Contributo Conferenza d'Organizzazione 2015

Documento del circolo della conoscenza di Roma sulla conferenza d’organizzazione del PRC 2015

Una conferenza d’organizzazione che non producesse uno scatto in avanti dell’insieme del partito, per essere in grado di affrontare la difficilissima fase politica che stiamo attraversando, sarebbe un’occasione perduta.
Il documento elaborato dal gruppo di lavoro nazionale non risponde, a nostro parere, a questa esigenza, non solo per carenza nell’analisi della situazione politica, sociale e culturale del paese, ma anche per una insufficiente analisi della situazione del partito e quindi delle proposte organizzative che ne derivano. Riteniamo dunque di non sottoporlo al voto del circolo, ritenendolo uno dei contributo alla discussione.

Confidiamo nei contributi che verranno dalla discussione diffusa e da una riflessione più attenta dei gruppi dirigenti a tutti i livelli, per il superamento di un’impostazione che non accoglie nella sostanza la proposta politica dell’ultimo congresso.

Pensiamo innanzitutto che si poteva tentare il “rovesciamento della piramide”, iniziando dal raccogliere le esperienze e le riflessioni dei circoli facendo discutere in questo modo tutto il partito in base a una più libera griglia di problemi e temi proposti dalla direzione, per arrivare alla conferenza nazionale come momento di sintesi politica.

Proviamo, come circolo della conoscenza a portare un contributo di riflessione e ad avanzare alcune proposte.

Il rilancio del PRC è indispensabile per la ricostruzione di un soggetto politico della sinistra, di cui Rifondazione Comunista può essere il motore e il garante di una linea politica antiliberista. Pensiamo quindi che mai come in questo momento il rilancio organizzativo del partito sia fondamentale, ma che esso non possa essere separato da un rilancio del progetto della Rifondazione comunista e da un processo di riflessione e di elaborazione sulla “rifondazione” e sul “comunismo” oggi.

Il modello organizzativo del PCI funzionava non tanto o non solo perché non si doveva confrontare con quella frantumazione sociale che ha subito una formidabile accelerazione proprio a seguito del suo scioglimento, quanto perché il suo popolo condivideva ideali, una cultura, una politica che alludeva a un progetto di società. Ma questo è stato possibile perché mai si è scisso il momento politico da quello sociale e da quello culturale ed elaborativo. Questo pensiamo sia uno dei punti di fondo.
Anche per questo riteniamo che sia non solo necessario ma indispensabile un livello nazionale del partito, pena la frantumazione territoriale in nome di una falsa concezione democratica. Pena la rinuncia al ruolo di elaborazione unitaria di un progetto di cambiamento della società.

Pensiamo che uno dei limiti della pur generosa esperienza di Rifondazione Comunista, sia stato proprio quello di aver sottovalutato quella condivisione che caratterizzava il Pci, che non escludeva un sano pluralismo, ma non era ostaggio di cristallizzazioni correntizie, che nel PRC hanno ostacolato il confronto orizzontale e verticale, una crescita comune all’altezza delle dure sfide che il partito si è trovato ad affrontare, una fisionomia organizzativa libera da ricatti di componenti che l’hanno resa inefficace e inconcludente.

La vita dei circoli è stata spesso, e lo è ancora in parte, dimensionata prevalentemente sulle elezioni amministrative, concentrata spesso in discussioni tutte interne, riuscendo raramente a lavorare per costruire conflitto sui territori, a impegnarsi su questioni specifiche nell’intreccio virtuoso tra dipartimenti nazionali e territori.

I gruppi dirigenti e il partito nel suo complesso non sono stati coinvolti in un confronto specifico su temi strategici come quelli ambientali, culturali e persino del lavoro, in modo da acquisire se non competenze vere e proprie, almeno un orientamento comune che impedisse una babele all’interno e all’esterno.

Su questo servirebbe uno scatto, un modo diverso di lavorare e rapportarsi tra tutti noi.

