Contributo Conferenza d'Organizzazione 2015
La conferenza di organizzazione rappresenta un’occasione per affrontare una discussione sul partito, sul suo stato e la sua adeguatezza. Per questo è necessario che tutti vi partecipino con atteggiamento costruttivo, con un autentico spirito di ricerca e senza reticenze. In conformità a tali considerazioni, sia nella commissione preposta a preparare la conferenza, sia nella direzione nazionale, abbiamo ritenuto opportuno evitare di presentare un documento alternativo per non replicare deleterie dinamiche congressuali e lasciare che la discussione si sviluppi – come detto – senza diplomazie, ma anche senza logiche precostituite. Ora, nell’avvio della discussione nelle strutture del partito, sentiamo necessario esprimere, con il presente contributo, alcune riflessioni sull’impostazione della conferenza e sulla proposta che ne sta alla base. In premessa, pur considerando imprescindibile l’obiettivo di un’aggregazione di tutta la sinistra di alternativa (tutto lo spazio a sinistra del Pd), confermiamo la nostra valutazione negativa sulla precipitazione organizzativa prefigurata dall’assemblea dell’Altra Europa con Tsipras tenutasi a Bologna il 21 gennaio scorso, in quanto, per un verso, mette capo a un soggetto parziale e debole (comunque non certo più solido di quanto non sia oggi una Rifondazione di per sé già estenuata), inconsistente dal punto di vista del radicamento di classe, politicamente incerto su temi decisivi (come quelli internazionali, a partire dal tema della guerra nel cuore dell’Europa); e in quanto, per altro verso, non garantisce nell’ambito della suddetta aggregazione l’autonomia politica e organizzativa dei comunisti.
L’elemento rimosso: lo stato preoccupante del partito e le relative responsabilità soggettive
Il documento presentato dal gruppo dirigente pone svariate questioni, sia sul piano analitico, sia su quello propositivo. Balza tuttavia agli occhi, in primo luogo, una rimozione fondamentale, dalla quale poi si snoda l’analisi. La rimozione riguarda la valutazione dello stato del partito, dei suoi limiti e della relazione che sussiste fra tali limiti e la pratica politica e sociale promossa in questi anni, mentre le ragioni della crisi del partito vengono attribuite alle cause esterne oggettive. E, infatti, il documento muove da qui. Su questi aspetti naturalmente un approfondimento è d’obbligo, ma il punto sul quale bisogna interrogarsi è il seguente: le novità intervenute nel contesto sono sufficienti a spiegare la crisi in cui versa il partito? Noi pensiamo di no.
Necessario e urgente è – a tale proposito – individuare la dimensione della crisi del partito e le cause della stessa, che vanno attentamente indagate. Qual è la dimensione del tesseramento al 2014? A noi risulta che allo stato attuale il calo d’iscritti sia generalizzato rispetto al 2013, anno in cui già si era raggiunta una soglia molto bassa (23000 iscritti). Non solo, gran parte delle federazioni non hanno ancora comunicato il dato conclusivo, il che la dice lunga sullo stato dell’organizzazione. Se si considera indicativamente la percentuale 2014 sul 2013 delle federazioni che hanno fornito dati, la perdita ammonterebbe a qualcosa come circa un terzo degli iscritti 2013. Ma non basta. Moltissimi circoli sono stati chiusi o più spesso si sono ridimensionati al punto da non essere più in grado di svolgere un’attività politica efficace sul loro territorio e di aver raggiunto dimensioni inferiori a quanto definito statutariamente. La presenza del partito nei luoghi del conflitto si è ristretta anziché ampliarsi. Il rapporto con il sindacato si è drammaticamente ridotto. E’ venuta meno una solidarietà complessiva e sono emerse logiche di gruppo non sempre su basi politiche. E, infine, a tutto ciò ha corrisposto un calo della democrazia interna, con l’assenza di verifica dell’operato dei gruppi dirigenti, la crescente centralizzazione, il predominio, nella catena decisionale, di logiche correntizie spesso di maggioranza.
