PARTITO
DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
VI CONGRESSO NAZIONALE
Conclusioni del segretario Fausto Bertinotti
Grazie,
grazie davvero, tanto più in un congresso così contrastato.
Compagne e compagni a nome di tutti voi vorrei ringraziare tutti coloro
che hanno contribuito alla riuscita di questo congresso, in primo luogo
con una presenza che ha testimoniato il rispetto e l’attenzione
per il nostro partito da parte di delegazioni molto autorevoli di tutti
i partiti delle opposizioni e dei partiti che ci avevano invitato ai loro
congressi, i rappresentati delle istituzioni. Ringrazio con molto affetto
e con molta amicizia le delegazioni straniere dei partiti che sono stati
qui con noi in tutti questi giorni a testimoniare una vera solidarietà
internazionale e la continuità di un lavoro comune che ci ha impegnato
in tutti questi anni e che continuerà ad impegnarci. Ringrazio
la stampa che ha voluto dedicarci, in una libera interpretazione del nostro
dibattito, un’attenzione di cui siamo loro grati. Soprattutto, consentitemi
di ringraziare con particolare calore e affetto le compagne e i compagni
che hanno lavorato dall’inizio a costruire e a organizzare e a far
vivere questo congresso difficile. Grazie davvero, non era facile, non
è facile nulla per noi e così vorrei anche ringraziare chi
generosamente, avendo un nome molto autorevole da spendere, ci ha donato
anche la sua intelligenza e creatività per rendere così
bella la scena di questo nostro congresso.
E’ stato un congresso strano, singolare, attraversato da grandi
emozioni. La prima , ci voglio tornare per ringraziarlo a nome di tutti
intensamente, quella che ci ha regalato il più autorevole e importante
esponente della sinistra italiana, Pietro Ingrao, con l’iscrizione
al Partito della Rifondazione Comunista. Si è trattato di un’emozione
grande, persino insperata. Ingrao compie novant’anni tra pochi giorni:
auguri Pietro, lunga vita, ci sarai prezioso ! Quando ci siamo sentiti
per telefono, mi ha detto “vedrai Fausto sarò un compagno
disciplinato”.. Continua a disobbedire Pietro !
Congresso di grandi emozioni.
La
liberazione di Giuliana Sgrena e la morte di Nicola Calidari
Chi
c’era in sala ed ha condiviso la festa, l’emozione, la gioia
con cui abbiamo salutato Giuliana Sgrena che è tornata libera,
se lo ricorderà per tanto tempo: una comunità di donne e
di uomini che ha partecipato ad una impresa e se la sente riconosciuta
e poi il colpo di scena, lo sgomento che quella speranza, quella vittoria,
quel successo venissero così orribilmente sfigurati dall’uccisione
di Nicola Calipari, a cui va il nostro rispettosissimo omaggio e , lo
abbiamo già fatto in quella seduta ma non c’eravamo tutti,
vorrei chiedere alle congressiste e ai congressisti di dedicare un minuto
di silenzio a questo funzionario dello Stato.
Grazie,
come voi non amo questo termine e mi rimane forte la suggestione di Bertold
Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”, ma
vorrei dare atto, almeno per quello che mi riguarda, che episodi come
questo ci aiutano a cambiare, a pensare diversamente. Confesso di avere
avuto sempre una diffidenza verso gli apparati dello Stato, forse determinata
da una lunga storia critica, con qualche vena anarchica. Poi, scopri che
lì c’è un uomo da tutti rispettato, che ha il senso
così alto della Repubblica e della sua missione, quella di salvare
Giuliana Sgrena, che mette a rischio la sua vita per poterla salvare e
io credo che le parole che si sono dette la moglie di Nicola Calipari
e Giuliana Sgrena, quando è andata a trovarla, segnano anche un
passaggio del nostro modo di vedere il mondo.
Il fatto accaduto è un fatto enorme, un fatto nazionale. Certamente,
non dimentichiamo le cose importanti: Giuliana Sgrena è stata liberata
perché il movimento della pace, i pacifisti hanno dimostrato veramente
la loro capacità di influenza in questo Paese, non sono un’area,
un ghetto ma hanno invece la capacità di far vivere una coscienza
così diffusa da influenzare anche i comportamenti del governo Berlusconi
e, sotto quell’ombrello di pace, si riesce a far vivere una missione
diplomatica che salva Giuliana Sgrena. Noi portiamo la forza, il coraggio
e l’intelligenza di avervi contribuito senza chiuderci nella logica
amico-nemico, al contrario, con la capacità di aprire degli spazi,
abbiamo concorso a costruire delle soluzioni. Lo abbiamo fatto accanto
ed attorno al Manifesto che ha condotto con intelligenza, duttilità,
accortezza una campagna che ha consentito, in larga misura, la convergenza,
seppure diversa, di tutte le forze dell’Unione e un rapporto corretto
con il governo.
Questi sono punti essenziali, che non dobbiamo dimenticare.
Devo dire, però, che troviamo l’uccisione di Nicola Calipari
un fatto politicamente di prima grandezza. Non è nostra abitudine
indagare quello che non possiamo sapere, non ci guida alcuna interpretazione
complottarda, vorremmo depositare le ipotesi così come si presentano:
tutte ugualmente terribili, diversamente ma ugualmente terribili.
Non è che una condanna a questo atto di guerra diminuisca se ciò
che l’ha motivato è diverso.
Proviamo a vederle le diverse ipotesi.
La prima: l’esercito di occupazione ha sparato senza neppure un
perché specifico; ha sparato perché si può sparare
contro qualsiasi cosa, qualsiasi persona; ha sparato perché qualcosa
si muoveva, poteva essere un mezzo della Croce Rossa, una autolettiga,
una missione umanitaria.
Si spara perché questa è la guerra e se questa è
la guerra noi abbiamo tutte le ragioni di non perdere neanche un minuto
nel dire questa guerra deve cessare, dobbiamo fermare questa guerra, è
orribile !
“La Repubblica” dice è insensata. Ma, se è insensata,
allora ci vuole un soprassalto ulteriore delle coscienze per fermarla.
Se chiunque può essere ucciso, sterminato, da una forza di occupazione,
altro che democrazia e futuro!
La seconda: volevano uccidere. Hanno sparato secondo una mira, volevano
uccidere una giornalista che poteva avere delle informazioni sulla criminalità
della guerra o volevano uccidere l’uomo di una missione di pace
con la quale, in questa come altre volte, ha salvato una donna sequestrata
in territorio che gli americani considerano loro e solo loro.
E’ così?
In ogni caso noi siamo di fronte ad un fatto enorme che colpisce al cuore
la stessa idea di autonomia di uno Stato e in questo caso dello Stato
italiano. Noi non lanciamo accuse preventive, vogliamo manifestare, in
un fatto così drammatico, il massimo di sobrietà perché
abbiamo il massimo della richiesta da avanzare: dobbiamo sapere la verità
su questo fatto, bisogna andare fino in fondo e non ci può essere
la prepotenza e l’arroganza di una grande potenza mondiale che ci
impedisce di sapere la verità.
Se il governo ha una qualche dignità la faccia valere ! Non ci
può essere un rapporto da servi a signori, l’Italia non è
serva degli Stati Uniti d’America. Chiediamo al Presidente della
Repubblica, al Capo del governo italiano di esprimere la voce di tutto
il Paese: chiediamo di conoscere la verità. In ogni caso, e lo
affermiamo senza polemiche (da questo punto di vista, Liberazione lo ha
fatto benissimo): non vogliamo dire “avevamo ragione ieri”,
ma dopo un fatto di questo genere, il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq
si impone come un atto di salute pubblica, come un atto di igiene politica
e morale per il Paese.
Un
congresso vero
Congresso
attraversato da grandi emozioni perché congresso vero, congresso
aspro di cui mi piacerebbe si dimenticassero le volgarità, le rozzezze,
le aggressioni. Penso che tutti dobbiamo contribuire alla riforma della
politica e penso che questa forma di aggressività sia una delle
cose che mette fuori dalla politica tante anime sensibili e attente, che
non si sentono di parteggiare in una guerra o un conflitto in cui persino
nel linguaggio si traduce un’ispirazione militare, una tentazione
di sopraffazione, di cancellazione dell’atro. Sento, scusate se
lo dico in questo modo, un grande bisogno di tenerezza, in una comunità
condivisa e solidale.
Non faccio citazioni per non introdurre ulteriori veleni ma, come si è
visto, c’è una violenza del linguaggio che va assolutamente
estirpata se si vuole che questa comunità non venga messa a rischio.
Vorrei che ognuno valutasse il rapporto che si determina tra l’aggressività
di una formulazione e la rottura che si produce nella comunità,
rottura che non viene per nulla lenita, anzi ulteriormente aggravata,
se poi viene aggiunta la richiesta di unità che, a quel punto,
appare del tutto ipocrita e strumentale. Un bisogno di umanità
e in cui davvero non serve mostrare i muscoli.
Se le minoranze dicono che sono stati raggiunti più consensi che
in ogni altro congresso io non ho nulla da lamentare, timidamente aggiungo
che anche la maggioranza ha preso più voti che in ogni altro congresso
perché ha votato più gente e io penso che, se vota tanta
gente, è un fatto positivo perché io considero militanti
di questo partito tutti, non solo quelli che votano per me, tutti quelli
che votano. E già che ci sono considero che, se aumentiamo gli
iscritti a questo partito, è un bene, non una cosa di cui dolersi:
penso e spero che li aumenteremo ancora.
