Partito della Rifondazione Comunista
Conferenza nazionale d'organizzazione 2007

Comunicazione alla Conferenza d’Organizzazione Carrara 29 marzo 1 aprile.
Elisabetta Piccolotti – Portavoce nazionale Giovani Comunisti/e

Oggi mettiamo al centro della nostra discussione la possibilità della trasformazione dell’esistente: la crisi della politica e della rappresentanza è infatti lo snodo centrale per ripensare l’efficacia e l’attualità della nostra proposta politica agli inizi del nuovo millennio. Le fratture dell’immaginario nell’epoca della globalizzazione neoliberista allo stesso tempo determinano e simbolizzano fratture sociali, faglie aperte nelle relazioni fra gli individui e la propria identità, nella relazione tra l’io e l’altro, nelle aggregazioni sociali sempre più mobili ed evanescenti. Le forme della politica si articolano in un tempo che appare sempre più come quello del non più, il non più del ‘900, dei concetti e degli arnesi teorici della modernità e il non ancora di un’incompiutezza che ci costringe fortunatamente alla ricerca continua, alla sperimentazione, a mettere in gioco pratiche e analisi, a utilizzare linguaggi e parole nuove, ricostruite nella relazione con il presente.

L’immaginario dell’adolescenza della mia generazione parlava la lingua morta del pensiero unico: quella della riduzione a tecnica della politica e delle forme di vita stesse. Due diversi eventi hanno incrinato quel pensiero, l’irruzione dei corpi nello spazio pubblico ha accumunato entrambi: prima i corpi avvolti in protezioni di gommapiuma, i corpi nelle strade e nelle danze, il corpo esanime di Carlo durante le straordinarie e drammatiche giornate di Genova e solo qualche settimana più tardi i corpi i volo davanti agli specchi delle torri gemelle e i corpi che si fanno esplodere nel giorno dell’11 settembre 2001.

Ancora oggi quei due eventi si contendono lo spazio dell’immaginario e della politica. Anche le paure e i nostri desideri si strutturano secondo i significati sociali e la politica deve rispondere, pena la stessa sua possibilità di darsi, di quelle paure e di quei desideri. La ristrutturazione radicale dei processi produttivi, dal fordismo al post-fordismo, non soltanto ha mutato le condizioni di costruzione dell’identità sociale ma hanno cambiato la natura e le forme del conflitto sociale. Non le hanno trasformate in maniera definitiva, hanno prodotto un mutamento continuo, un una processualità che non si fa mai trovare dove ci si aspetta ma mette sempre al centro il ripensamento dei caratteri fondativi della democrazia, nello stesso momento in cui tematizza l’insostenibilità del modello neoliberista e l’esigenza irrimandabile di una trasformazione radicale. Dagli assedi e i controvertici per contestare le nuove forme del potere, sempre più economiche, sempre più diffuse e celate, alle manifestazioni pacifiste, fino ai conflitti che hanno fatto cambiare segno ad una parola, la comunità, che era entrata nel pensiero delle destre per uscirne incontrando il nesso con la partecipazione. Una critica che si manifestava in carne ed ossa al cuore della sovranità.
E’ per questo che è in questo campo attraversato da tensioni che vive oggi la ricerca sulle forme e sull’organizzazione della politica, su un collettivo di uomini e donne a cui abbiamo deciso di dare la forma di partito.

Abbiamo bisogno di una miriade di strumenti nuovi, di nuove cassette degli attrezzi che sappiamo sviscerare l’ambivalenza delle parole che troppo spesso utilizziamo dando per scontato significati e significati che hanno perso il mordente sul reale. Come scriveva Wittgestein gli attrezzi del nostro linguaggio devono essere connessi con una pratica, un uso: svitare un bullone con un cacciavite è semplicemente impossibile. La sinistra del nuovo millennio deve reinventare se stessa. Abbiamo intrapreso la strada ormai da qualche anno: il partito della Sinistra Europea, l’assunzione della molteplicità delle culture delle sinistre, la sperimentazione di un nuovo agire, la riflessione sulla non-violenza, la democrazia dei generi, l’ambientalismo e ancora tanti altri rivoli e percorsi che ora debbono farsi materialità, che oggi abbiamo il compito di far incidere sulle nostre forme organizzative.