Perché ciò è avvenuto? E’ avvenuto perché il contesto è mutato? Sì anche per questo, ma non solo. Errori sono stati commessi e molto seri. Certo il problema non è recente. Nel lungo periodo le cause discendono da più fattori: dalla mancata formazione di una cultura politica omogenea, da un impegno sempre molto scarso sul consolidamento delle strutture di base, da uno stile di direzione poco inclusivo e unitario (sull’onda del quale si sono moltiplicate le scissioni), da un impegno inadeguato - e comunque poco strutturato - alla costruzione della presenza nelle organizzazioni di massa, da una linea ondivaga oscillante fra l’alleantismo e minoritarismo, da un rapporto con i movimenti equivoco, dall’emergere di una torsione istituzionalista sempre più pronunciata. Nell’ultima fase, però, quella che si snoda dal congresso di Chianciano a oggi, la crisi è letteralmente precipitata con un calo drammatico degli iscritti (oltre a quello degli elettori). Alle origini di questa precipitazione, accanto alla scissione di chi poi ha aderito a SEL, segnaliamo: l’insufficiente comprensione delle novità della fase, lo scarso impegno nell’adeguamento e nel rinnovamento del partito e del suo gruppo dirigente, la concentrazione di tutte le energie nelle operazioni tattiche di costruzione di alleanze senza un impegno adeguato per ricostruire un consenso reale nella società, una pratica di movimento in larga misura codista, a rimorchio delle organizzazioni sociali, e infine (da ultimo, ma non meno importante) uno stile di direzione escludente e poco democratica.
Le cause esterne e i limiti del partito
Ma veniamo alle motivazioni riportate nel documento. Se è vero che le politiche liberiste, minando la tenuta stessa della coesione sociale, attraverso la diffusione di un individualismo di massa, hanno eroso le basi della costruzione del consenso, è altrettanto vero che questi mutamenti in corso da molti anni non sono stati valutati nella loro drammaticità, né hanno comportato un adeguamento significativo delle pratiche politiche. Si pensi all’assenza di un lavoro organizzato sul fronte del lavoro e di un impegno adeguato nell’attività sindacale, alla mancanza di un intervento sul precariato o di un’iniziativa sul pubblico impiego, sempre più bersagliato dai tagli allo stato sociale e dai processi di privatizzazione e di aziendalizzazione. E anche quando alcune esigenze sono state percepite, è stata clamorosa l’incapacità di costruire un’iniziativa strutturata, sintomo di una difficoltà grave nella costruzione di pratiche comuni e nell’allargamento della struttura organizzativa.
Nello stesso tempo, attribuire un ruolo rilevante al degrado della vita pubblica accompagnatosi ai noti fenomeni di corruzione, ha senso per segnalare uno dei motivi del distacco generale dei cittadini dalle istituzioni e dai partiti, ma non appare così decisivo nel giustificare la crisi in cui versa il nostro partito. Semmai, anche se vi sono state singole iniziative del partito sul terreno della moralità (vedi il referendum sui vitalizi regionali), è mancata una proposta complessiva in grado di raccogliere il disgusto di massa, evitando che questo approdasse – come è spesso avvenuto – in un rifiuto qualunquistico della politica. Sarebbe stata necessaria una proposta di risanamento della politica, che per esempio ridefinisse tutta la partita del sostegno pubblico in una chiave effettivamente pluralistica e non come privilegio del solo sistema dei partiti (e peraltro di pochi fra questi). Per questo occorreva superare con decisione la logica del sostegno monetario ai partiti, non controllabile, sostituendolo con servizi gratuiti all’attività politica. Insomma, occorreva ripristinare un principio generale d’igiene politica e farlo vivere nell’iniziativa di massa.
La questione della crisi della forma-partito e del suo conflitto coi movimenti va affrontata con grande attenzione. Nel caso di Rifondazione Comunista questa critica francamente ha poco fondamento, dato il carattere assai poco strutturato del partito, e una sua propensione all’interlocuzione con i movimenti difficilmente contestabile. Rifondazione Comunista ha peccato casomai nel senso opposto e cioè ha rinunciato, in nome di un malinteso rispetto dell’autonomia dei movimenti, a svolgere un proprio ruolo significativo, finendo con l’essere relegata al ruolo di portatore d’acqua, peraltro poco apprezzato. Le vicende referendarie sono da questo punto di vista assai indicative. Occorreva, all’opposto, una pratica sì interna ai movimenti e limpidamente unitaria, ma nel frattempo tesa alla salvaguardia e alla valorizzazione della propria autonomia. Paradossalmente, ciò che è mancato al partito è un orizzonte egemonico, e in particolare la capacità di definire i temi e le proposte dell’agenda politica e di prospettare risposte convincenti e caratterizzanti. Le attuali ostilità di alcuni soggetti impegnati nella costruzione del nuovo soggetto della sinistra, manifestate anche nei confronti di Rifondazione comunista, non sono solo il frutto di una cultura politica assai fragile, ma nascono anche dall’assenza di un ruolo forte di Rifondazione Comunista.
