Comunicazione alla Conferenza d’Organizzazione Carrara 29 marzo
1 aprile.
Elisabetta Piccolotti – Portavoce nazionale Giovani Comunisti/e
Oggi mettiamo al centro della nostra discussione la possibilità
della trasformazione dell’esistente: la crisi della politica e della
rappresentanza è infatti lo snodo centrale per ripensare l’efficacia
e l’attualità della nostra proposta politica agli inizi del
nuovo millennio. Le fratture dell’immaginario nell’epoca della
globalizzazione neoliberista allo stesso tempo determinano e simbolizzano
fratture sociali, faglie aperte nelle relazioni fra gli individui e la
propria identità, nella relazione tra l’io e l’altro,
nelle aggregazioni sociali sempre più mobili ed evanescenti. Le
forme della politica si articolano in un tempo che appare sempre più
come quello del non più, il non più del ‘900, dei
concetti e degli arnesi teorici della modernità e il non ancora
di un’incompiutezza che ci costringe fortunatamente alla ricerca
continua, alla sperimentazione, a mettere in gioco pratiche e analisi,
a utilizzare linguaggi e parole nuove, ricostruite nella relazione con
il presente.
L’immaginario dell’adolescenza della mia generazione parlava
la lingua morta del pensiero unico: quella della riduzione a tecnica della
politica e delle forme di vita stesse. Due diversi eventi hanno incrinato
quel pensiero, l’irruzione dei corpi nello spazio pubblico ha accumunato
entrambi: prima i corpi avvolti in protezioni di gommapiuma, i corpi nelle
strade e nelle danze, il corpo esanime di Carlo durante le straordinarie
e drammatiche giornate di Genova e solo qualche settimana più tardi
i corpi i volo davanti agli specchi delle torri gemelle e i corpi che
si fanno esplodere nel giorno dell’11 settembre 2001.
Ancora oggi quei due eventi si contendono lo spazio dell’immaginario
e della politica. Anche le paure e i nostri desideri si strutturano secondo
i significati sociali e la politica deve rispondere, pena la stessa sua
possibilità di darsi, di quelle paure e di quei desideri. La ristrutturazione
radicale dei processi produttivi, dal fordismo al post-fordismo, non soltanto
ha mutato le condizioni di costruzione dell’identità sociale
ma hanno cambiato la natura e le forme del conflitto sociale. Non le hanno
trasformate in maniera definitiva, hanno prodotto un mutamento continuo,
un una processualità che non si fa mai trovare dove ci si aspetta
ma mette sempre al centro il ripensamento dei caratteri fondativi della
democrazia, nello stesso momento in cui tematizza l’insostenibilità
del modello neoliberista e l’esigenza irrimandabile di una trasformazione
radicale. Dagli assedi e i controvertici per contestare le nuove forme
del potere, sempre più economiche, sempre più diffuse e
celate, alle manifestazioni pacifiste, fino ai conflitti che hanno fatto
cambiare segno ad una parola, la comunità, che era entrata nel
pensiero delle destre per uscirne incontrando il nesso con la partecipazione.
Una critica che si manifestava in carne ed ossa al cuore della sovranità.
E’ per questo che è in questo campo attraversato da tensioni
che vive oggi la ricerca sulle forme e sull’organizzazione della
politica, su un collettivo di uomini e donne a cui abbiamo deciso di dare
la forma di partito. Abbiamo bisogno di una miriade di strumenti nuovi,
di nuove cassette degli attrezzi che sappiamo sviscerare l’ambivalenza
delle parole che troppo spesso utilizziamo dando per scontato significati
e significati che hanno perso il mordente sul reale. Come scriveva Wittgestein
gli attrezzi del nostro linguaggio devono essere connessi con una pratica,
un uso: svitare un bullone con un cacciavite è semplicemente impossibile.
La sinistra del nuovo millennio deve reinventare se stessa. Abbiamo intrapreso
la strada ormai da qualche anno: il partito della Sinistra Europea, l’assunzione
della molteplicità delle culture delle sinistre, la sperimentazione
di un nuovo agire, la riflessione sulla non-violenza, la democrazia dei
generi, l’ambientalismo e ancora tanti altri rivoli e percorsi che
ora debbono farsi materialità, che oggi abbiamo il compito di far
incidere sulle nostre forme organizzative.
Questa ricerca deve innanzitutto interrogare l’esistente, scandagliarlo
se possibile, evitando di incagliarsi sugli scogli della separatezza e
dell’autoreferenzialità della politica. Deve interrogare
il passato, la storia e la memoria, e il futuro, l’immagine e la
possibilità dell’alternativa. Deve interrogare il potere,
le sue strutture, le sue diramazioni sociali. Deve anche e sopratutto
criticare il potere, abbandonarne le fascinazioni, saper leggere le distorsioni
che il potere agisce sul pensiero e sulla pratica. Deve mettere a critica
le relazioni tra di noi e le relazioni tra il partito e la società.
