Scanzano, Rapolla e Acerra (espressioni tra loro molto diverse, ma segni, tutte, di una nuova consapevolezza degli interessi e dei diritti del Mezzogiorno), si ponga l’obiettivo di una profonda trasformazione della società meridionale. TESI 17 PER UN PARTITO COMUNISTA CON BASI DI MASSA La portata dei compiti che attendono Rifondazione Comunista in questa delicata fase politica pone in primo piano l’esigenza di rafforzare il Partito nelle sue strutture e nel suo radicamento sociale e territoriale. Di tale rafforzamento è fondamentale premessa il mantenimento dei suoi elementi distintivi e simbolici (a cominciare dal nome e dal simbolo con falce e martello), che costituiscono importanti riferimenti per l’intero corpo dei militanti e dell’elettorato. Nonostante in questi anni si siano sviluppati importanti movimenti e siano cresciuti i consensi elettorali, ciò non ha determinato una crescita e un rafforzamento del Partito. Da una parte aumentano i consensi d’opinione attorno al Partito della Rifondazione Comunista; dall’altra calano gli iscritti (decine di migliaia negli ultimi anni). La scarsa partecipazione alla manifestazione nazionale di fine settembre è un ulteriore segnale d’allarme. Il Partito rischia di divenire sempre più partito d’opinione e di immagine, macchina elettorale e propagandistica, e sempre meno partito di organizzazione e di lotta, radicato in modo militante sul territorio e nei luoghi del conflitto sociale. Le decisioni sono assunte sempre più in alto, in un ristretto vertice, mentre la linea viene spesso appresa attraverso dichiarazioni televisive e interviste alla stampa. Condizioni aggravate da inaccettabili forzature quali sono state, ad esempio, il commissariamento dell’intero Comitato regionale della Calabria o la mancanza di pluralismo nelle rappresentanze parlamentari nazionali ed europee, dove quasi metà delle culture politiche interne al Partito non sono rappresentate: una circostanza che non ha paragoni in nessun’altra forza politica e che non dovrà più ripetersi. Va dunque attuata una vera e propria rigenerazione democratica del Partito, che esalti il carattere collegiale e unitario della direzione politica. Unità, collegialità, democrazia, rispetto delle diversità e ricerca della sintesi sono valori da affermare sia nella cultura che nella pratica del Partito, e ciò presuppone una partecipazione effettiva del corpo attivo del partito all’elaborazione della sua linea (che è cosa assai diversa da una ratifica formale a posteriori). I circoli debbono ridiventare non solo i luoghi principali dell’iniziativa politica sul territorio, ma anche la sede dove si discutono le decisioni principali che il Partito assume. È giusto criticare le cristallizzazioni correntizie, ma occorre sapere che esse sono anche il prodotto del rifiuto pregiudiziale della sintesi unitaria: un rifiuto che, mentre esaspera la rissosità interna, provoca un grande spreco di esperienze e di capacità politiche. Vanno valorizzate e rilanciate le strutture di base (circoli e federazioni), motivandole e coinvolgendole maggiormente nella elaborazione delle decisioni politiche e conferendo loro le risorse necessarie. A questo proposito è emblematico il progressivo venir meno di sostegno organizzativo alle Federazioni estere del Partito, luoghi di partecipazione politico-culturale dei comunisti italiani all’estero. Se non si vuole che il necessario radicamento del Partito nei luoghi di lavoro e di studio resti uno slogan privo di riscontri, si richiede una massiccia concentrazione di sforzi e di risorse a tal fine. A ciò va finalizzato in buona parte anche il tesseramento, troppo spesso inteso come routine burocratica delegata a gruppi ristretti e non occasione preziosa di collegamento con la società e con le sue istanze più dinamiche e combattive che emergono dal conflitto sociale e di classe. Vanno riviste le scelte che nello scorso congresso, in