Il lavoro per progetti è sicuramente utile se coinvolge gruppi di circoli o di federazioni o reti nazionali di settore, che vanno ricostituite o potenziate soprattutto con una legittimazione (che significa riconoscimento del lavoro di chi le coordina) da parte degli organismi dirigenti.

E’ evidente che per non disperdere queste o altre esperienze bisogna che vengano raccolte dai dipartimenti di lavoro nazionali, affinché possano diventare contributi per l’elaborazione collettiva del partito. I dipartimenti nazionali, o come si voglia chiamarli, dovrebbero essere i punti di riferimento dei lavoratori, delle competenze e degli intellettuali operanti nei diversi settori ed essere così luoghi di elaborazione collettiva delle politiche settoriali; dovrebbero lavorare su programmi e progetti periodicamente verificabili e verificati e avere momenti di confronto regolari con la segreteria nazionale che ne riassume le responsabilità.

Inoltre, come circolo della conoscenza riteniamo nostro dovere iniziare una riflessione sul ruolo del circoli tematici e sulla cultura in generale e su come ad essa si fa riferimento nel documento.

I circoli tematici – perlomeno per quello che attiene alla nostra esperienza – possono avere una funzione molto utile nel riuscire a coinvolgere e ad avvicinare al partito compagni coinvolgendoli su temi ed iniziative che riguardano più da vicino la loro attività professionale e
che probabilmente sarebbero meno disponibili a lavorare a livello territoriale.
In particolare nei piccoli centri possono svolgere un ruolo molto importante di supporto al lavoro delle federazioni. Nelle grandi città invece dovrebbero costituirsi quantomeno in ogni municipio in modo da poter intervenire sui problemi e sulle tematiche di quel territorio.

La cultura.
Riteniamo carente in tutto il documento il riferimento – anche nella parte analitica storico-politica – allo “stravolgimento” culturale avvenuto nel nostro paese: dalla cancellazione della memoria storica (il movimento operaio e le sue organizzazioni) alla diffusione quasi capillare di un “pensiero unico” che anni di berlusconismo e di “veltronismo” hanno pazientemente costruito. E, di conseguenza, che non sia neanche posto il tema di come, anche dal punto di vista organizzativo, il partito nel suo insieme possa e debba lavorare sia per la ricostruzione della memoria sia per la costruzione di un “nuovo senso comune”.
Riteniamo una grande lacuna del documento il fatto che non ci sia neanche un accenno, quantomeno nella parte analitica, alle politiche messe in atto in questi ultimi venti anni da tutti i governi – compresi quelli di centro-sinistra – di mercificazione e privatizzazione dei saperi, della conoscenza e della cultura e di tentativo di smantellamento del ruolo dello Stato in questi settori. E come tutto questo non solo abbia contribuito alla formazione di quel “pensiero unico” di cui parlavamo, ma anche costituito un grave impedimento per una piena democrazia e una reale partecipazione.
Riteniamo invece molto grave che nel documento si parli di cultura solo nel paragrafo che riguarda la formazione e per dire che “diventa una cosa seria solo se appartiene tendenzialmente a tutti/e come strumento della propria auto-liberazione”. Si contraddice in questo modo un punto politico mai finora messo in discussione: la cultura come strumento fondamentale di crescita individuale e collettiva, come strumento fondamentale di formazione di una coscienza critica, come strumento fondamentale per interpretare la società, come elemento fondamentale di democrazia. La cultura come diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione. Quindi “cosa serissima”. Di per sé.
Così come è grave che si parli di una “nostra autonoma cultura”, di una “nostra tradizione culturale” fatta… anche di arte e di letteratura”. Vuol dire che esiste un’arte comunista? Ci auguriamo di aver capito male, che si tratti di una espressione semplicemente infelice. Non sta certo a un partito politico definire cosa è cultura e cosa no, ma quali politiche mettere in campo per la cultura e per i lavoratori della cultura.
Infine, ma non certo meno grave, che si dica che in questo “nostro” concetto di cultura c’è anche il “saper fare” che per noi comunisti comprenderebbe anche i “saperi della cucina patrimonio di tante donne”.

Roma, 26 febbraio 2015


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