Questa ricerca deve innanzitutto interrogare l’esistente, scandagliarlo se possibile, evitando di incagliarsi sugli scogli della separatezza e dell’autoreferenzialità della politica. Deve interrogare il passato, la storia e la memoria, e il futuro, l’immagine e la possibilità dell’alternativa. Deve interrogare il potere, le sue strutture, le sue diramazioni sociali. Deve anche e sopratutto criticare il potere, abbandonarne le fascinazioni, saper leggere le distorsioni che il potere agisce sul pensiero e sulla pratica. Deve mettere a critica le relazioni tra di noi e le relazioni tra il partito e la società. Abbiamo come punto di partenza un documento coraggioso per fare tutto ciò. Coraggioso perché non teme la critica anche di noi stessi, coraggioso anche perchè mette a tema la necessità di andare oltre il rito della politica, senza temere di scardinare la forza con cui quel rito presiede e difende l’identità e l’appartenenza collettiva. E’ alla radice che guardiamo, perché sia possibile realmente spostare il fine e l’obiettivo fuori di noi e dare spazio in quello spostamento alla creatività della politica, alla riconfigurazione dell’agire collettivo, alla contaminazione con le diversità, alla deflagrazione della differenza.

Ho imparato dal pensiero delle donne che proporre una lettura dei problemi senza nominare il proprio posizionamento, senza dire agli altri quali lenti poggiano sul proprio naso, è come cancellare porzioni intere di mondo, negare il conflitto costituente dell’esistente. Per questo vorrei prendere le mosse da suggestioni parziali per provare a guardare alle forme della politica: la città, il corpo, i processi decisionali.
La città non è semplicemente lo spazio fisico della politica ma è il luogo della politica; a nessuno di noi sfugge che il carattere relazionale dello spazio permette che esso si plasmi sulla produzione e sul sistema dei consumi, che produca confini e steccati. Dice Pietro Barcellona sulla città post-moderna: “la città si scompone in “città sistema” di connessioni funzionali che collega “punti non relazionali”, città del “desiderio senza limiti” in cui l’individuo è schiavo dei centri commerciali, una città ostile, città “telematica” fatta contemporaneamente di povertà e assenza di identità, in cui la socializzazione primaria si attua solo attraverso le istituzioni totali, città malata, in cui crescono l’alienazione e la solitudine che sono colmate dall’uso di psicofarmaci. Un mostro urbano fatto di caos e di dominio.” Caos e dominio, dispersione e controllo, povertà e consumismo: sono questi, mi sembra, gli ossimori che inghiottono la politica per restituircela nei salotti di Vespa costruiti per annullare la distanza tra quel salotto e quello della propria casa.