Il partito di massa non è da rottamare.
Il problema fondamentale che ora si pone, è l’indirizzo da assumere per intervenire sulla crisi del partito. Il documento della conferenza parte da un presupposto e, cioè, la fine del partito di massa e in particolare dell’esperienza del PCI. Quest’assunto appare per alcuni versi scontato, se si osserva l’evidente modifica del contesto sociale e politico intervenuto negli ultimi decenni. Peraltro, del fatto che fosse necessario praticare una discontinuità rispetto all’ultima vicenda del PCI, erano ben consapevoli i compagni che diedero vita all’esperienza di Rifondazione comunista. E, tuttavia, non è lecito buttare a mare con troppa facilità l’esperienza del partito di massa e in particolare di quella maturata nel PCI. Per esempio, se è vero che, all’epoca del PCI, le sezioni di fabbrica nascevano per rispondere alle esigenze di una classe spesso concentrata in grandi unità produttive e più omogenea di quanto non sia oggi, è altrettanto vero che sul piano territoriale la sezione non beneficiava sempre di una particolare omogeneità sociale e il radicamento fu conquistato tenacemente operando congiuntamente sul piano delle lotte sociali e della battaglia istituzionale. Questa modalità ha dato a tutti una lezione fondamentale su come si costruisce il consenso sul territorio.
Ma la questione fondamentale è che il PCI disponeva anche di altri mezzi per consolidare la sua presenza di massa. In particolare, era radicatissimo nel sindacato, i suoi iscritti militavano in grandissime organizzazioni che spaziavano dall’artigianato, al commercio, alla cultura, ecc. Quest’ aspetto è di grande attualità. Come si fa in una fase di crisi a promuovere una ricomposizione sociale se non si costruisce un intervento in organizzazioni di massa già radicate? Il PCI ci lascia quindi un’eredità importante e il partito di massa non può con disinvoltura essere rigettato senza comprendere gli elementi vitali di quell’esperienza. Non si è trattato solo di una modalità organizzativa complessa che ne consentiva il pieno adeguamento alla realtà sociale, ma anche di una vocazione che emanava da una cultura politica. “Il partito di massa”, prima che nel numero dei suoi iscritti, s’identificava in un atteggiamento egemonico che guardava ai grandi aggregati sociali. Nel momento in cui Rifondazione si pone giustamente in esplicita alternativa al PD, se non assume come riferimento quest’ orizzonte, rischia di chiudere la necessaria e netta alternativa di classe in una funzione marginale.
Il rinnovamento del partito non si riduce alle sole pratiche sociali.
Il problema fondamentale del documento posto alla discussione della conferenza di organizzazione sta nella sua evidente parzialità. Questa parzialità, in effetti, rischia di delineare un modello di partito inadeguato a svolgere quella funzione egemonica che in altre parti di quel documento viene evocata. In particolare, tutta la proposta d’intervento sociale e di radicamento ruota intorno all’assunzione del “partito sociale” come riferimento guida. Ora, nessuno nega che il mutualismo e le varie pratiche di solidarietà sociale possano svolgere una funzione importante, specie nelle fasi di crisi. Il punto, tuttavia, sta nel carattere totalizzante di tale proposta che trascura elementi fondamentali per la ricostruzione di un radicamento sociale. Il primo aspetto riguarda la presenza nel sindacato e fra i lavoratori. Quest’ aspetto è sostanzialmente trascurato nel documento, quasi che la ricostruzione di una presenza sindacale adeguata non sia oggi una delle questioni centrali. Ne discende un’impostazione complessiva che tende a smarrire nella pratica - più che nelle enunciazioni – la ragion stessa di un partito comunista, e cioè la rappresentanza, in primo luogo, del mondo del lavoro e il riconoscimento della sua centralità, elementi che rimandano a problemi di collocazione sociale del partito, all’ efficacia della sua battaglia di opposizione, al suo carattere di classe.