Congresso vero con minoranze non marginali né marginalizzate, come
avete sentito dal linguaggio, per nulla “minoranze di sua maestà”
ma capaci di condurre un reale combattimento, per usare un termine più
gradito, in un partito libero. Anche io, per storia personale e per piccola
biografia personale, non amo le correnti ma, finché starò
in maggioranza, non negherò mai ad una minoranza il diritto di
organizzarsi in corrente, perché mi sembrerebbe una prevaricazione.
Il
pluralismo
Abbiamo
provato a costruire un congresso fatto diversamente: qualche mese prima
del suo svolgimento, personalmente, ho cercato di dare un contributo con
le 15 Tesi. Se fossero state accolte come base di una discussione, avremmo
potuto organizzare diversamente il congresso da quello per mozioni; ma
non mi piace il gioco a rimpiattino delle responsabilità .
Quello che rivendico, care compagne e cari compagni, come merito di questa
direzione e per quel poco che vale anche personale, è che in questi
anni ognuno e ognuna ha avuto il diritto di manifestare, nelle forme che
ha scelto, il massimo dissenso e persino di separazione in questo partito:
sono nate riviste diffuse e organizzate delle minoranze e delle opposizioni
e in cui anche esponenti della maggioranza scrivono ogni volta che gli
è stato richiesto, sono state organizzate iniziative autonome,
si è scelto da parti di partito di partecipare a delle manifestazioni
a cui non aderiva il partito. Ho considerato tutto ciò pienamente
legittimo e, alle compagne e ai compagni che mi facevano delle osservazioni
critiche, ho replicato che il principio della libera espressione del dissenso
è una conquista irrinunciabile per poter stare in un partito libero.
Voglio aggiungere che questo diritto e il pluralismo interno al partito
non dipendono dal livello dello scontro e perciò saranno garantiti
domani come ieri. Si, anche nel passato, abbiamo cercato di andare sulla
strada del pluralismo, del riconoscimento dei valori. Vorrei ricordare
che ha parlato da qui un compagno, che apprezzo molto, e che ha svolto
(e che io spero continuerà a svolgere) il ruolo di capogruppo al
Senato pur non appartenendo alla maggioranza congressuale; così
è stato e potrà continuare ad essere per il vicedirettore
di Liberazione; così nelle istituzioni dove abbiamo aperto la strada
ad indipendenti che hanno fatto onore al nostro partito, come nel gruppo
parlamentare europeo, e abbiamo inserito nello Statuto, il tanto deprecato
Statuto di questi giorni, il diritto delle minoranze di essere rappresentate
anche nelle istituzioni parlamentari, nei gruppi parlamentari alla condizione
che, per loro come per tutti, il mandato elettorale venga rispettato,
venga rispettata cioè la volontà degli elettori del partito.
Una presenza plurale che si può manifestare (io spero che sia così)
nella Direzione del partito e non solo, ovviamente, nel Comitato politico
nazionale, in maniera rigorosamente proporzionale ai voti ottenuti nel
congresso.
Sentite, però, che bizzarria che ci è venuta, quella di
costruire un esecutivo cioè uno strumento di lavoro che ci è
mancato in questi anni acutamente. Chiedete ai compagni che ci hanno lavorato,
chiedete ai segretari di federazione, la difficoltà di essere associati
alla direzione reale del partito quando siamo impegnati in una campagna,
in una battaglia politica e si sente il partito in qualche modo lontano.
Pensate che diavoleria straordinaria, questo esecutivo è fatto
per funzioni, cioè non lo scelgo io prefettizio, non scelgo io
le persone che ne faranno parte, li scelgono i compagni delle federazioni
eleggendoli. Infatti, in questo esecutivo sapete chi ci sta, oltre ai
membri della segreteria e dei capigruppo ? I segretari dei regionali e
i segretari delle grandi federazioni, eletti dai regionali e dalle federazioni
e se a Torino ci sarà un segretario della minoranza entrerà
nell’esecutivo e se ci sarà a Milano uno della maggioranza
entrerà nell’esecutivo.
Associare il partito alla direzione reale, costruire partecipazione, rapporto
tra esperienze, dibattito politico: questo vogliamo fare !
A proposito sempre di democrazia, visto che si da il caso che in un partito
qualche volta si verifica un eccesso di litigiosità e si può
rendere necessario “commissariare” una federazione, per consenso
e per proposta, anche vagliata dalla Commissione nazionale di garanzia,
sapete chi lo deciderà: questo esecutivo così pericoloso
o la direzione dove si sta in parti proporzionali? La direzione lo deciderà,
per garantire tutti, perché non ci sia nessun atto che possa essere
considerato come sopraffazione. Contemporaneamente, costituiamo un esecutivo
per poter portare ad una svolta interna un partito che è cresciuto
per fortuna e che ha bisogno di nuovi strumenti di direzione, che ha bisogno
di sapere e far circolare le esperienze. Se si sta facendo una campagna
per l’acqua o una battaglia politica a Napoli, devo poterlo sapere
per poter dire a Bari di fare analogamente e viceversa e se c’è
un’esperienza importante in un territorio, devo poterne discutere
in modo che diventi una campagna nazionale di tutto il partito e che possa
portare ad un successo e alla crescita dei compagni.
Resta la questione del governo unitario. Vorrei rassicurare il compagno
Grassi che credo di sapere cosa vuol dire governo unitario; tanto lo so
che l’abbiamo fatto. In questi ultimi tre anni, la segreteria è
stata unitaria, cioè plurale. Abbiamo avuto una discussione nel
partito, c’erano compagne e compagni che muovevano una critica.
Mi sono battuto contro ma, oggi, penso che avessero ragione loro. Abbiamo
sperato che quel processo di direzione unitaria sciogliesse i grumi, le
cristallizzazioni, favorisse una fluidificazione: il fatto che io posso
essere d’accordo con te su una cosa non su un’altra e su quella
su cui si è d’accordo metterci una particolare energia comune.
Ci abbiamo sperato e ci abbiamo lavorato. Questa ipotesi è stata
colpita al cuore. Chiedo a tutte le compagne e a tutti i compagni, in
particolare a quelli che si esprimono da questa tribuna con particolare
veemenza, è aumentata o si è ridotta la pulsione correntizia
nel partito negli ultimi tre anni ?
Contrastare
i veleni nella discussione del Partito
Vedete,
per contrastare la pulsione correntizia bisogna, nel rispetto delle minoranze,
condividere le ragioni del partito nel suo insieme, gioire del fatto che
aumenta il partito, la sua consistenza, la sua autorevolezza, la sua iscrizione,
non subire tutto ciò come una menomazione e, lasciatemelo dire
così, se viene letta la dichiarazione di Pietro Ingrao di adesione
al partito e tutta l’assemblea si alza in piedi, per favore alzati
in piedi anche tu perché stiamo parlando di Pietro Ingrao, perché
questo è condividere, è partecipare ! E se, facciamo una
seduta per discutere della sinistra europea, per favore vieni, vieni con
me a discutere perché questa è una grande occasione, una
grande chance e se fossi venuto a discutere, avresti gioito con me anche
della liberazione di Giuliana Sgrena, che invece abbiamo fatto con una
sola parte del partito.
Vedete, vengo fatto passare per uno particolarmente critico nei confronti
della storia del partito comunista e, diciamo così, non mi sottraggo.
Però, penso che anche nel partito comunista c’erano cose
da cui imparare. Da noi, rispetto ai rapporti interni, succede il contrario.
Nel Partito Comunista succedeva che poteva esserci una discussione feroce
nei gruppi dirigenti interni al partito ma, quando la discussione andava
all’esterno, diciamo pure con qualche ipocrisia, tutto sembrava
coinvolto in una grande ispirazione unitaria o in ogni caso venivano dismesse
le critiche nei confronti degli altri. Da noi è il contrario, nella
discussione interna grandi e, diciamo così, corretti ragionamenti,
seppur magari nei dissensi; poi, fuori, invece il linciaggio, l’offensiva,
la denigrazione.
Non ho nulla contro i festival di corrente. Anche qua lo difesi, me ne
daranno atto i compagni per quel poco che vale: “l’Ernesto”
ha diritto a fare il suo festival? Sì ha diritto. Lo sento come
una sottrazione di energie dalla festa nazionale? Non importa è
suo diritto assolutamente. Ma, se c’è un dirigente di un
altro partito, che si è distinto in una campagna sistematica, offensiva,
denigratoria nei confronti di Rifondazione comunista e diciamo così
anche del suo segretario, forse non è bene che tu lo inviti al
dibattito di quella festa.
E non capisco perché devono circolare veleni nel partito che poi
è difficile da estirpare. Vedete compagni, io vado ovviamente alla
festa di Liberazione a Roma e sto con i compagni. Secondo voi è
ragionevole, lo chiedo ai compagni delle minoranze, che io debba fare
l’intera serata di una cena con i compagni e le compagne, fatta
per volontà comunitaria, a spiegare che non è vero che voglio
togliere il termine comunista dalla definizione del partito?
Le compagne e i compagni sanno che il dissenso è importante, è
una delle cose più creative di cui disponiamo, il dissenso è
anche il più duro, il più radicale ma dentro un processo
di costruzione delle decisioni, di pratica delle verifiche non invece
nascosto in un camuffamento senza mai riconoscimento di scelte che poi
da tutti vengono valorizzate.