Porta a porta appunto. Immaginiamo, anzi raccontiamo in questo nostra discussione, che cos’è un circolo, spesso di qualche stanza malmessa, in quartiere qualsiasi di questo caos e dominio. Cos’è e cosa dovrebbe essere, per porsi all’altezza della sfida che affrontiamo da tempo. Penso che di questo dovremmo ragionare a lungo: la difficoltà di ricostruire un’ipotesi di trasformazione proviene anche da questi luoghi. Luoghi in cui come nelle città di provincia lombarde si può finire in sedia a rotelle per una scritta sul muro grazie ad un colpo sparato dalla polizia anti-writers. O luoghi in cui, come i quartieri napoletani, gli spazi sono perimetrati dalla presenza camorristica e l’assenza di luoghi della cittadinanza produce violenza e arbitrio, disuguaglianza e ghetti. Luoghi in cui non si pone semplicisticamente il problema di rafforzare la nostra presenza sul territorio, come spesso diciamo quasi retoricamente, ma si pone il problema di dare senso alla nostra presenza, di creare le condizioni perché essa possa essere un antidoto all’interiorizzazione della ragione strumentale che ispira la moltiplicazione dei non luoghi nella città, come i quartieri dormitorio, funzionali alla catena dei processi produttivi, e che occulta la costituzione sociale dell’individuo e dell’istituzione politica della società. Questi sono gli spazi in cui la mia generazione vive la precarietà come condizione esistenziale, che non ci dice soltanto del contratto di lavoro che si è potuto firmare, ma dice anche di un mondo in cui viene espropriato il tempo e lo spazio, l’identità, la possibilità di una traiettoria di vita coerente con le proprie libere scelte, ti viene espropriato a volte anche il desiderio, che diventa spazio da colonizzare in funzione della produzione di profitto e valore. E’ naturale che anche l’impegno politico subisca gli effetti di questi mutamenti: la militanza totale non soltanto non è più capace di incrociare i processi di identificazione e di costruzione nella propria personalità, ma forse non è più nemmeno materialmente possibile, se il tempo e gli spazi non sono più a nostra libera disposizione.

La militanza segna il passo nei confronti della forma fluida e molteplice dell’attivismo, dell’impegno su percorsi tematici, di un intreccio spurio ma fecondo tra il fare politica e il fare società. Un'altra società negli interstizi dei legami sociali improntati dal neoliberismo. Una parzialità. E’ a partire da qui che proponiamo un ripensamento radicale delle forme della partecipazione e dell’organizzazione che forse ha già trovato tra di noi alcuni sentieri per percorrersi ma che ora ha bisogno di strade. Di strade e di piazze. Perché aspiriamo a trasformare noi stessi in una sorta di piazza in continuo fermento, uno spazio in cui abbia un senso fermarsi per dire la propria, prender parola, costruire una relazione. Trasformare noi stessi in una piazza è per noi aprire uno spazio pubblico, inteso in tanti modi diversi, ma in ogni modo che sia un casamatta nella perdita del senso e dell’importanza di se nella dimensione pubblica e collettiva. Lo spazio pubblico è aperto per definzione, non minoritario, non settario, non ingessato da dogmi ideologici. Vi hanno cittadinanza la cultura e la riflessione teorica, ma anche i bisogni e i disagi, le proposte e le azioni, gli incubi e i sogni, l’unanimità e il dissenso. Nello spazio pubblico vive la partecipazione come insubordinazione alla separatezza della politica, all’autoreferenzialità dei gruppi dirigenti, alla lontananza siderale delle istituzioni e del loro linguaggio.

Lo spazio pubblico non è verticista ne burocratico. Se è così, se condividiamo quest’esigenza, dobbiamo ricostruire l’idea del circolo in relazione al territorio: dai circoli tematici all’apertura di librerie, alla messa a disposizione di spazi alle associazioni presenti nel quartiere fino all’apertura di sportelli dei diritti, di momenti ludici sottratti alla mercificazione. Lo spazio è un bene comune nelle nostre città assediate dalle speculazioni edilizie. Mettiamolo in comune allora, occupiamolo, utilizziamolo, viviamolo. L’esperienza degli spazi sociali occupati ci parla di questa necessità di dare vita a presidi democratici. Per questo trovo almeno imbarazzante che il più delle volte il nostro piccolo tesoro di spazio venga aperto una colta alla settimana per qualche riunione di una decina di persone. Contemporaneamente la stessa condizione di precarietà esistenziale ci impone di interrogarci sulla nostra capacità di far emergere i soggetti sociali e le condizioni materiali in cui essi si riconoscono e in cui vivono come deflagrazione delle contraddizioni. La fase politica che viviamo ha bisogno dell’irruzione di soggetti in carne ed ossa, dimenticati dalla rappresentazione mediatica del mondo, che possano immaginare, costruire, rivendicare un inversione di rotta, che possano dare incrinare una rappresentazione neutra e indistinta, fredda e tecnicista, che produce una rappresentanza con gli stessi caratteri e far esplodere le contraddizioni di un liberismo illiberale e antisociale, di una democrazia che non può essere mai compiuta nelle proprie procedure chiuse nelle aule dei parlamenti.