nome di una “innovazione” che si è rivelata inconcludente, hanno portato ad un ridimensionamento di tutto ciò che aveva a che fare con l’organizzazione: a partire dalla soppressione emblematica dello stesso Dipartimento nazionale di organizzazione, che andava semmai potenziato e arricchito, o dalla scelta di togliere i tesorieri dalle segreterie, a tutti i livelli, con una svalorizzazione politica della funzione strategica dell’autofinanziamento. Il Partito dispone di risorse significative: mai, dal 1991, vi era stata una legge sul finanziamento pubblico “generosa” quanto l’attuale. Queste risorse debbono essere maggiormente decentrate, al fine di consentire a circoli e federazioni di rafforzare la costruzione del partito nella società, dove la gente in carne ed ossa vive e lavora. Un partito è tanto più democratico nella sua vita interna, quanto più forti e influenti sono le sue organizzazioni di base. Va definita una quota parte di finanziamento pubblico che, ogni anno, deve essere obbligatoriamente investita per il radicamento capillare del Partito e delle sue sedi. Rafforzando così, con l’organizzazione, anche la capacità di autofinanziamento, oggi ancora del tutto inadeguata. Autonomia finanziaria è condizione di autonomia strategica, ed essa verrebbe compromessa dall’eccessiva dipendenza da modalità di finanziamento pubblico derivanti da un quadro politico e istituzionale dominato dai partiti della borghesia. Occorre investire nel lavoro di formazione, senza di che ogni discorso sul rafforzamento del Partito è destinato a restare lettera morta. Non si dimentichi che una delle condizioni che hanno contribuito alla “mutazione genetica” del Pci, è stata l’affermazione nel partito e nei suoi organismi dirigenti di una egemonia delle classi medie e delle ideologie di cui erano portatrici e la progressiva emarginazione dei quadri comunisti e di classe più legati alla produzione. Il necessario sostegno a Liberazione sarà tanto maggiore quanto più ogni militante potrà percepirlo come strumento di informazione di tutto il Partito. Ciò suppone che anche nel giornale si affermi il principio di una direzione collegiale. Una maggiore informazione sul mondo del lavoro e sulle forze comuniste e rivoluzionarie nel mondo, oltre che essere formativa e sprovincializzante, contribuirebbe a colmare un deficit informativo che riguarda quasi tutta la stampa italiana e potrebbe suscitare interesse anche al di là dei confini di partito. TESI 18 IL NOSTRO RAPPORTO CON LA NOSTRA STORIA E LA BATTAGLIA CONTRO IL REVISIONISMO Il tempo è maturo anche per una rinnovata forma di relazione con la storia politica e culturale del movimento operaio e comunista. La molteplicità dei riferimenti culturali può divenire una ricchezza per il Partito. Ma perché questo avvenga, occorre evitare tanto difese acritiche, quanto atteggiamenti liquidatori. È necessario porre un argine al revisionismo storico, che da tempo ha conquistato posizioni anche a sinistra, cancella o riduce le colpe della borghesia e del capitalismo e criminalizza la storia del movimento operaio e comunista. Finché il revisionismo storico sarà egemone, il capitalismo riuscirà a nascondere le proprie responsabilità per la maggior parte delle pagine più oscure della storia moderna e contemporanea (la tratta degli schiavi, la miseria delle masse proletarizzate, i genocidi del colonialismo, le guerre mondiali, il nazifascismo e – oggi – la guerra preventiva e permanente). Ciò di cui abbiamo bisogno è un bilancio critico della storia del movimento operaio in 150 anni di lotta di classe. La critica netta degli errori e dei processi degenerativi che hanno macchiato alcuni momenti della storia del movimento comunista e del “socialismo reale” fa irreversibilmente parte del nostro patrimonio culturale, politico e morale. Siamo consapevoli della loro portata e delle gravi conseguenze che ne sono derivate