Per favore, ora tutti, per fortuna e sono contento, parliamo del movimento,
ma da qualche minoranza può venire almeno una voce di autocritica
per dire ci siamo sbagliati a Genova e avevate ragione voi? È giusto
valorizzare la battaglia per i referendum sull’articolo 18. Compagni
e compagne, posso ricordarvi che avevate delle obiezioni su questo referendum
nel dibattito interno del partito?
La metafora è orribile perché orribilmente antifemminista
ma non si può avere la “botte piena e la moglie ubriaca”,
non si può dire lavoreremo con grande impegno, ed è vero,
per la vittoria di Niki Vendola in Puglia e dimenticarsi che quella candidatura
c’è perché abbiamo sostenuto le primarie, altrimenti
non ci sarebbe.
Dico questo per sostenere quello che Michele affermava poco fa: tu conquisti
e guadagni se operi uno piazzamento, se ti muovi, se fai la mossa del
cavallo, se non ti fai trovare sempre chiuso in quell’angolo in
cui alzi la tua bandiera, sei sicuro delle tue certezze ma rimani lì
da solo mentre così invece spiazzi l’avversario, muovi forze,
costruisci movimenti.
Vi chiedo ancora, se diciamo tutti insieme “ritiro delle truppe
dall’Iraq”, perché lo devi dire con il tono come se
io dicessi il contrario ? Ma dove siamo ?
In questo partito si parla spesso come se solo qualcuno fosse comunista.
In questo partito siamo tutti comunisti e comuniste, anzi bisognerebbe
ricordare che non c’è penuria perché in Italia sono
due i partiti che si dicono comunisti e forse una domanda opportuna è
perché noi siamo qui e non là e la mia risposta a questa
domanda è una nuova domanda.
Il
percorso della rifondazione comunista
Vi
chiedo e chiedo a tutti noi, cosa saremmo noi oggi senza quelle che sono
chiamate le svolte, senza la rottura contro lo stalinismo, senza la scelta
di Genova e il movimento, senza la critica del potere, senza la nonviolenza,
senza la sinistra europea, senza la proposizione della sinistra alternativa
?
Noi questo oggi siamo e questo è solo il passaggio di un viaggio,
un viaggio che riceve attenzione e che , lo dico fuori da ogni possibile
polemica, e con il massimo rispetto per le storie che ci hanno condotti
fin qui, è anche sancito da una generazione politica che è
cresciuta in questo percorso.
Questo è il nostro viaggio. Io sento la stasi, l’immobilità,
lo restare fermo come la morte della politica.
Niki Vendola ha usato una formula da par suo: “noi siamo un partito
non un restato”. E’ proprio così, restare è
la morte della politica, è il trasformarsi in statue di sale.
Procura paura il viaggio? Sì, inquietudine, incertezza del cammino
e tanto più della meta. Ma, vi chiedo, non fa ancora più
paura stare fermi? Noi ci muoviamo dentro un movimento e in questo movimento
abbiamo ragionato.
Ho sentito dire che avremmo in qualche modo lacerato anche questo movimento
con il ragionamento sulla nonviolenza. Stare nel movimento è stata
per noi una scelta importante, abbiamo rotto con una parte importante
della nostra cultura e della nostra storia: l’idea del partito di
avanguardia, del partito guida. E’ stato difficile, abbiamo scelto
di stare nel movimento ma non di diventare muti, abbiamo scelto di stare
nel movimento accettandone ogni risultante unitario oggi e domani, quello
che il movimento nelle sue articolazioni decide è la nostra scelta,
ma, contemporaneamente, noi dobbiamo saper far vivere un senso della ricerca
da mettere in relazione a quel movimento. Non dobbiamo esserne una carta
assorbente, avere un’opinione, una proposta, dialogare con loro
e oggi questa tesi della nonviolenza è cresciuta, è entrata
in questo rapporto, ne avete sentito l’eco qui, non in un discorso
in cui mi tocca di ribadire le ragioni tante volte dichiarate, le avete
sentite nella critica pratica all’esistente. Pensate a chi abbiamo
incontrato su questa strada. Chi ha avuto la fortuna di essere qui, nella
discussione sulla sinistra europea, ha sentito un uomo che ci ha affascinato
nella sua ricerca e nel suo lavoro drammatico, Pippo Del Bono. Avete sentito
il suo richiamo poetico delle parole che camminano e ci ha raccontato
qui la storia che molti di voi conoscono, quella di Bobò, la storia
di un uomo chiuso per 45 anni in un manicomio e liberato, tanto da diventare
oggi uno degli uomini di teatro più famosi in Europa. Attenzione,
non è la storia del successo di una cultura nella logica borghese,
è la storia di una liberazione realmente praticata con una capacità
di innovazione di ricerca straordinaria, è la possibilità
che la politica pervada sfere che gli sembravano estranee, che entra nel
teatro, ne modifica il linguaggio e produce questo scambio, questa osmosi,
incontra un linguaggio politico diverso, incontra un linguaggio diverso
quando qui senti due fratelli migranti riproporre la loro condizione.
Li abbiamo incontrati sulle strade della lotta, li abbiamo incontrati
nelle azioni e nelle testimonianze contro i centri di permanenza temporanea.
Ci battiamo contro la Bossi-Fini ma, cari compagni e care compagne, non
solo abbiamo l’orgoglio di dire ciò che facciamo bene (Genova,
l’articolo 18…), ma quando sbagliamo diciamo che abbiamo sbagliato,
noi vogliamo cancellare la Bossi-Fini non per tornare alla Turco-Napolitano
perché siamo contro, oggi e domani, ai centri di permanenza temporanea.
Costruire
una nuova politica
Camminare,
imparare, correggere, costruire politica, imparare dai soggetti, e con
loro andare avanti e magari incontrare per le strade di Terni e di Roma,
come ricordava Roberto Musacchio anche a Strasburgo, i lavoratori di Terni,
una lotta che sembrava disperata nella solitudine e che è stata
estratta da quella solitudine grazie ad una sapiente conduzione sindacale
e ad un impegno politico che ci abbiamo messo quasi da soli, con quella
limpidità e portando però un contributo unitario affinché
al Parlamento europeo non solo noi, ma perfino Tajani, votasse un documento
a favore dei lavoratori e su quella base lavorare e costruire un risultato
anche se parziale. Noi abbiamo condiviso quel risultato, abbiamo solidarizzato
con il sindacato, non abbiamo fatto i saccenti dicendogli “ma il
magnetico non c’è più” e tuttavia, nel momento
in cui non abbiamo fatto i saccenti, diciamo che il magnetico perso a
Terni è una sconfitta per la politica industriale del Paese ed
ha ragione Ramon Mantovani a dire “Attenzione che al prossimo passaggio
dell’Organizzazione mondiale del commercio, si discuterà
di cose che hanno a che fare con Terni, che hanno a che fare con la Fiat,
che hanno a che fare con il destino delle industrie italiane” e
se noi non fossimo dentro quel movimento che assume quella scelta che
è in grado di intervenire e di capire che a Cancun è avvenuta
una cosa grande, tutti quelli di Terni non potranno mai vincere sul magnetico.
Il rapporto tra il movimento, la politica, il sindacato, richiede un salto:
le delocalizzazioni, la deterritorializzazione, la libera circolazione
dei capitali producono un cancro che determina una corrosione della coesione
sociale e questo produce un logoramento del potere politico e rischia
di consegnare i lavoratori alla solitudine.
Cari compagni e care compagne, con la testimonianza modesta di una vita
intera spesa, non a favore degli operai ma insieme agli operai e alle
loro lotte, io vorrei dire: noi staremo sempre dalla parte degli operai,
ma non abbiamo nessuna intenzione di regalare per sempre il governo ai
padroni! Stare con gli operai non vuol dire semplicemente appartenere,
vuol dire contribuire a costruire le risposte alle loro lotte, vuol dire
studiare, indagare la condizione operaia, vuol dire lavorare ed unificare
i movimenti, intervenire sul potere, riproporre, a seconda degli andamenti
delle lotte, grandi questioni.
Posso dire che sono stupefatto, che di fronte a un fatto che tende a rovesciare
nella cultura diffusa una tendenza che sembrava inarrestabile, quella
delle privatizzazioni e della cancellazione dell’intervento pubblico,
allorché questo partito pone con grande forza un tema che può
diventare nell’agenda politica italiana dirompente, quello della
costruzione di un nuovo intervento pubblico dell’economia, sembra
che diciamo noccioline da mangiare la domenica. E’ questo rapporto
tra il movimento e la costruzione gli obiettivi che ti fa incontrare i
disoccupati organizzati a Napoli, incontrati in tutti questi anni anche
in questo caso con grandi polemiche, perché i disoccupati organizzati
erano un po’ eccentrici rispetto alla purezza del conflitto di classe;
loro non erano mica operai e poi non erano neanche comunisti, anzi a volte
persino venivano accusati di qualche collusione con le destre perché,
quando si è disperati, non si sa bene che collocazione politica
cercare. Con loro, però, ci siamo stati e abbiamo costruito partecipazione,
organizzazione e lotta. Oggi i disoccupati organizzati sono divisi a Napoli
ma tutte le componenti ci riconoscono una interlocuzione costante perché
abbiamo lavorato con loro, perché non abbiamo solo gridato, abbiamo
costruito obiettivi comuni. Sui corsi di formazione abbiamo aperto la
strada e quando, il potere ha cercato di dividere (il potere in cui noi
eravamo iscritti perché eravamo in giunta), noi non ci siamo fatti
fermare dall’essere in giunta e abbiamo lavorato per ricomporre
i disoccupati, costruire delle rivendicazioni comuni.