Per la mia generazione il movimento dei movimenti è stato uno spazio pubblico, è stato la capacità di farsi spazio pubblico contro l’individualizzazione della politica. Per questo siamo lontani dalla competizione sulla rappresentanza che anche negli ultimi mesi ci è stata restituita dal dibattito politico mainstream: non abbiamo mai voluto rappresentare, al contrario abbiamo voluto ogni volta partecipare. E vogliamo rifuggere il rischio che anche nella nostra comunità non soltanto si concorra per ricoprire un incarico istituzionale, ma che si concorra nella ricerca di una visibilità, della propria capacità presunta di rappresentare movimenti, associazioni, singoli che hanno rifiutato in questi anni di delegare per prendere invece tra le proprie mani il futuro. Assistiamo in questi ultimi mesi al manifestarsi di atti antipolitici. Segni, non ancora una tendenza, ma che devono farci riflettere sui rischi che la crisi della politica porta con se e a cui noi non siamo estranei. A Vicenza, dopo la straordinaria manifestazione e la mancanza di risposte dei governi locali e nazionale, continua il rogo delle tessere elettorali, e a volte nelle assemblee della conferenza d’organizzazione la reazione alla discussione sulla riforma delle pensioni produce un senso di rinuncia, un “non vado più a votare”. Le attese che si sono caricate negli anni di opposizione alle destre chiedono alla politica un cambio di passo. Abbiamo bisogno di partecipazione, di abbassare il ponte levatoio che spesso si alza dai tanti “palazzo Chigi” diffusi nei territori, l’autonomizzazione e i poteri dei sindaci e dei presidenti espropriano la possibilità stessa delle popolazioni di poter condividere le scelte. La presa di decisione è il tema posto dai movimenti in questi anni.

Chi? Dove? Perché? Sono le domande che risuonano dalle strade di Genova a quelle di Vicenza e a tutti i comuni in cui termovalorizzatori, tav, ponti, sono opere necessitate dallo sviluppismo, dalla modernizzazione senza modernità. Anche la stessa natura dei governi, il vincolo democratico con le assemblee elettive è messa in discussione da una governance fatta di lobby, poteri forti che più delle mobilitazioni di popolo esercitano con forza il potere di condizionamento sulle scelte. Una governance che non rispetta la democrazia formale e sostanziale. La crescita di una cultura della partecipazione è l’unico antidoto. La rete del nuovo municipio è andata oltre il bilancio partecipato, oggi è parte di una rete globale che dal social forum di Nairobi all’assemblea di Bruxelles dei giorni scorsi promuove legislazione dal basso, autogoverno, nuove pratiche di democrazia. Una neo generazione di attivisti che hanno rifiutato l’idea di essere amministratori ma promotori di una cessione di sovranità alla cittadinanza. Al potere verticale dei governi si contrappone un altro potere, altro perché diverso, perché non fondato sulla fisiognomica dell’amministratore o eletto tipico: uomo, 50enne, bianco. Occupare postazioni di governo, a tutti livelli, deve significare per noi dare spazio e strumenti all’autogoverno, all’autoorganizzazione. Mi sembra che oggi si possa prendere in considerazione la realtà di un’alternativa: o siamo noi a cambiare il governo o sarà lui a cambiare noi. Ne abbiamo discusso mettendo a tema nella riflessione sulla non-violenza la coerenza dei mezzi con i fini, nominando il pericolo della corruzione dei processi del cambiamento.