anche per chi non ha disertato la lotta nel nome del comunismo. Avvertiamo ogni giorno l’esigenza di capire meglio ciò che è avvenuto, ciò che non ha funzionato, ciò che ha infine determinato la sconfitta di grandi esperienze storiche. Ma il necessario riconoscimento delle pagine buie della storia del movimento operaio e comunista non ci impedisce di comprendere che oggi il pericolo maggiore è di fuoriuscire da questa storia. A tale rischio rispondiamo rivendicando la storia del movimento operaio e comunista, riconoscendola come la nostra storia. Ricordarne i limiti non implica negarne i successi. L’Ottobre bolscevico e la costruzione dell’Urss, la rivoluzione cinese, quella vietnamita e quella cubana – per limitarci ad alcune tra le più importanti esperienze del movimento comunista – hanno consentito la liberazione di sterminate masse di donne e di uomini da condizioni di fame e di miseria e hanno rappresentato il tentativo di costruire società alternative al capitalismo e orientate verso il socialismo. L’importanza di queste esperienze non si è peraltro esaurita all’interno dei Paesi che furono teatro di processi rivoluzionari. Del resto, a chi nutrisse dubbi sull’aspetto prevalente dell’esperienza rivoluzionaria del movimento comunista dovrebbe bastare riflettere sulle conseguenze mondiali della scomparsa dell’Unione sovietica. Nei quindici anni che ci separano dalla caduta del Muro di Berlino il mondo ha conosciuto un continuo radicalizzarsi dei conflitti internazionali e inter-etnici, e ha assistito al ritorno della guerra nella cronaca quotidiana, alla ricolonizzazione di interi Paesi, al dilagare delle devastanti conseguenze sociali (povertà, schiavitù, lavoro minorile, precarietà, epidemie) di un capitalismo selvaggio e senza regole, al pesante arretramento del movimento operaio in tutto il mondo occidentale e al peggioramento della condizione di vita e di lavoro delle donne. La storia dell’umanità si troverebbe oggi a uno stadio ben più arretrato se le rivoluzioni socialiste del Novecento non avessero segnato vaste aree del mondo. TESI 19 LA RESISTENZA, IL MOVIMENTO OPERAIO ITALIANO E IL PCI Un importante capitolo della storia del movimento operaio e comunista è costituito dalla battaglia antifascista, condotta già, in clandestinità, durante gli anni della dittatura e culminata nella lotta partigiana di resistenza e nella Liberazione, di cui quest’anno ricorre il 60° anniversario. Da questa lotta di popolo, costata un elevatissimo prezzo di sofferenza e di sangue, hanno tratto linfa vitale le democrazie europee nate nel dopoguerra, in particolare nel nostro Paese, dove i costituenti comunisti e socialisti sono riusciti a introdurre nella Carta costituzionale della nascente Repubblica lo spirito della Resistenza e i valori di eguaglianza, giustizia sociale e libertà che l’avevano ispirata. Consideriamo infondata la critica di avere edulcorato (“angelizzato”) l’immagine della Resistenza. Il recente attacco all’Anpi da parte del governo Berlusconi dimostra come – sfruttando varchi aperti dalle propensioni revisionistiche della sinistra moderata – le destre non rinuncino ad attaccare la lotta partigiana che, al contrario, noi dobbiamo difendere e valorizzare. In Italia, sin dalla elaborazione della Costituzione repubblicana, le organizzazioni del movimento operaio – in particolare la Cgil e il Partito comunista italiano – hanno dato un contributo determinante affinché la giovane democrazia italiana assumesse connotati socialmente e politicamente avanzati. Dopo essere stato la colonna della liberazione del Paese dal fascismo e la fucina di una coscienza democratica di massa, il Pci ha saputo imporre la centralità dei diritti del lavoro e dei diritti sociali, impedendo che la rapida modernizzazione del Paese comportasse enormi costi sociali e integrando i più alti risultati della civiltà borghese (lo Stato di diritto, il riconoscimento