Così abbiamo fatto sul salario sociale. Vi dice qualcosa la parola
salario sociale? Anche qua certo rivendicazione è un po’
eccentrica perché, volete mettere la rivendicazione classica salariale?
Il salario sociale, il salario di cittadinanza, robe del diavolo ! Stai
parlando di persone che non lavorano e gli vuoi dare un soldo? E su quello
hai costruito, invece, una mobilitazione e la Regione Campania ha realizzato,
seppure in maniera spuria, la prima legge in Italia sul salario sociale,
anche se non è ancora in compimento perché strangolata dal
finanziamento pubblico. Su questa strada hai costruito il rapporto con
quella gente e oggi andiamo avanti in questa battaglia, la stessa battaglia
che facciamo da un po’ ad Acerra contro l’inceneritore.
Ci siamo spesi con una radicalità assoluta. Lo sapete che stavamo
in giunta con Bassolino e che Bassolino voleva l’inceneritore ad
Acerra e che noi siamo stati con la lotta ad Acerra al punto tale che,
quando siamo andati alle elezioni, il nostro compagno che guidava le lotte
è diventato sindaco di Acerra ed ha dato una forza ulteriore a
quella battaglia.
E’ la nostra concreta realtà di cronaca che parla del nostro
rapporto fra il movimento e la politica, non si tratta di mere enunciazioni
ma di una pratica. Una pratica che ci coinvolge anche quando non ci riguarda
direttamente come la straordinaria esperienza in costruzione del contratto
unitario dei metalmeccanici tra Fiom Film e Uilm: una battaglia che ha
visto la Fiom arrivare al successo su un punto difficilissimo, quello
della democrazia dei lavoratori, della possibilità per i lavoratori
di decidere con un referendum del loro contratto e della loro piattaforma
e che costituisce un viatico per noi perché questo obiettivo entri
nel programma dell’Unione, affinché sia garantita la democrazia
ai lavoratori.
Posso dire, però che, una volta guadagnato quel risultato, per
la Fiom si apre un problema grande in quanto si presenta una piattaforma
così importante quando la Fiat rischia la chiusura, quando, come
diceva Giorgio ieri, alla Elettrolux ci sono i licenziamenti e quando
i tuoi rapporti non si dispiegano con una potenzialità di vittoria
immediata. Allora anche da quell’esperienza viene una domanda alla
politica.
Per chiedere alla politica di dare “lo sbocco”, come si dice
in maniera assolutamente fuorviante? No, per chiederci un lavoro politico
che costruisca una unificazione dei movimenti: il contratto dei metalmeccanici
deve interessare il movimento della pace, deve interessare il movimento
che chiamiamo no global, e deve costruire, per questa via, uno spazio
politico e questo spazio politico si alimenta del fatto che, per arrivare
a quella rivendicazione, devi battere le politiche delle destre e allora,
a maggior ragione, la domanda di popolo di cacciare il governo Berlusconi
deve diventare il tuo obiettivo vivente, forte, che accompagna queste
lotte. Ti chiede, infine,infine, di piegarti a studiare, a capire, a fare
l’inchiesta. Mao Tze Tung diceva che solo chi fa l’inchiesta
ha diritto alla parola: non so in quanti ce la caveremmo se applicassimo
questa formula.
Ho provato a fare l’inchiesta in una lunga prima parte della relazione
congressuale. Vorrei, non ora, che ci tornassimo sopra. Vedete io non
capisco, davvero non capisco, cosa significhi essere comunisti se non
si comincia dalla critica al lavoro salariato, non capisco cosa voglia
dire essere comunisti se non si comincia dalla critica dell’accumulazione
capitalista così come si manifesta nel tuo tempo, non capisco cosa
voglia dire essere comunisti se non si ha la capacità di costruire
una critica radicale al capitalismo nel tuo tempo, alle forme dello sfruttamento,
dell’alienazione.
Questo, però, chiede un grande sforzo. Noi abbiamo collocato questa
ricerca in alto, sul suo rapporto con la guerra e in basso, sulla sua
produzione di precarietà. Si può persino dire che ciò
che è stata la parcellizzazione nei tempi del taylorismo, diventa
la precarietà nei tempi del taylorismo digitale e dell’economia
della conoscenza.
La precarietà è la nostra insidia, non è semplicemente
il fatto che vivi male, sei sacrificato, non hai un futuro, è il
fatto che sei frantumato, disgregato; è il fatto che, attraverso
questa via, è precisamente la tua capacità di aggregazione,
di diventare coalizione, forza alternativa che viene messa in discussione
in radice.
La guerra in alto e la precarietà in basso sono le tenaglie del
nuovo capitalismo senza spezzare le quali noi non costruiamo la liberazione
.
La
questione del governo
Ho
sentito, in maniera francamente sconcertante, qualcuno leggere questa
ipotesi con il suo contrario, non con una cosa un po’ diversa, proprio
con il suo contrario cioè il patto fra i produttori. Ne ha parlato
ieri da questa tribuna Giorgio Cremaschi in termini assolutamente ineccepibili.
Come si fa ? Il patto tra i produttori pretendeva un’idea di crescita
lineare se non interrotta e che questa crescita fosse il risultato produttivistico
dello sviluppo industriale; che ci fosse una grande borghesia tendenzialmente
progressista con cui contrarre il patto e questo diventava il patto tra
i produttori. Ero in dissenso allora, perché non vedevo gli spazi,
i margini e, in ogni caso soprattutto, perché si ledeva l’autonomia
dei lavoratori e delle loro rivendicazioni.
Oggi, questa proposta sarebbe semplicemente insensata perché non
ci sono il produttivismo, l’industrialismo, la grande industria
e non c’è la crescita. Oggi chi proponesse il patto tra produttori
andrebbe ricoverato, il patto tra i produttori è quasi una sciocchezza,
come dirci “governisti”.
Anzi, quasi, “governisti” lo è di più. Si può
dire “governativi”, uno si lamenta ma siamo su un piano di
polemica politica. “Governista” è semplicemente insensato.
Rivolgo un domanda, c’è qualcuno che si ricorda ancora la
rottura con Prodi e chi l’ha fatta?
“Governista” a chi ? Suvvia, discutiamo, discutiamo di politica
!
Noi lo vediamo il pericolo, vediamo il pericolo che, in questa crisi,
le destre, per niente sconfitte, possano rilanciarsi in una versione estremistica
nel mondo e in Italia.
La guerra imperiale americana è in crisi, non è sconfitta.
In crisi vuol dire che sono possibili esiti diversi, che è possibile
l’esito che da questa crisi le forze dalla pace impongano una soluzione
che metta fine alla guerra, ma, in crisi, può anche voler dire
che è possibile l’ipotesi sciagurata di cui Chenney ha già
parlato, di una possibile escalation che, di fronte alla crisi, punti
verso il conflitto di civiltà, verso l’aggressione alla Siria
o all’Iran.
Parliamo di possibilità, ma allora è precisamente in questa
crisi che devi tentare di intervenire.
Crisi come crisi interna. Le politiche neoliberiste sono fallite ma questo
non vuol dire che c’è una rinuncia. Potrebbe esserci , come
si vede nella vocazione del governo Berlusconi, un rilancio estremistico
oppure un altro esito ancora.
Una parte importante della borghesia italiana, ma non solo di essa, penso
alla Confindustria, o una parte importante della gerarchia ecclesiastica,
pensano che, di fronte al fallimento delle politiche neoliberiste e di
Berlusconi, bisogna guadagnare un esito neocentrista moderato della crisi
italiana. Non dico un patto tra i produttori perché non li faccio
così ignoranti quanto, invece, la costruzione di una nuova coesione
moderata di galleggiamento, di adattamento. Io ne vedo il rischio, anche
se l’esito partitico non ne è alle porte perché il
sistema maggioritario frena molto questo esito politico centrista. Le
forze nella società tendono ad organizzarsi per questa via e il
rischio che queste sirene becchino il sindacato confederale è un
rischio reale e il rischio che queste sirene prendano una parte consistente
del centro sinistra è un rischio reale. l’ipotesi neocentrista
non è fuori dal novero delle cose possibili come esito della crisi
della società italiana.
Io penso che la aggraverebbe, ma questo non vuol dire che non sia un avversario
pericoloso. Anche per questo, sento il problema di accelerare la costruzione
di alternativa, per uscire da questo passaggio con un’ipotesi riformatrice.
E’ entrato nel nostro dibattito, questo invece è chiaramente
comprensibile e può anche essere il prodotto di un fraintendimento,
il riferimento agli anni ’60.
Non c’è nessuna volontà di imitazione del centrosinistra
e la cosa più lontana poi è proprio quella della “stanza
dei bottoni”. Un compagno qui ha parlato del riferimento del congresso
di Venezia del ’57 del Partito Socialista Italiano. Credo che lo
abbia fatto perché in quel congresso Pietro Nenni fu sconfitto
e forse, pensando che io gli assomigli, era un auspicio che avvenisse
anche qui qualcosa del genere.
Ma, tra i due passaggi, non c’è alcuna relazione, l’unica
similitudine è la profondità del passaggio. Sono scene radicalmente
diverse, hanno un solo punto in comune: costituire un passaggio storico
nella storia dell’Italia.
Gramsci insegnava che nei passaggi storici può avvenire una rivoluzione
passiva.
Quando cambiano nel profondo la morfologia e la struttura della società,
le psicologie diffuse, le culture, se nel passaggio storico non matura
l’alternativa, l’egemonia delle forze dominanti può
trasformare in una rivoluzione passiva quella modernizzazione.