E’ per questo che in ragione della nostra presenza tattica e non strategica al Governo di questo paese è oggi fondamentale aprire gli assessorati, i consigli, i ministeri. La traiettoria dello sguardo rivolta dall’interno verso l’esterno, mai viceversa.
Questo è un effetto importante della crisi della politica a cui dobbiamo essere in grado di sottrarci: mentre la precarietà prova a rompere il legame tra soggetti diversi, a rendere impossibile il riconoscersi dentro la struttura di una produzione frantumata e delocalizzata, sempre più immateriale, che non permette più la coincidenza di tempo mansione e luogo dei lavoratori, la politica smette di essere agire collettivo e diventa anch’essa smaterializzata, anch’essa flusso di informazione, migliaia di dichiarazioni e sandwich televisivi in cui persino i nessi sintattici possono venire a mancare.
A nessuno sfugge il nesso che lega oggi informazioni e potere. Eppure i saperi riescono a sfuggire alle gabbie strette della privatizzazione e del controllo: il copy-left diventa forma di produzione di sapere sociale, libero, perfezionabile. Si è realizzata in questi anni, attraverso la musica scaricata da milioni di giovani sul web la più grande redistribuzione di risorse artistiche e culturali mai avvenuta, eppure il nostro partito e anche i giovani comunisti vi hanno posto troppa poca attenzione: mentre vere e proprie guerre perimentravano i confini di una rivoluzione in atto che democratizzava l’accesso all’esperienza e all’informazione, come ha più volte scritto Jeremy Rifkins, mentre il movimento dei movimenti costruiva luoghi orizzontali di controinformazione che prendevano il posto dei molto meno dinamici siti ufficiali, mentre esplode il, fenomeno yuotube noi facevamo e facciamo ancora troppa fatica a costruire strumenti efficaci per quanto riguarda i nuovi media, per guardare a sistemi integrati di comunicazione, a vere e proprie community, ad agenzie autogestite che ci diano la possibilità di inserirci in reti virtuali di attivismo e di impegno. Non cercando sempre un elemento di costruzione e gestione centrale ma immaginando un’autogestione dal basso, un’orizzontalità, un proliferare di esperienze.

Si può dice la storia del movimento femminista produrre pratica politica anche senza organizzazione, e quella pratica può cambiare le cose, stravolgere sistemi culturali e abitudini sedimentati in secoli. Il punto per noi è oggi rendere possibile l’attraversamento del partito a questa pratica di trasformazione che prende le mosse da una differenza radicale e irriducibile, quella di genere. Il pensiero delle donne non è un pensiero tra gli altri. E’ il pensiero e la forma della politica dell’altra metà del cielo. Per un partito che si pone la necessità di rifondare la cultura politica della sinistra sottovalutare il portato dell’irruzione delle donne nella politica sarebbe, e molto spesso è stato fin qui nella nostra storia collettiva, un errore capitale. Nell’astrattezza delle culture filosofiche della trasformazione il femminismo ha portato il corpo, il corpo come limite imposto alla vita di fronte alla volontà di potenza, il corpo come terreno del controllo e oggi, il corpo nella connessione inedita con la tecnica su tutti i temi centrali di bioetica, su tutte le frontiere del pensiero.

E questo pensiero esiste in ragione della sua natura incarnata, ovvero delle tante compagne che in questo partito troppo spesso vedono replicarsi forme del nuovo e del vecchio patriarcato. E’ per questo che ritengo fondamentale che alla fine di questa conferenza d’organizzazione questa comunità di uomini e donne decida di dare reale applicazione alla norma anti-discriminatoria contenuta nel nostro statuto. Non perché le “quote” siano il fine della politica della donne ma perché possano essere uno strumento per dare spazio alla politica delle donne. Per dare spazio al genere femminile ma anche ai tanti generi che contribuiscono alla costruzione dell’identità sessuale di ognuno e ognuna di noi. Sarebbe un paradosso per noi troppo scottante proporre al paese una grande battaglia sulla cittadinanza e sui diritti civili senza essere in grado di dare concretezza ad un’altra relazione tra di noi, un relazione che rifiuti il potere, che si rifiuti di agirlo. Per farlo dobbiamo come scriveva Virginia Woolf “fluire pur restando radicati”, radicati nel futuro più che nel passato, aggiungo io.

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