delle libertà politiche e civili, la tutela delle garanzie giuridiche) con i valori dell’eguaglianza, della partecipazione e dell’autogoverno delle masse popolari. Il processo di graduale mutazione in senso socialdemocratico che ha segnato l’ultima fase della storia del Pci, non cancella i meriti storici complessivi dell’esperienza del comunismo italiano. Per questo appaiono gravissime le responsabilità dei gruppi dirigenti che hanno favorito lo scioglimento del Pci. Riconosciamo l’importanza dell’apporto fornito prima e dopo il ’68, dai sindacati di base e dalle culture critiche della sinistra anticapitalista e di classe. Le esperienze di lotta che hanno preparato e accompagnato le lotte studentesche e operaie degli ultimi anni Sessanta e degli anni Settanta hanno contribuito in misura rilevante alla crescita culturale del movimento operaio, promuovendo il riconoscimento di nuove istanze, l’incorporazione di nuove soggettività e l’apertura di nuovi orizzonti critici (il femminismo, l’ambientalismo, l’analisi del carattere di classe dello sviluppo scientifico e tecnologico) che hanno reso ancor più efficace la critica di classe dello sfruttamento capitalistico. TESI 20 I NOSTRI RIFERIMENTI CULTURALI È necessario valorizzare il grande patrimonio di idee, di intuizioni teoriche, di analisi scientifiche che nel corso degli ultimi centocinquant’anni hanno conferito rigore ed efficacia all’analisi di classe, alla critica del capitalismo e alla pratica rivoluzionaria del movimento operaio e comunista. Consideriamo fondamentale in questo senso l’analisi del modo di produzione capitalistico svolta da Marx ed Engels, che ha consentito di trasformare in una forza di mutamento politico il sentimento dell’ingiustizia sociale; il contributo teorico di Lenin, al quale dobbiamo, tra l’altro, l’allargamento della visuale critica all’intero pianeta e un’analisi del colonialismo e dell’imperialismo ancor oggi importante per decifrare i conflitti internazionali; la riflessione di Gramsci, che ci ha insegnato, da una parte, a misurarci con la complessità dei contesti sociali (e quindi con la peculiare articolazione della lotta rivoluzionaria in Occidente), dall’altra, a concepire il Partito comunista come una comunità dirigente e militante che vive di democrazia interna e di partecipazione. Ma se i riferimenti strategici non possono essere numerosi, innumerevoli sono invece gli apporti interni ed esterni alla storia del movimento operaio dai quali abbiamo tratto – e traiamo – suggerimenti, conoscenze e spunti di riflessione. Ci sforziamo di valorizzare al meglio, nella nostra concreta pratica politica, i contributi che ci provengono dalle culture e dalle esperienze critiche della sinistra – dal femminismo all’ecologismo, dal movimento contro la globalizzazione capitalistica e il neoliberismo al movimento per la pace – nei quali scorgiamo un contributo irrinunciabile alla critica del capitalismo. I più recenti contraccolpi dell’industrializzazione (e anche il gigantesco impatto ambientale prodotto dal massiccio impiego di armamenti sempre più sofisticati) impongono oggi l’adozione di criteri ancor più rigorosi. Non si tratta più di attestarsi sul limite della “sostenibilità” ambientale della crescita, ma di ripensare radicalmente il modello di sviluppo – ridiscutendone finalità e obiettivi – secondo standard ecologici: cioè riconoscendo nell’ecosistema naturale non tanto un vincolo, quanto un modello funzionale dal quale trarre elementi utili anche ai fini della configurazione dei sistemi economico-sociali. Quanto al pensiero e alla pratica politica delle donne, i contributi che da essi provengono al movimento di classe non si limitano al terreno dei conflitti di lavoro, che vedono le donne portatrici di una lunga esperienza relativa alle più attuali forme dello sfruttamento capitalistico (precarizzazione, dequalificazione professionale, lavoro