Negli anni ’60, l’Italia passava da essere un paese agro-industriale
alla società dei consumi, a quello che veniva chiamato il neo capitalismo.
Badate che però la possibilità di lettura non era così
semplice neanche allora, perché nel Partito Comunista Italiano
ci si divise tra chi pensava che l’Italia fosse il regno dell’arretratezza,
come Giorgio Amendola, e che quindi bisognava portare a compimento una
rivoluzione borghese incompiuta e chi, come Pietro Ingrao, diceva: no
attenzione, noi siamo di fronte ad una modernizzazione capitalistica che
non consente un’ipotesi riformista ma chiede un mutamento del modello
di sviluppo.
La condizione è completamente cambiata perché allora si
trattava dell’evoluzione di una modernizzazione che lavorava alla
integrazione della classe operaia nel sistema mentre oggi, al contrario,
siamo di fronte ad una rivoluzione capitalistica restauratrice, che produce
una regressione di civiltà e mentre là proponeva l’inclusione
qui propone la sistematica esclusione di chi non serve all’accumulazione
né nel lavoro né nel consumo.
L’unica similitudine è che si tratta di passaggi storici
e in questo passaggio storico noi abbiamo il compito di costruire l’alternativa
di società.
La grande borghesia imprenditoriale italiana non è certo ininfluente,
sarebbe grottesco pensarlo: le sue cattedrali, le sue banche, le sue imprese,
i suoi rapporti internazionali producono un’influenza molto grande.
Non si può non vedere, però, che questa grande borghesia
imprenditoriale è dentro un declino ed è in una condizione
di sbando. Volete fare la prova di dire nomi e cognomi di grandi borghesi
della produzione industriale del Paese, volete citare le grandi famiglie
che nel triangolo industriale Milano, Genova, Torino hanno costruito l’economia
di rapina sul Mezzogiorno, che ha prodotto in forme diverse la storia
della crescita industriale del Paese ? Dove sono ? Qualcuno di voi ricorda
cosa è stata la Fiat, cosa sono stati gli Agnelli nella storia
dell’Italia, la loro capacità di fare e disfare a piacimento
governi e sindacati, la loro possibilità di costruire un impero
dentro la più grande industria del Paese, tenendo fuori la Costituzione
? Erano anni ancora segnati dalla Resistenza e dall’antifascismo
ma in cui i comunisti, solo per avere preso la tessera della Fiom, potevano
essere licenziati da Valletta senza nessun commento. Una Fiat che faceva
come voleva, e che quando si è rivolta al centrosinistra, ha favorito
il centrosinistra. Come diceva un grande padrone del vapore, Costa, sempre
“amica del governo”, una cosa che ha persino portato a dire
che ciò che andava bene per la Fiat andava bene per il Paese.
Era una cattiva ideologia padronale, ma con una forza dentro.
Dov’è questa borghesia oggi ?
Proprio per questo, c’è il pericolo che la crisi diventi
distruttiva per noi. I padroni hanno questa virtù: possono farti
male quando vincono e possono farti male anche quando perdono. Rischi
di prenderle quando vincono loro e di cadere sotto le loro macerie quando
loro stanno perdendo. Perciò noi dobbiamo sottrarci e costruire,
con le forze che crescono nel Paese, i nuovi lavoratori e i vecchi lavoratori,
le forze di in territorialità, i nuovi settori e le nuove aree,
una forza e un cimento capaci di una egemonia in un Paese in crisi.
I
cambiamenti intervenuti in questi anni
Cambiare,
la grande riforma. Per realizzare questo nuovo corso, certo è evidente,
devi influenzare uno schieramento largo. Dov’è il problema
se non di come si fa questo condizionamento ?
Io trovo sconcertante che non si veda da alcuni settori del partito ciò
che vedono tutti, cioè quanto è cambiata l’Italia
e il mondo dal primo governo Prodi ad oggi.
E’ cambiato tutto, c’era il centrosinistra mondiale da Clinton
a D’Alema, un centrosinistra che accompagnava ciò che Le
Monde Diplomatique chiamava il pensiero unico, e chi era fuori era solo
un irregolare, dei testardi “rompicoglioni” come noi che difendevano
le ragioni di un’alterità, di una resistenza, in nome di
una storia e anche di una speranza.
Il mondo, però, andava in un'altra direzione.
Mi sbaglio, oppure alla fine del secolo scorso la partita era considerata
chiusa e vinta dal capitalismo per sempre ? E in Italia il centrosinistra
era pressoché l’asso piglia tutto della realtà politica
italiana, e la situazione del Paese era una situazione senza conflitto
sociale e i protagonisti del conflitto sociale erano segnati da quella
stasi. Avete sentito l’empatia con cui ho parlato della Fiom fin
qui. Vorrei ricordare, e lo dico con pieno rispetto, che, quando rompemmo
con Prodi, dalla Fiom venne un pullman per dirci a Roma che non dovevamo
rompere. Lo dico solo per dire quanto è cambiata la situazione.
Come fate a non vedere che il centrosinistra materiale è totalmente
cambiato, che i suoi riferimenti sociali sono da un’altra parte,
che la Fiom, l’Arci sono oggi una potenza di vita democratica di
questo Paese ?
L’Arci di Tom Benetollo, l’Arci di questa storia, compagni
di strada. Ma come fate a non vederli e a non vedere l’influenza
che esercitano ?
Voi guardate solo a Fassino: ma guardate, invece, queste realtà,
che sono i nostri compagni di strada.
Quando rivendicammo le 35 ore, e non si scherzi su queste cose, ne parleremo
in altre occasioni e in ogni caso in Francia la sinistra francese e i
lavoratori si mobilitano per difenderle, e per un passaggio acrobaticamente
persino le ottenemmo in un incontro con il governo, sapete che avevamo
contro? Le organizzazioni sindacali Cgil Cisl e Uil ! E’ cambiato
il mondo, sono cambiate le relazioni. Oggi se voi vi guardate agli ultimi
mesi e fate l’elenco degli scioperi non c’è parte della
popolazione lavorativa che non abbia scioperato: gli insegnanti in battaglie
straordinarie sulla scuola, con lo spostamento di culture, il sindacato
scuola della Cgil che stava con la riforma Berlinguer oggi militando contro
la riforma Moratti, sta anche contro quella riforma. Poi avanti, lo sciopero
del pubblico impiego, le battaglie del sindacato industriali e poi tanti
scioperi. Hanno scioperato persino i magistrati che non sono così
vocati allo sciopero in Italia. Scioperano, cambia la posizione dei lavoratori
e dei sindacati, c’è stato lo sciopero generale, uno, due,
tre scioperi generali (ne avessero fatto almeno uno con il governo di
centrosinistra di Prodi staremmo meglio tutti).
Ma quanto è cambiata questa realtà ! Voglio dirlo già
oggi: nel caso vincessimo e sconfiggessimo Berlusconi e fossimo al governo,
se ci fosse uno sciopero, lo considererei un elemento dinamico della società
italiana.
La
critica del potere
Sì, anche perché c’è un problema e un pericolo.
L’atteggiamento a volte insultante di una parte delle minoranze
non mi nasconde il problema: c’è un rischio reale quando
vai al governo. C’è il rischio di trasformarti in un partito
ministeriale, è un rischio reale non hai anticorpi garantiti, i
processi di contaminazione del potere sono molto forti, prendono delle
forme non volgari, a volte prendono delle forme nobili, la difesa di una
condizione conquistata di influenza, il rischio che avvenga peggio, l’affermarsi
della cultura del meno peggio, il realismo della “real politik”.
Vedo bene questi pericoli, anche se non è per questa ragione che
confermo che non farò mai il ministro di una compagine governativa.
Non lo farò mai per una ragione che riguarda la mia vicenda personale,
non per una ragione di avversione. Penso, infatti, che, se il programma
verrà guadagnato, se avremo sconfitto Berlusconi, se apriamo una
speranza, il partito deve assumersi tutte le responsabilità.
Ho un fastidio per le scorciatoie che vengono proposte. Poniamo che invece
vinciamo e non andiamo al governo, lo appoggiamo dall’esterno? Poniamo
di fare così delle due l’una, o questi compagni pensano che
sarebbe bene che noi fossimo ininfluenti cioè contiamo poco, oppure,
se invece fossimo influenti, qual è la differenza il giorno che
quel governo non ti piace ?
Cosa fai, perché sei fuori, lo metti sotto e vai alle elezioni
e che differenza fa se sei al governo o non sei al governo ?
Da questo punto di vista la tua responsabilità nei confronti del
popolo e del Paese è la stessa, devi farla valere assumendoti sino
in fondo la tua responsabilità. E prova a fare i conti con questo
rischio di diventare ministeriali, prova a sottrarti con una cultura politica
e con dei comportamenti. Quando di fronte ad una scelta del governo Lula
in Brasile, per l’accettazione degli organismi geneticamente modificati,
c’è stata una manifestazione contro e una sua ministra dell’ambiente
ha manifestato con coloro che protestavano, io ho pensatoӏ
una cosa buona, quello è un elemento di salute”.
C’è una possibilità: noi dobbiamo far crescere un’idea
di autonomia dei movimenti e anche del partito nei confronti del governo.
Il partito non deve identificarsi con il governo, deve avere una sua linea
una sua politica che trascende il governo, deve far valere interamente
la sua capacità di progetto della società.