Abbiamo come punto di partenza un documento coraggioso per fare tutto
ciò. Coraggioso perché non teme la critica anche di noi
stessi, coraggioso anche perchè mette a tema la necessità
di andare oltre il rito della politica, senza temere di scardinare la
forza con cui quel rito presiede e difende l’identità e l’appartenenza
collettiva. E’ alla radice che guardiamo, perché sia possibile
realmente spostare il fine e l’obiettivo fuori di noi e dare spazio
in quello spostamento alla creatività della politica, alla riconfigurazione
dell’agire collettivo, alla contaminazione con le diversità,
alla deflagrazione della differenza.
Ho imparato dal pensiero delle donne che proporre una lettura dei problemi
senza nominare il proprio posizionamento, senza dire agli altri quali
lenti poggiano sul proprio naso, è come cancellare porzioni intere
di mondo, negare il conflitto costituente dell’esistente. Per questo
vorrei prendere le mosse da suggestioni parziali per provare a guardare
alle forme della politica: la città, il corpo, i processi decisionali.
La città non è semplicemente lo spazio fisico della politica
ma è il luogo della politica; a nessuno di noi sfugge che il carattere
relazionale dello spazio permette che esso si plasmi sulla produzione
e sul sistema dei consumi, che produca confini e steccati. Dice Pietro
Barcellona sulla città post-moderna: “la città si
scompone in “città sistema” di connessioni funzionali
che collega “punti non relazionali”, città del “desiderio
senza limiti” in cui l’individuo è schiavo dei centri
commerciali, una città ostile, città “telematica”
fatta contemporaneamente di povertà e assenza di identità,
in cui la socializzazione primaria si attua solo attraverso le istituzioni
totali, città malata, in cui crescono l’alienazione e la
solitudine che sono colmate dall’uso di psicofarmaci. Un mostro
urbano fatto di caos e di dominio.” Caos e dominio, dispersione
e controllo, povertà e consumismo: sono questi, mi sembra, gli
ossimori che inghiottono la politica per restituircela nei salotti di
Vespa costruiti per annullare la distanza tra quel salotto e quello della
propria casa. Porta a porta appunto. Immaginiamo, anzi raccontiamo in
questo nostra discussione, che cos’è un circolo, spesso di
qualche stanza malmessa, in quartiere qualsiasi di questo caos e dominio.
Cos’è e cosa dovrebbe essere, per porsi all’altezza
della sfida che affrontiamo da tempo. Penso che di questo dovremmo ragionare
a lungo: la difficoltà di ricostruire un’ipotesi di trasformazione
proviene anche da questi luoghi. Luoghi in cui come nelle città
di provincia lombarde si può finire in sedia a rotelle per una
scritta sul muro grazie ad un colpo sparato dalla polizia anti-writers.
O luoghi in cui, come i quartieri napoletani, gli spazi sono perimetrati
dalla presenza camorristica e l’assenza di luoghi della cittadinanza
produce violenza e arbitrio, disuguaglianza e ghetti. Luoghi in cui non
si pone semplicisticamente il problema di rafforzare la nostra presenza
sul territorio, come spesso diciamo quasi retoricamente, ma si pone il
problema di dare senso alla nostra presenza, di creare le condizioni perché
essa possa essere un antidoto all’interiorizzazione della ragione
strumentale che ispira la moltiplicazione dei non luoghi nella città,
come i quartieri dormitorio, funzionali alla catena dei processi produttivi,
e che occulta la costituzione sociale dell’individuo e dell’istituzione
politica della società. Questi sono gli spazi in cui la mia generazione
vive la precarietà come condizione esistenziale, che non ci dice
soltanto del contratto di lavoro che si è potuto firmare, ma dice
anche di un mondo in cui viene espropriato il tempo e lo spazio, l’identità,
la possibilità di una traiettoria di vita coerente con le proprie
libere scelte, ti viene espropriato a volte anche il desiderio, che diventa
spazio da colonizzare in funzione della produzione di profitto e valore.
E’ naturale che anche l’impegno politico subisca gli effetti
di questi mutamenti: la militanza totale non soltanto non è più
capace di incrociare i processi di identificazione e di costruzione nella
propria personalità, ma forse non è più nemmeno materialmente
possibile, se il tempo e gli spazi non sono più a nostra libera
disposizione.
La militanza segna il passo nei confronti della forma fluida e molteplice
dell’attivismo, dell’impegno su percorsi tematici, di un intreccio
spurio ma fecondo tra il fare politica e il fare società. Un'altra
società negli interstizi dei legami sociali improntati dal neoliberismo.