irregolare e sommerso, indistinzione tra tempi di lavoro e tempi di vita). Di straordinaria rilevanza sono anche gli apporti della elaborazione femminile alle lotte per la pace, la libertà e la giustizia sociale, tematiche in merito alle quali le donne e i movimenti femministi hanno prodotto irreversibili innovazioni culturali: dal riconoscimento della imprescindibilità di una riflessione sulla differenza di genere, alla consapevolezza delle connessioni tra diritti sociali e libertà civili; dalla critica dei gravi effetti regressivi della rappresentanza politica monosessuata, alla comprensione dei meccanismi strutturali che presiedono alla subordinazione sessista e delle analogie che la assimilano alla discriminazione razzista. Di tutti questi contributi ci sforziamo di avvalerci in vista di quello che resta l’obiettivo fondamentale della nostra ricerca: l’attualizzazione e il continuo sviluppo dialettico di una teoria e di una pratica comunista all’altezza dei tempi, capace di orientare l’analisi di fase sul piano mondiale e nazionale, e di individuare gli strumenti più efficaci nella lotta per il superamento del capitalismo e per la costruzione del socialismo. TESI 21 IL NOSTRO IMPEGNO PER L’INNOVAZIONE Siamo consapevoli della necessità di aggiornare continuamente il nostro bagaglio culturale e la nostra strumentazione teorica. Non per questo condividiamo l’ansia di proclamare ad ogni piè sospinto presunte discontinuità e rotture, tanto più se consideriamo i ripetuti tentativi di “innovazione” susseguitisi in questi anni e risoltisi nella riesumazione delle più vecchie e consunte ideologie del movimento operaio. Abbiamo assistito al recupero delle approssimazioni proudhoniane, delle ingenuità dei socialisti utopisti, dell’avventurismo anarco-sindacalista. Abbiamo ascoltato prediche sulla malvagità del mondo moderno alle quali ben si attaglierebbe la critica rivolta da Gramsci a quel cattolicesimo reazionario che quanto più retrocede nella storia, tanto più si imbatte in uomini perfetti. Da ultimo – quasi che il tema all’ordine del giorno sia l’autocritica del movimento operaio e non la critica del capitalismo e delle nuove forme di sfruttamento e di dominio – siamo stati raggiunti da appelli moralistici alla nonviolenza nei quali si disperde la memoria storica (si dimentica che i comunisti nascono votando contro i crediti di guerra e vivono lottando contro la violenza sistematica del capitalismo) e si confondono aggressione, resistenza e difesa in un tutto indistinto. Infine abbiamo registrato il rifiorire di una improbabile critica del potere che scorge oppressione ovunque ed esorcizza il non eludibile problema della natura di classe del potere politico, del governo dei processi di trasformazione e della difesa dei loro risultati. Non ci sembra che “innovazioni” di questo genere aiutino la nostra lotta. Abbiamo e proponiamo una concezione diversa dell’innovazione. Che non prescrive soluzioni calandole dall’alto, ma vive di uno stile di lavoro partecipato e collettivo. E che non comporta il rigetto dell’esperienza storica del movimento comunista, ma quel continuo rinnovamento che ha consentito ai comunisti di fornire un contributo decisivo alle lotte del proletariato in tutto il mondo. La vera innovazione consiste nella difficile impresa di confrontarsi con i nuovi orientamenti teorici e culturali senza smarrire il filo della lotta di classe contro il capitalismo e della solidarietà con le lotte di resistenza e di liberazione dei popoli; nel vivere col massimo impegno le esperienze di movimento perseguendo al tempo stesso l’obiettivo della ricomposizione di classe; nel saper valorizzare, senza settarismi, ogni contributo di idee e di esperienza che possa aiutare la costruzione di un “nuovo mondo possibile”. TESI 22 LA NOSTRA BATTAGLIA PER IL SOCIALISMO, “NUOVO MONDO POSSIBILE” Oggi la parola “comunismo” evoca più un tema di ricerca