L’altro grande rimosso, nel documento, è il terreno istituzionale. Qui, davvero, si rischia di ingenerare nel partito un equivoco di fondo, per il quale i vizi di elettoralismo vengono scambiati con la sottovalutazione del ruolo essenziale della contesa istituzionale, della battaglia, cioè, condotta “contro” e “dentro” le istituzioni. La stessa idea di partito sociale ne esce molto impoverita. E’ possibile in sede locale, dare una valenza politica all’iniziativa mutualistica se, in contemporanea, non si affronta il nodo del welfare locale e, quindi, dei compiti demandati alle istituzioni nel fronteggiare il disagio sociale? Peraltro, esperienze molto valorizzate nel partito in tema di partito sociale, non si sono spesso saldate con un’iniziativa importante anche a livello delle istituzioni locali? In realtà, nei contesti locali un intervento efficace implica affrontare, in contemporanea, il nodo del reddito, dei servizi e della partecipazione democratica. In assenza di questa interconnessione, le pratiche di partito sociale possono essere meritorie, ma rischiano di determinare scarse ricadute politiche. La questione delle istituzioni e delle politiche può in un partito comunista essere derubricata a questione secondaria? Di fronte alle vicende quotidiane, al ruolo sempre più rilevante delle politiche economiche e sociali è perfino superfluo ripetere che un partito, per dirsi tale, deve assumere questo terreno d’intervento. Perché non lo si fa? Come non constatare, in proposito, che la flagrante assenza del terreno istituzionale sia da ascrivere al fatto che, assieme alle scelte elettorali, si punti a delegare tutta la partita istituzionale al nuovo soggetto della sinistra? Così, da dietro un’apparente intransigenza nei confronti del politicismo e degli inciuci elettorali, in nome del sociale e del radicamento del partito, emerge paradossalmente la sottrazione al corpo del partito di un pezzo rilevante dell’azione politica.
Il partito va riorganizzato, non reso evanescente.
L’indebolimento dell’organizzazione è tale che l’esigenza di una selezione dei compiti si pone a tutti i livelli. Per questo un’organizzazione per progetti è praticamente indispensabile. In questo la puntualizzazione contenuta nel documento coglie un elemento di verità, in particolare per quanto riguarda il lavoro dei circoli, ma nelle istanze di livello superiore essa pone dei problemi se non si salda a un minimo di organizzazione per settori. Certamente non è possibile pensare di riproporre tutti i dipartimenti che fino ad ora hanno costituito il modello organizzativo, occorre certamente un forte accorpamento, ma l’eliminazione tout court della struttura dipartimentale rischia di far prevalere una modalità organizzativa talmente informale da comportare una scarsa capacità di direzione politica e un profilo evanescente del partito, facendolo diventare il puro riflesso del contingente, anziché un soggetto capace di un punto di vista complessivo. Il punto, quindi, è quello di individuare alcune grandi priorità generali su cui incardinare pochi settori di lavoro e, all’interno di questi, gestire dei progetti. In tal senso esistono alcune priorità. Una è quella del lavoro-sindacato, un’altra è quella del sociale-welfare, un altro ancora è quella della cultura-formazione, Esiste poi un’esigenza non eliminabile: quella di garantire la funzione organizzativa. Ma si può, per esempio nel livello centrale, non disporre di un minimo di struttura dipartimentale sulla politica internazionale, data l’importanza straordinaria che questa sta assumendo?
I vari livelli dell’organizzazione - circoli, federazioni, regionali e centro nazionale - assolvono a funzioni diverse. E’ certamente vero che la sovrapposizione delle stesse funzioni ai diversi livelli risulta complessa e poco realistica in una situazione di così accentuata crisi organizzativa, occorre, però essere molto precisi circa l’attribuzione delle competenze. E’ chiaro, ad esempio, che la dimensione istituzionale non può essere scorporata dall’attività del partito e ciò vale in primo luogo a livello dei circoli, del regionale e del nazionale, avendo perso invece le federazioni, il loro corrispettivo istituzionale nelle province, organo di fatto ampiamente superato. Se pertanto le federazioni possono privilegiare la costruzione dell’iniziativa e funzionare da coordinamento delle iniziative dei circoli, oltre che da motore per il reinsediamento del partito sui territori, nel caso dei circoli territoriali il terreno delle politiche amministrative (anche se non può essere considerato l’unico ambito d’intervento) non può comunque essere dismesso, così come non può esserlo quello del terreno legislativo, nel caso delle regioni. Esiste, tuttavia, un problema fondamentale e riguarda il funzionamento complessivo della struttura organizzativa. Nel corso degli ultimi anni il processo di accentramento decisionale nelle istanze nazionali è cresciuto a dismisura. Occorre un sano ribaltamento di questa logica restituendo alle strutture di base poteri, ruoli e un’autonomia maggiore.