Il governo, anche il migliore, è un passaggio un passaggio di compromesso.
Il partito deve essere in grado di illustrare la sua strategia, il suo
andare oltre, la sua capacità di comprendere quel compromesso in
un’altra crescita più grande. Per questo, autonomia e democrazia,
autonomia dei movimenti, dei sindacati, del partito come motore del processo
di riforma.
Il
programma
Che non siano chiacchiere ve lo dice il modo in cui abbiamo pensato il
programma.
C’è forse qui, compagne e compagni, il dissenso più
serio e più grave tra di noi. Io penso che l’idea che noi
abbiamo fornito della costruzione del programma sia un’idea innovativa,
coraggiosamente innovativa, sia un’idea che trae la sua origine
proprio da questa esperienza dei movimenti, dalla storia di questi nostri
anni che è venuta a compimento.
Parlo della storia dei “paletti”. Vedete, compagni e compagne,
si tratta di un linguaggio sindacale quanto altri mai, lo avrò
usato un milione di volte, sono aduso all’argomento ed al linguaggio.
L’abbiamo praticata ad occhi aperti, consapevoli dei rischi, nell’esperienza
del governo Prodi. La prima ragione di quello che ci è stato rimproverato
come un rapporto negoziale di contrattazione è che c’erano
due entità totalmente tra loro separate: il centrosinistra da un
lato, centrosinistra organico senza divisioni interne, compattissimo e
Rifondazione Comunista dall’altro, così distanti da essere
andati alle elezioni con due programmi diversi mai confrontati tra loro.
Vinciamo le elezioni e, a confermare che alle responsabilità non
ci si sottrae, noi appoggiamo dall’esterno il governo Prodi perché
altrimenti saremmo andati a nuove elezioni e io avrei voluto in faccia
quello che le avesse proposte agli italiani. Non contrattiamo il programma,
non entriamo al governo, non chiediamo per noi un posto di ministro di
sottosegretario, neanche di usciere della Rai, ragione di cui meniamo
vanto. Non abbiamo chiesto nulla, caso senza precedenti nella storia della
Repubblica, e abbiamo praticato la vicenda dei “paletti”.
Dato che il programma era il loro e non il nostro e c’era la desistenza,
abbiamo dovuto appoggiarli ed abbiamo avviato una negoziazione di volta
in volta. Ecco perché sei caduto in errori come quelli della Turco-Napolitano,
non ce la facevi a condizionare l’intero corso del programma. Ma
tu cercavi di frenarli e di mettere dei paletti.
Quali? Quelli sociali, che erano più legati alla nostra collocazione
nella società: le pensioni, la difesa del potere d’acquisto,
la riduzione dell’orario di lavoro con quella forza che si esprimeva
di critica alla condizione esistente in quel periodo. Come si è
visto, quei paletti non hanno retto perché ad un certo punto si
è prodotto un bivio: bisognava scegliere tra politiche sostanzialmente
neoconservatrici e politiche di trasformazione e, raggiunto l’ingresso
dell’Italia nell’euro, il bivio si è aperto.
Oggi noi siamo in una condizione completamente diversa: la nostra ambizione
non è quella di rimanere parenti poveri, accettati da una maggioranza
compatta con la quale scambiare dei paletti per essere riconosciuti.
Noi oggi abbiamo l’ambizione di influenzare il programma complessivo
del governo di opposizione e di alternativa. E così ci siamo mossi
e non è che lo diciamo, lo abbiamo fatto.
Trovo singolare che ci sono dei compagni che non vedono le costruzioni
di programma che abbiamo fatto, questo programma è un accumulo
di cose, di movimenti, di iniziative, la scelta dell’obiettivo.
Ne parlavo poco fa, il salario sociale. Nasce da un dibattito teso nel
movimento operaio. C’è chi dice: attenzione che è
una trasgressione, così voi in qualche modo accettate per sempre
la disoccupazione, e invece bisogna tenere una condizione che non riconosca
il salario di cittadinanza.
Si sviluppa, però, un rapporto tra l’area dei disoccupati
e il movimento operaio, si conquista questo obiettivo, facciamo una lunga
marcia per il lavoro nel Mezzogiorno d’Italia, e cresce, comincia
a crescere questa idea del salario sociale e poi converge con un’area
di movimento più radicale, quella delle autonomie, e poi c’è
una contaminazione, diventa quella una realtà sociale grande come
quella di Napoli e così si sperimenta un passaggio in Campania
in cui questo obiettivo viene, se pur parzialmente, incalzato e diventa
più grande e allora io mi dico questo è un elemento di programma
che se domani come in un sogno Niki Vendola vincesse in Puglia, allora
Puglia e Campania che si associno possono costituire un capitolo nuovo
nella storia del Mezzogiorno d’Italia, una vera e propria rinascita
che passa da questa accumulazione, che parla il linguaggio di una nuova
società che si impone non nell’attesa della vittoria contro
Berlusconi ma nella pratica nella conquista delle condizioni per abbattere
Berlusconi e la sua politica.
Pensate che occasione sarebbe per il Mezzogiorno, liberato dalle satrapie
meridionali, da questi vincoli drammatici tra le organizzazioni malavitose
e il territorio, uno spazio, non più una speranza o un sogno, ma
una chance concreta in cui quell’elemento lì che ci hai messo
dentro è che è il salario sociale diventa la possibilità
di una conquista per tutto Mezzogiorno.
Una conquista che parla il linguaggio dei giovani che dice loro: sottraiti
alla camorra perché qui ci hai un soldo per battere la tua strada
e io ti do una mano e costruiamo insieme nuove occasioni sociali.
Queste Regioni le costruiscono con il rapporto con il territorio e quella
battaglia che viene fatta a Napoli, nei confronti del governo in cui stiamo
dentro, contro la privatizzazione dell’acqua incontra la Puglia,
dove questa battaglia oggi ha già nel programma scritto il carattere
pubblico dell’acquedotto barese. Questo può diventare un
altro pezzo della nostra storia, di liberazione della terra, dell’acqua,
del cielo dall’oppressione capitalistica.
Cosa chiamate questo se non programma ?
Il programma nasce così, invece che un paletto, diventa, per questa
strada, secondo l’antica formulazione di Engels, “una bandiera
piantata nella testa della gente” e non perché gliela piantiamo
noi, perché se la prendono loro la bandiera e sale questo processo,
incontra l’Unione ed entra nell’Unione. Non perché,
quindi, Fausto Bertinotti lo implora nei confronti di Prodi, ammiccando
con Fassino ma perché entra dalla Campania, dalla Puglia, dai movimenti
e noi ce ne facciamo portatori per costruire così il programma
del popolo delle sinistre, del cambiamento e dell’Unione.
Il
movimento per la pace
Così,
cari compagni e care compagne abbiamo costruito il programma sulla pace.
Come fate a non vedere che è largamente costruito ed è avvenuto
in Italia uno spostamento gigantesco di culture, di opinioni. Pensate
alle divisioni drammatiche di qualche anno fa, agli scontri persino fisici,
pensate a cosa si è costruito dentro il crescere di una cultura.
L’emergere di una rivendicazione, il ritiro delle truppe italiane,
come ricordava ieri Franco Giordano, è entrata nelle risoluzioni
di tutte le opposizioni perché prima è stata costruita in
tutti i movimenti, poi è stata costruita non isolatamente, ma tra
noi e una parte importantissima del centrosinistra, tanto che alla Camera
e al Senato, è vero Gigi è vero Franco, avete costruito
dei raggruppamenti di diverse forze politiche e tra diverse forze politiche,
portatrici della rivendicazione di pace e di ritiro delle truppe italiane.
Così siamo arrivati a far sì che, quando si è presentato
un documento, la richiesta del ritiro fosse presentata da tutti, non perché
abbiamo fatto una trattativa verticistica, ma perché il movimento
ha influenzato il corso delle cose e perché dei soggetti politici
unitari se ne sono fatti portavoce. E siamo stati ben attenti, quando
maliziosamente dicevano: “è Bertinotti che influenza Prodi”,
a dire, come è vero, che si trattava di una sciocchezza.
In realtà, è il movimento che pervade queste culture e le
pervade anche perché c’è una parte della cultura cattolica
che è profondamente interna nei movimenti e, per un’altra
parte, profondamente influenzabile da questo corso. Vorrei ricordare che
appartiene, non alla cultura della teologia della liberazione ma alla
storia del cattolicesimo democratico italiano anche di governo, la storia
di Dossetti e di La Pira, profeti della pace e del Mediterraneo. Così,
siamo riusciti a collocare l’iniziativa per la pace e per il ritiro
delle truppe in un movimento grande, quello che il New York Times, come
ricorderete, ha chiamato la seconda potenza mondiale.
Così l’Italia è diventata l’Italia dell’arcobaleno,
l’Italia dei movimenti ed ha espresso questa egemonia, quella che
si vedeva alla Perugia-Assisi, alle molte manifestazioni, che è
diventata popolo e iniziativa fin dentro le istituzioni.
Ma, “ dentro le istituzioni” non ha pregiudicato per nulla
le iniziative più radicali.
Mentre si costruiva questa influenza, noi, non solo non abbiamo rinunciato
alla parola d’ordine (sarebbe stato poco) del ritiro delle truppe
ma abbiamo fatto con i nostri giovani il “train stopping”,
abbiamo fermato i treni che portavano le armi, abbiamo praticato la disobbedienza
della pace contro la guerra e siamo cresciuti e la nonviolenza è
entrata non solo nell’azione pratica ma nella politica e se oggi
le due Simone sono libere, cari compagni e care compagne, un po’
abbiamo contribuito anche noi con quella posizione che da qualcuno, anche
di noi, è stata considerata un arretramento, un tradimento ed era
invece la salvezza delle due Simone e la vittoria del partito della pace.