che una soluzione. Né basta affermare che “un altro mondo è possibile”: bisogna sforzarsi di dire come vogliamo che questo nuovo mondo sia fatto. Ciò non con la pretesa di pregiudicare il futuro, ma con la consapevolezza che l’immagine degli obiettivi interviene concretamente qui e ora nella costruzione della pratica politica. Motivando le azioni, mobilitando le coscienze, ricaricando le speranze. Qualunque riflessione sulla prospettiva non può non partire dalla presa d’atto della inedita contraddizione che connota il tempo presente. Per la prima volta nella storia, l’umanità dispone oggi delle conoscenze scientifiche e dei mezzi tecnici sufficienti a garantire una vita degna a tutti gli esseri umani. Ma – non certo per caso – questa è anche l’epoca delle più sconvolgenti disuguaglianze nelle quali si riflettono l’essenza più propria del capitalismo e – al tempo stesso – il suo fallimento epocale. Non si tratta di un caso. Già il giovane Marx osservava che, raggiunto il limite delle proprie capacità espansive, la borghesia capitalistica non esita a distruggere le forze produttive pur di conservare il dominio sulla società. A questa intuizione Lenin e Gramsci avrebbero aggiunto il portato della propria esperienza: la consapevolezza che, pur di conservare uno stato di cose storicamente superato, il capitalismo non arretra dinanzi a nulla, nemmeno al ricorso alla violenza militare nelle relazioni internazionali (l’imperialismo, il colonialismo, la guerra totale) e ai fini dello stesso governo politico delle società (il fascismo). E tuttavia la violenza non basta a governare; di per sé, il dominio non genera consenso. Pur lontano dall’essere in rotta, oggi il capitalismo appare in seria difficoltà ad estendere su scala mondiale e con mezzi pacifici, la propria egemonia. In tutto il pianeta si diffonde la coscienza dei danni irreparabili che esso produce nelle relazioni sociali, nella vita quotidiana di persone e popoli, nello stesso ambiente naturale. Qui si aprono ampi varchi per la nostra battaglia politica e culturale. Si tratta di sapere capire i bisogni di massa e poi di immaginare risposte pertinenti. È un compito arduo, ma – lo si è detto – non partiamo da zero. Conosciamo in primo luogo i valori ai quali rifarci: la pace; l’autonomia di ciascun popolo e l’internazionalismo; la libertà e la dignità di ogni persona; l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo; il rispetto del mondo vivente e della natura. Da qui derivano alcuni importanti obiettivi ai quali ispirare la nostra lotta contro lo sfruttamento capitalistico, il razzismo e l’ingiustizia sociale: la nostra lotta per la trasformazione in senso socialista della società, in vista della costruzione del comunismo. Occorre combattere senza tregua per il riconoscimento universalistico dei diritti sociali e civili. Non permetteremo che, pur di puntellare il proprio dominio, la borghesia distrugga le sue stesse conquiste: lo Stato costituzionale di diritto, le garanzie giuridiche, le libertà politiche dello Stato democratico. E non ci fermeremo fino a quando in Italia, in Europa, in tutto il mondo resterà anche un solo individuo al quale fosse ancora negato il diritto a un’infanzia serena, a un lavoro sicuro e dignitoso, alla casa, all’assistenza sanitaria, all’istruzione, a una informazione completa e obbiettiva, a una vecchiaia indipendente e protetta. E anche alla gioia che discende dal gioco, dalla cultura e dall’esperienza artistica. I progressi tecnologici rendono attuale l’obiettivo di una universale fruizione del patrimonio culturale e artistico dell’umanità: nella vita di ciascuno può esservi il tempo per leggere, osservare, ascoltare; e per imparare a comprendere il senso e la bellezza di ciò che in passato fu appannaggio esclusivo dei potenti e dei ricchi. Anche questo oggi è un diritto inalienabile di ciascuno. Ma siamo comunisti anche – soprattutto – perché