L’autonomia e la centralità del partito sono le condizioni per il suo rilancio
Riflettere sul modello organizzativo non ha molto senso se da subito non si affronta il nodo del calo drammatico degli iscritti. Ciò significa l’esigenza di una campagna di proselitismo; ma questa, in ultima analisi, dipende dalla percezione a livello di massa di cos’è il partito, di quale sia il suo ruolo. E qui si palesano dei nodi politici essenziali. Il primo è che non basta sostenere che il partito resterà in piedi, pur all’interno di una nuova aggregazione di sinistra alternativa, se il modello organizzativo di tale aggregazione ne costituisce un impedimento. Dovrebbe essere chiaro a tutti che tesseramento al partito e contemporaneamente all’aggregazione di sinistra (il doppio tesseramento) sono assai difficilmente conciliabili. Pongono enormi problemi organizzativi e, nell’immediato, rischiano di accelerare la caduta del tesseramento al Prc. Non solo, la militanza in un partito ha senso quando questo ha una sua visibilità e un ruolo riconosciuto. Ciò è possibile fintanto che le aggregazioni si costruiscono sulla base del riconoscimento delle individualità che le compongono, ma quando hanno la pretesa di “attingere” da tali partiti per ricostruire una nuova organizzazione finiscono per delegittimarli. Non solo, nello stato di crisi in cui versa il partito, se non si promuove un processo di nuove adesioni favorendo la convergenza di altre forze che condividono la scelta comunista, vi è il rischio che non esista la massa critica necessaria a mantenerlo in campo.
Certamente l’autofinanziamento costituisce un compito essenziale. Benché il finanziamento pubblico alla politica costituisca una risorsa per la democrazia e dunque vada considerato necessario, è evidente che vi è stata in passato un’enorme sottovalutazione di questo tema. Ciò detto, pensare di risolvere il problema della carenza di risorse, attraverso una contribuzione più regolare da parte degli iscritti appare del tutto insufficiente. La ragione banale sta nel fatto che un partito in cui la militanza si riduce e con essa il numero d’iscritti, non è in grado di far fronte a un autofinanziamento credibile. Il punto, allora, sta da un lato in una modalità di finanziamento che allarghi oltre al contributo dei singoli iscritti il reperimento delle risorse. Non considerare forme più ampie di finanziamento (dalle feste a iniziative fra le più varie) significa gravare interamente su un corpo politico già esausto. In secondo luogo, ed è l’aspetto fondamentale, solo un partito in cui torna la voglia di militare può affrontare il tema dell’autofinanziamento con un minimo di possibilità. E qui torniamo alle questioni precedenti. Se un partito perde la sua visibilità, se il suo ruolo si riduce, se la sua autonomia è fortemente condizionata, se i suoi campi di azione si restringono, è gioco forza che tenda a perdere la sua funzione di polo attrattore e inevitabilmente a perdere militanza.
Il deficit di democrazia: il primo nodo della riforma del partito
La questione democratica è la prima delle questioni, perché un deficit democratico esiste in Rifondazione comunista. Esso parte dall’alto, dall’incapacità di garantire una gestione unitaria del partito. Emblematico è nella fase attuale il ricorso sistematico alla pratica del commissariamento, spesso con motivazioni ingiustificate. Episodi recentissimi hanno evidenziato un uso anomalo e preoccupante di questo strumento, non per supplire a carenze oggettive del partito o per ricomporre fratture, ma per determinare modifiche degli equilibri politici interni, escludere dai gruppi dirigenti pezzi importanti del partito, precostituire le condizioni per controllare le rappresentanze istituzionali. E’ questo il riflesso di una logica maggioritaria che si fonda sul controllo sistematico dei punti cardine dell’organizzazione. Questa prassi non ha nulla a che fare né con la democrazia, né con il centralismo democratico. E’ solo un brutto vizio che tradisce una cultura politica minoritaria. Da sempre la forza dei partiti, lo fu in particolare per il PCI, è stata la capacità di ricomporre fratture e preservare l’unità. Lo stesso centralismo democratico, al di là delle storture che ha subito nel tempo, muoveva dal presupposto che ogni posizione nel partito dovesse concorrere alla sua gestione. Da tempo non è più cosi. Non solo, le strutture di base del partito hanno visto progressivamente perdere una capacità d’influenza, finendo con l’essere punti terminali delle correnti organizzate centralmente. La soluzione del problema democratico richiede, dunque, da un lato il superamento delle gestioni maggioritarie e, dall’altro, la crescita dei poteri delle strutture di base, in special modo nel loro pronunciamento vincolante, in tutti i passaggi decisivi delle scelte del partito.
Aurelio Crippa
Gianluigi Pegolo
Bruno Steri