Ho sentito considerare la fiaccolata per le due Simone, quella guidata
da tre uomini di chiese diverse cristiane, islamiche, ebraiche, una cosa
che c’entrava poco con la politica. E’ un’obiezione
che ho risentito nei confronti di 500mila persone che manifestavano per
liberare Giuliana.
Così non si capisce niente, così non si capisce né
come si costruisce il programma né come si costruisce cultura politica,
non si apprezza neanche posizioni come quelle che invece ci hanno profondamente
emozionato, quella dei familiari di Giuliana, del suo compagno Pier Scolari,
del Manifesto, che sono state manifestazioni di grande politica, non semplicemente
una capacità di stabilire dei rapporti umani, ma di essere dentro
appunto questi grandi processi, ognuno per la sua parte.
Ecco perché sappiamo guardare a come ci si possa sottrarre alla
spirale guerra-terrorismo.
La
forza della nonviolenza
Abbiamo
militato e militiamo senza incertezze per la causa palestinese, per uno
Stato autonomo e libero per il popolo e per la terra di Palestina. Alla
stessa stregua, abbiamo sempre considerato come la garanzia di pace debba
contribuire alla stessa garanzia per lo stato di Israele.
Vedete, cari compagni, un compagno è venuto qui a dire con un tono
fermo e duro “io sono comunista, non sono disobbediente”.
Io non so cosa lui pensa, ma io quel che penso ve lo dico: io penso che
il pilota israeliano, il refusnik, che si è rifiutato di bombardare
in Palestina, quello è un compagno, non so se comunista ma forse
migliore di noi. E quando ho letto sullo schermo le parole che ancora
mi impressionano del disertore di Bonsvian, ho pensato a lui, ho pensato
a questo refusnik, che traduce in pratica rischiosa per la sua esistenza
le nobili parole del disertore.
A proposito di come si cambia, compagne e compagni, vorrei ricordarvi
che il finale del disertore non è sempre stato così. La
prima lezione del disertore non portava scritto e poi cantato: “venite
a prendermi che io armi non ne ho”, ma invece portava scritto: “venite
a prendermi che io so sparare”. La canzone ha avuto una evoluzione:
“venite a prendermi che io armi non ne ho” e con questo finale
è diventata famosa nel mondo e ci emozione ancora adesso.
“Venite a prenderci che io armi non ne ho” perché io
non divento come voi, io non divento la guerra, io non divento la violenza
io non divento l’oppressione, io milito per la liberazione, mia,
della classe operaia, degli immigrati, delle donne dei disgraziati attraverso
i mezzi della liberazione non attraverso i mezzi della violenza dell’oppressione
e della morte.
Per oggi e per domani questa è la nostra consegna: nonviolenza
contro violenza, liberazione contro oppressione, nuova società
contro la morte del nostro passato! E così ci siamo commossi incontrando
i parenti delle vittime palestinesi e israeliane che collaborano tra di
loro. Io vorrei che qualcuno di noi provasse a pensarci: noi facciamo
fatica a salutarci bene dopo un discorso duro da questa tribuna, ci schiviamo,
a quello gli hanno ucciso il figlio e a quell’altra gli hanno ucciso
il marito e si incontrano nella stessa stanza per discutere come si fa
a contribuire a portare la pace tra quei popoli.
Io non so se voi siete più attratti dal martire, che io rispetto,
e che si fa uccidere per quella causa. Ghandi diceva: “se da una
parte del mondo si combatte io non lo condanno, se si prendono le armi
per difendere le armi io non lo condanno, ma io sento che è anche
colpa mia se questo accade perché non siamo ancora riusciti a trasformare
il mondo in questo mondo della nonviolenza.”
Io sento la tragedia di quella ragazza che fa il martire, ma lasciatemi
dire con il rispetto e la sofferenza per quella vita, che parlano di più
del futuro le donne che a Falluja manifestavano, a rischio dei bombardamenti
e del terrorismo, per dire: liberate le due Simone. Sento quello come
messaggio per il futuro e sento in Palestina crescere di nuovo coraggiosamente
una strada di nonviolenza che non casualmente è quella che parla
di più della lotta contro la corruzione e per la democrazia e che
sente che, sì bisogna vincere la causa per il popolo palestinese,
ma devi vincerla affinché sia il popolo a prendere in mano il suo
futuro.
Tanti resistenti, tante forme diverse di resistenza: chi spara e chi vota.
Care compagne e compagni, la legittimità della resistenza è
scritta nei trattati internazionali, non c’è bisogno di prenderla
alta. Se vogliamo, però, davvero usare le maiuscole e le minuscole,
io devo dirvi che non considero paragonabile a Giovanni Pesce chi ha detto
che bisognava uccidere Giuliana perché anche lei apparteneva al
mondo dell’imperialismo. Francamente, non so fare questa vicinanza.
Sento Giovanni Pesce come mio padre e sento questa posizione come nemica
mia, come la guerra e come il terrorismo.
La società a cui tendi, quella che vuoi organizzare, è quella
cui devi guardare e allora state attenti, compagni e compagne, a non avere
posizioni troppo facili. Non è in discussione la solidarietà
con il popolo palestinese.
Tu gridi contro Sharon, ti prego di credere che lo saprei fare anche io.
Sabra e Shatila sono nella nostra memoria, potrei parlarvi addirittura
di racconti biografici di questa vicenda che toccano persino persone oggi
notissime che, indignati contro Sabra e Shatila, uscirono allora dal Partito
Comunista Italiano perché non sufficientemente capace di condannare
Sharon. Se volete sapere il nome, si chiama Giuliano Ferrara. Ciò
per dire che non mi sono dimenticato, non mi sono dimenticato di chi è
Sharon. Ma io ti chiedo, tu dove stai?
I leader palestinesi oggi negoziano con Sharon, trattano con Sharon. prova
a chiedere, non mi riferisco all’autorevolezza con cui sono presenti
compagni palestinesi, a coloro he ci sono più vicini, chiedi a
Luisa Morgantini, chiedile cosa vuol dire passare per quelle strade, prova
ad andare con lei a Kalkilia a vedere cos’è il muro, cos’è
quell’oppressione. Prova a vedere anche come vivono dentro, con
il muro, forze coraggiose che costruiscono democrazia, partecipazione.
Quel muro resiste, ma loro non si sono fatti prigionieri del muro, hanno
provato a scavalcarlo. Ci sono quei ragazzi, di cui abbiamo parlato, ma
ci sono anche quelli che devono trattare per loro e per il loro popolo.
Tu sei qui, non rischi nulla, perché devi mettere soltanto il tuo
urlo radicale contro Sharon dimenticandoti della fatica, della sofferenza
e del disagio di chi, avendo vissuto tutta la vita contro quel muro e
contro di lui, deve oggi trattare, perché la trattativa è
l’unica strada possibile per costruire il popolo palestinese ?
E’ a questa causa che tu devi guardare, alle forze dinamiche di
quella società e le devi incoraggiare.
Il
non al trattato costituzionale europeo
Posso dire che ci sono davvero delle stranezze in questo nostro partito.
Il Partito della Rifondazione Comunista è nel, Partito della Sinistra
Europea, impegnato in una grande battaglia.
In Italia, guardate come siamo dipendenti da Prodi e dall’Unione,
è l‘unico partito che ha votato contro il trattato costituzionale
europeo.
Non so se vi sembra una cosa piccola. Il trattato costituzionale europeo
è l’elemento che oggi definisce l’Europa e noi gli
votiamo contro perché privo di quei diritti di cittadinanza, sul
lavoro, per i migranti con cui vogliamo guardare al nostro futuro e perché
privo di una vera opzione di pace, perché si limita ad auspicare
la pace senza impedire la guerra.
Gli votiamo contro in nome del fatto che per, per votare una costituzione
in Europa, ci deve essere scritto quello che c’è scritto
sulla costituzione della Resistenza: l’Italia ripudia la guerra.
L’Europa ripudi la guerra ! E’ una battaglia difficile, che
vogliamo condurre insieme alle forze critiche che si sono espresse sul
trattato, magari votando a favore, contando sui Paesi dove si fanno i
referendum. Avete visto i compagni spagnoli votare su questa battaglia
e vedremo presto i compagni francesi: una battaglia difficilissima.
L’Europa che vogliamo, unici a dirlo, è un’Europa senza
esercito. Si tratta di una cosa enorme o mi sbaglio ?
C’è una propensione, quasi di pelle, a dire si all’esercito
europeo, è quasi un riflesso condizionato, prende quasi tutte le
forze di sinistra, comprese alcune forze radicali.
Noi diciamo no all’esercito e lo diciamo in nome di un’altra
costituzione europea, in nome di una cooperazione con il sud del mondo,
in nome di un rapporto con il Mediterraneo, in nome dell’innovazione
del modello di sviluppo e chiediamo così la riduzione delle spese
militari.
Cos’è questa se non una battaglia di programma, o il programma
vale solo se riguarda palazzo Chigi e invece se riguarda l’Europa
in cui viviamo non conta niente, come se la gente non vivesse ormai l’Europa
come il grande terreno di una sfida ?
E cosa dici sulla “Bolkenstain” ? Chi l’ha messa in
crisi ?