l’esperienza ci conferma nel convincimento che non c’è possibile liberazione senza liberazione del lavoro e dal lavoro, e che non c’è possibile autonomia del lavoro finché i fondamentali mezzi di produzione (comprese le risorse naturali suscettibili di entrare nei processi produttivi) restano sotto controllo privato. La scoperta marxiana della radice strutturale del dominio capitalistico conserva tutta la propria verità. Non è un caso che sempre e ancor oggi le più affilate armi ideologiche dell’avversario siano rivolte proprio contro di essa e contro l’analisi di classe che in base ad essa il movimento operaio e comunista ha condotto sul piano teorico e pratico. Noi rimaniamo saldamente ancorati a questo principio e da questo principio traiamo un limpido indirizzo di marcia. Siamo consapevoli che è una battaglia dura e di lunga lena, e che non sempre ci è concesso di scegliere le armi e i modi con cui combatterla. Ma noi intendiamo perseguire questa prospettiva storica di liberazione dell’umanità che rappresenta il fondamento irrinunciabile del nostro essere comunisti. FIRMATARI Claudio Grassi (Segreteria nazionale), Giovanni Pesce (Cpn, Medaglia d’Oro alla Resistenza), Giuseppe Abbà (Segretario Federazione di Pavia), Marco Amagliani (Assessore Regione Marche), Romina Ambrogio (Cpn, Comitato politico federale di Torino), Antonio Assogna (Assessore Provincia di Teramo), Jone Bagnoli (Comitato politico federale di Milano), Mauro Belisario (Amministratore Delegato di Liberazione), Pino Bevilacqua (Segretario Federazione di Crotone), Fulvia Bilanceri (Cpn, Giovani Comunisti Livorno), Sergio Bovicelli (Assessore Provincia di Grosseto), Bianca Bracci Torsi (Direzione nazionale), Nori Brambilla Pesce (Presidente Associazione nazionale Deportati di Milano), Angelo Broccolo (Segretario Federazione di Cosenza), Pierfrancesco Bruno (Fiom Abruzzo), Tonino Bucci (Giornalista di Liberazione), Alberto Burgio (Cpn, Responsabile nazionale Giustizia e Legalità), Maria Rosa Calderoni (Giornalista di Liberazione), Emanuele Camacci (Segretario Federazione di Rieti), Maria Campese (Assessore Comune di Barletta), Igor Canciani (Capogruppo Regione Friuli Venezia Giulia), Mimmo Caporusso (Segreteria Federazione di Bari), Roberto Cappellini (Segretario Federazione di Pistoia), Guido Cappelloni (Direzione, Presidente Collegio Nazionale di Garanzia), Andrea Carrara (Segreteria Federazione Versilia-Viareggio), Giuseppe Carroccia (Segreteria regionale Lazio), Bruno Casati (Direzione nazionale, Assessore Provincia di Milano), Andrea Catone (Storico del movimento operaio, Cpf Federazione di Bari), Pino Ciano (Segreteria Federazione Reggio Calabria), Mauro Cimaschi (Cpf di Crema, Direttore Editoriale rivista l’ernesto), Francesco Cirigliano (Federazione di Potenza), Mario Contu (Consigliere Regione Piemonte), Antonio Costa (Collegio provinciale di Garanzia di Milano), Lucio Costa (Comitato politico Federazione Padova), Tina Costa (Partigiana, Cpf Federazione di Roma), Celeste Costantino (Cpn, Coordinatrice Giovani Comunisti Reggio Calabria), Stefania Crippa (Segreteria Federazione Brianza), Stefano Cristiano (Cpn, Assessore Comune di Pistoia), Pio De Angelis (Consigliere Regione Friuli Venezia Giulia, Segreteria regionale), Costantino De Capitani (Segretario Federazione di Lecco), Fulvio De Cesare (Comitato politico federale di Foggia), Salvatore Distefano (Comitato regionale Sicilia), Giuseppe Fadda (Consigliere regionale Sardegna), Ilich Farabegoli (Presidente Comitato politico federale di Ravenna), Gianni Favaro (Direzione nazionale, Responsabile nazionale Feste), Maurizio Federico (Federazione di Frosinone), Alessandro Fucito (Consigliere Comune di Napoli), Savio Galvani (Coordinatore nazionale sindacato ferrovieri Orsa), Pier Paolo Gambuti (Segretario Federazione di Rimini), Rita Ghiglione (Direzione nazionale, Fiom La Spezia), Agostino Gianelli (Consigliere