Così cresciamo, così guadagniamo un’influenza e così
contiamo nella vita di ogni giorno, come nella liberazione di Giuliana,
che salutiamo, o in questa tragedia. Siamo riusciti con le Simone e con
Giuliana e non solo noi, anche grazie alle forze dello Stato italiano,
di cui riconosciamo il contributo. Ma si sarebbe riusciti ugualmente senza
la costruzione di questo ombrello del pacifismo italiano? Questa conquista
di parole di pace, questo riconoscimento del valore delle culture degli
altri Paesi, a partire da quello del mondo arabo, consente la sconfitta
di coloro sono fautori di una sorta di “union sacrè”
dissacrata, di un’Europa in conflitto con il mondo islamico.
Abbiamo, invece, prodotto un riconoscimento del valore della cultura del
mondo islamico, delle culture esistenti nel Mediterraneo e così
si è aperto uno spazio. Oggi, di fronte ad un fatto drammatico,
non arretriamo, facciamo valere le nostre ragioni e diciamo al governo
italiano: “guardate, non vi portiamo un caso nostro, siate almeno
all’altezza di Sigonella, date almeno una dimostrazione di dignità
della Repubblica italiana nei confronti di un alleato soverchiante, che
non possiamo considerare tale quando compie un atto di questo genere.”
Camminare
insieme
Tutto questo è possibile perché è inscritto in questa
storia, perché sta dentro il rilancio di una grande iniziativa
di pace entro cui il ritiro delle truppe, non ritiro solo delle nostre
truppe, ma per forza graduale uscita dalla guerra, è il terreno
della mobilitazione di tutte le forze pacifiste.
Noi, impegnati a cambiare il mondo, dobbiamo essere in grado di salvare
una vita umana, esattamente come noi, impegnati a cambiare il mondo, possiamo
essere in grado di guadagnare una conquista parziale per te lavoratore,
per te immigrato, per te donna, per te Mezzogiorno.
Per questo, compagni e compagne, penso che dovremmo proiettare il nostro
partito nella società.
Sottraiamoci alla spirale amico-nemico dentro il partito e sottraiamoci,
non in nome delle buone maniere che tuttavia non guastano, ma perché
impegnati in questo processo di costruzione.
Il compagno Ferrando ha detto: “avete vinto ma non avete convinto”.
Lavoreremo per convincere con lo sviluppo della nostra iniziativa, della
nostra battaglia e della conquista degli obiettivi che ci diamo. Ci incoraggia
quello che guarda a noi, l’attenzione e l’interesse per tutti,
ci incoraggia anche il rispetto che noi manifestiamo nei confronti di
tutte le compagne e i compagni, tutti ugualmente militanti, anche coloro
che hanno votato contro la maggioranza. Il partito deve essere capace
di essere il luogo più accogliente che si possa immaginare; della
vecchia formula “libertè, egalitè, franternitè”,
attenzione alla “fraternità”. Dubito che si possa lavorare
per l’eguaglianza e la libertà senza dotarsi di una fraternità
o di una sorellanza.
La compagnia Cappelli ha mosso una critica a quella che lei ha definito
una bella metafora, quella del passaggio del testimone nella gara e nella
staffetta. Penso che abbia ragione nella critica alla metafora, pur bellissima.
Il suo rilievo è da accogliere: diciamo camminiamo insieme, invece
di correre.
Un cammino, così che anche il portatore di handicap, il debole,
quello che fa fatica possa camminare con noi. Non c’è bisogno
di correre, basta camminare, il cammino è lungo ma, per vincerlo,
bisogna però essere capaci di darsi la mano e condividere.
Io penso che questa condivisione venga da una radice profonda, certo dalla
storia del movimento operaio, dalla storia comunista. Ma, vorrei dire
più ancora, dall’antifascismo, dalla Resistenza, dalla lotta
contro il nazifascismo.
Che cosa era nell’animo dei resistenti, in quegli ultimi giorni,
se non “questa è l’ultima guerra”, e da questa
idea viene “mai più Auchswitz”, e poi “mai più
Hiroshima, mai più Nagasaki”.
E’ da questa idea di “mai più guerra” che viene
un lascito che è passato a queste nuove generazione, che attraverso
i movimenti oggi riprendono il cammino, quel passato ritorna in un’altra
forma e torna perché torna la barbarie che quella pagina straordinaria
sembrava avere sradicato.
C’è bisogno di riprendere questo cammino.
Ho sentito dire in un intervento che ho molto apprezzato, e non lo dico
per antica comunanza e affetto, quello di Alfonso Gianni, una testimonianza
che mi ha emozionato. Non ha parlato qui il linguaggio della nonviolenza
sulla base di una teoria politica, ha ricordato la sua storia, e io vorrei
che in questo ci fosse una connessione sentimentale tra le diverse generazioni
del partito, e vorrei ringraziare questa nuova generazione perché
ci può aiutare a diventare più dolci, più teneri
e insieme radicali e capaci di concepire il comunismo non con un omaggio
a un passato fossilizzato ma al nostro futuro, che è il futuro
dell’umanità.
Socialismo o barbarie e per questo abbiamo provato a dire parole diverse
e mi è molto dispiaciuto l’opposizione avanzata in un intervento
tra comunista e disobbediente. disobbediente, ribelle, comunista, modi
diversi di opporsi e anche di comporsi in un cammino da fare quando vivi
una crisi di civiltà.
Io francamente non riesco davvero ad accettare che non abbiamo imparato
le lezioni di queste famiglie, che non abbiamo imparato che quando le
donne ci parlano della critica del potere di una società patriarcale
nel capitalismo, parlano di una cosa di cui non possiamo fare a meno;
che quando nelle esperienze ambientaliste viene scoperta la violenza di
uno sviluppo che noi non avevamo visto; non ne possiamo fare a meno; che
quanto rinasce dopo un periodo di eclisse una critica a ciò che
il potere, ogni potere, non solo quello capitalistico ma ogni forma di
potere, ti sottrae, non possiamo non capire come questo sia indispensabile
al nostro pensare un futuro comunista.
Abbiamo imparato da Genova ad oggi, hanno detto in molti. Io penso che
abbiamo imparato l’essenziale.
Facciamo in modo che il partito si accorga di quanto è cambiato.
Quando parlo di una nuova generazione e di quella di Genova, non faccio
la retorica generazionale, non mi affido ad una età anagrafica,
parlo di un’esperienza che per fortuna è diventata esperienza
di tanta parte del partito oggi e che sarà il partito del futuro,
sarà la nuova Rifondazione comunista.
Stiamo attenti a tutti quelli che ci parlano, interlocutori, esterni,
stiamo attenti, prestiamogli attenzione. Non avremmo avuto la gioia dell’iscrizione
di Pietro Ingrao senza questa attenzione, senza questa, lasciatemelo dire,
modestia di sapere che tu ci provi ma che ce la puoi fare se anche tanti,
che in quel momento non stanno con te, sono disposti a dare una mano e
poi magari domani sono disposti ad incoraggiarti perché dicono
che forse te lo meriti e perché forse così hai mostrato
un interesse ed un’attenzione per un mondo che ti è indispensabile
come l’aria da respirare.
Vorrei dire al partito di occuparsi di Sara, di incontrarla, di condividere
con lei, di studiare con lei, di fare l’inchiesta.
Vorrei dire ai compagni e alle compagne della maggioranza, questo è
l’unico appello che rivolgo loro, non fatevi distrarre, non fatevi
rinchiudere nella replica ad una cattedra di cartapesta costruita sul
rancore, che ti vuole scomunicare dal comunismo. Non replicare, del resto
un vecchio saggio avvertiva che c’è sempre nella strada uno
che si pretende più puro di te che ti vuole epurare. Non farti
distrarre, conta di più il lavoro che fai, il lavoro politico,
incontrare un donna, un operaio, un immigrato. Fallo e, attraverso questo,
riaprirai il dialogo anche con quello che oggi nel partito ti è
ostile. Non replicargli militarmente, vale fuori la nonviolenza, vale
anche dentro, facciamo prevalere il dialogo, il confronto.
La maggioranza ha una responsabilità particolare ha la responsabilità
di portare l’intero partito sul fare, sul lavoro, sulla trasformazione
e su tutto ciò dislocare un confronto produttivo.
Io vi auguro che parlando di noi con rispetto e con un pizzico di invidia,
non ieri ma domani, quello con cui ti sei incontrato possa dire ecco,
quello è un comunista. Per farlo devi sottrarti alla pulsione di
diventare come quello che ti vuole inchiodare al tuo passato, devi essere
in grado di costruire la strada della liberazione e in questa strada si
può anche perdere compagne e compagni fuori e dentro il partito.
C’è una cosa di Rosa Luxemburg che, forse perché di
sconfitte ne ho conosciute più d’una, mi ha sempre affascinato,
spero non sia semplicemente un tranquillante. Diceva “ci sono sconfitte
del movimento che valgono più di cento vittorie proclamate dai
comitati centrali”.
Abituarsi all’idea che si possa essere sconfitti, io sento come
sconfitta la violenza del dibattito che ha attraversato certe fasi di
questo nostro congresso, la sento come una sconfitta personale. Ma appunto,
ci sono sconfitte da cui puoi imparare, specie se sei in un congresso
che parla al futuro, come che Michele, in questo suo penultimo intervento,
ci ha molto incoraggiati.
Io, da questo incoraggiamento, traggo una sola conclusione, che qualcuno
domani, se si ricorda di me, possa dire: era un comunista.
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