Provincia di Genova), Fosco Giannini (Cpn, Segretario Federazione Ancona, Direttore rivista l’ernesto), Beatrice Giavazzi (Vice Presidente Collegio Nazionale di Garanzia), Orfeo Goracci (Sindaco di Gubbio), Yassir Goretz (Coordinamento nazionale Giovani Comunisti), Marcello Graziosi (Segreteria regionale Emilia Romagna), Damiano Guagliardi (Direzione nazionale, Capogruppo Regione Calabria), Franco Izzo (Segreteria Federazione di Torino), Kiwan Kiwan (Segretario Federazione di Ferrara), Giancarlo Lannutti (Giornalista di Liberazione), Paola Lanzi (Consigliere Regione Sardegna), Alessandro Leoni (Cpn, Direzione regionale Toscana), Antonello Licheri (Segretario Federazione Sassari, Capogruppo Regione Sardegna), Letizia Lindi (Cpn, Coordinamento nazionale Giovani Comunisti), Aldo Lombardi (Cpn, Segretario Federazione di La Spezia), Arcangelo Longo (Segretario Federazione di Messina), Domenico Losurdo (Cpn, Professore ordinario Università di Urbino), Ezio Lovato (Segretario Federazione di Vicenza), Gianni Lucini (Giornalista di Liberazione), Vittorio Macrì (Segretario Federazione Sulcis-Iglesiente), Cesare Mangianti (Cpn, Presidente Consiglio Provincia di Rimini), Giovanni Maraia (Segretario Federazione di Avellino), Francesco Maringiò (Coordinatore Giovani Comunisti di Bologna), Federico Martino (Segreteria regionale Sicilia, Docente universitario), Leonardo Masella (Cpn, Capogruppo Regione Emilia Romagna), Vladimiro Merlin (Cpn, Segreteria Federazione di Milano), Renata Moro (Cpn, Federazione di Treviso), Francesco Nappo (Presidente Comitato regionale Campania), Mauro Natalini (Segretario regionale Molise), Saverio Nigretti (Presidente Centro Culturale “Concetto Marchesi” di Milano), Alfredo Novarini (Segreteria regionale Lombardia), Sergio Olivieri (Assessore Comune di La Spezia), Velio Ortu (Segretario regionale Sardegna), Giovanniantonio Orunesu (Segretario Federazione Gallura), Costanza Pace (Cpn, Segreteria Federazione di Pavia), Alessandro Pallassini (Segreteria regionale Toscana), Gianluigi Pegolo (Direzione nazionale, Responsabile Dipartimento Enti Locali), Iris Pezzali (Cpn, Segreteria Federazione di Mantova), Marilde Provera (Deputata), Emanuele Pusceddu (Coordinatore regionale Giovani Comunisti Sardegna), Sergio Ricaldone (Comitato politico federale Milano), Francesco Rozza (Segreteria Federazione di Caserta), Michele Rubino (Segretario Federazione di Forlì), Giuseppe Sacchi (Già Deputato, Presidente Comitato regionale Lombardia), Maddalena Salerno (Assessore Regionale Sardegna), Angelo Sanchini (Segretario Federazione di Siena), Roberto Sconciaforni (Cpn, Segretario Federazione di Bologna), Giuliana Licia Sema (Cpn, Segreteria regionale Friuli Venezia Giulia), Marco Sferini (Direzione Federazione di Savona), Ezio Simini (Cpf Federazione di Vicenza), Vincenzo Siniscalchi (Presidente Sindacato Unitario Lavoratori Trasporti Sult), Enzo Sobrino (Segreteria regionale Piemonte), Fausto Sorini (Direzione nazionale, Resp. Dip. Ricerche di Storia e Teoria politica), Ilaria Sorrentino (Cpn, Capogruppo Provincia di Novara), Bruno Steri (Cpn, Dipartimento Esteri), Silvana Stumpo (Cpn, Segreteria Federazione di Cosenza), Rocco Tassone (Segreteria Federazione di Cosenza), Giuseppina Tedde (Direzione Nazionale, Assessore Provincia di Bologna), Federico Tornabuoni (Segreteria Regione Liguria), Alessandro Trotta (Segretario Federazione Livorno), Alessandro Valentini (Dipartimento Movimenti), Piero Valleise (Segretario Regione Valle D’Aosta), Sergio Vallero (Presidente Consiglio provinciale di Torino), Giuseppe Vavalà (Comitato politico regionale Calabria), Stellina Vecchio Vaia (Partigiana, già Deputata), Andrea Venturi (Cpf Pisa, Consigliere comunale di S.Giuliano Terme), Stefano Verzegnassi (Segreteria regionale Friuli Venezia Giulia), Alessandro Volponi (Segretario Federazione di Fermo), Maurizio Zamboni (Assessore Comune di Bologna). |