Una parzialità. E’ a partire da qui che proponiamo un ripensamento
radicale delle forme della partecipazione e dell’organizzazione
che forse ha già trovato tra di noi alcuni sentieri per percorrersi
ma che ora ha bisogno di strade. Di strade e di piazze. Perché
aspiriamo a trasformare noi stessi in una sorta di piazza in continuo
fermento, uno spazio in cui abbia un senso fermarsi per dire la propria,
prender parola, costruire una relazione. Trasformare noi stessi in una
piazza è per noi aprire uno spazio pubblico, inteso in tanti modi
diversi, ma in ogni modo che sia un casamatta nella perdita del senso
e dell’importanza di se nella dimensione pubblica e collettiva.
Lo spazio pubblico è aperto per definzione, non minoritario, non
settario, non ingessato da dogmi ideologici. Vi hanno cittadinanza la
cultura e la riflessione teorica, ma anche i bisogni e i disagi, le proposte
e le azioni, gli incubi e i sogni, l’unanimità e il dissenso.
Nello spazio pubblico vive la partecipazione come insubordinazione alla
separatezza della politica, all’autoreferenzialità dei gruppi
dirigenti, alla lontananza siderale delle istituzioni e del loro linguaggio.
Lo spazio pubblico non è verticista ne burocratico. Se è
così, se condividiamo quest’esigenza, dobbiamo ricostruire
l’idea del circolo in relazione al territorio: dai circoli tematici
all’apertura di librerie, alla messa a disposizione di spazi alle
associazioni presenti nel quartiere fino all’apertura di sportelli
dei diritti, di momenti ludici sottratti alla mercificazione. Lo spazio
è un bene comune nelle nostre città assediate dalle speculazioni
edilizie. Mettiamolo in comune allora, occupiamolo, utilizziamolo, viviamolo.
L’esperienza degli spazi sociali occupati ci parla di questa necessità
di dare vita a presidi democratici. Per questo trovo almeno imbarazzante
che il più delle volte il nostro piccolo tesoro di spazio venga
aperto una colta alla settimana per qualche riunione di una decina di
persone. Contemporaneamente la stessa condizione di precarietà
esistenziale ci impone di interrogarci sulla nostra capacità di
far emergere i soggetti sociali e le condizioni materiali in cui essi
si riconoscono e in cui vivono come deflagrazione delle contraddizioni.
La fase politica che viviamo ha bisogno dell’irruzione di soggetti
in carne ed ossa, dimenticati dalla rappresentazione mediatica del mondo,
che possano immaginare, costruire, rivendicare un inversione di rotta,
che possano dare incrinare una rappresentazione neutra e indistinta, fredda
e tecnicista, che produce una rappresentanza con gli stessi caratteri
e far esplodere le contraddizioni di un liberismo illiberale e antisociale,
di una democrazia che non può essere mai compiuta nelle proprie
procedure chiuse nelle aule dei parlamenti. Per la mia generazione il
movimento dei movimenti è stato uno spazio pubblico, è stato
la capacità di farsi spazio pubblico contro l’individualizzazione
della politica. Per questo siamo lontani dalla competizione sulla rappresentanza
che anche negli ultimi mesi ci è stata restituita dal dibattito
politico mainstream: non abbiamo mai voluto rappresentare, al contrario
abbiamo voluto ogni volta partecipare. E vogliamo rifuggere il rischio
che anche nella nostra comunità non soltanto si concorra per ricoprire
un incarico istituzionale, ma che si concorra nella ricerca di una visibilità,
della propria capacità presunta di rappresentare movimenti, associazioni,
singoli che hanno rifiutato in questi anni di delegare per prendere invece
tra le proprie mani il futuro. Assistiamo in questi ultimi mesi al manifestarsi
di atti antipolitici. Segni, non ancora una tendenza, ma che devono farci
riflettere sui rischi che la crisi della politica porta con se e a cui
noi non siamo estranei. A Vicenza, dopo la straordinaria manifestazione
e la mancanza di risposte dei governi locali e nazionale, continua il
rogo delle tessere elettorali, e a volte nelle assemblee della conferenza
d’organizzazione la reazione alla discussione sulla riforma delle
pensioni produce un senso di rinuncia, un “non vado più a
votare”. Le attese che si sono caricate negli anni di opposizione
alle destre chiedono alla politica un cambio di passo. Abbiamo bisogno
di partecipazione, di abbassare il ponte levatoio che spesso si alza dai
tanti “palazzo Chigi” diffusi nei territori, l’autonomizzazione
e i poteri dei sindaci e dei presidenti espropriano la possibilità
stessa delle popolazioni di poter condividere le scelte. La presa di decisione
è il tema posto dai movimenti in questi anni. Chi? Dove? Perché?
Sono le domande che risuonano dalle strade di Genova a quelle di Vicenza
e a tutti i comuni in cui termovalorizzatori, tav, ponti, sono opere necessitate
dallo sviluppismo, dalla modernizzazione senza modernità. Anche
la stessa natura dei governi, il vincolo democratico con le assemblee
elettive è messa in discussione da una governance fatta di lobby,
poteri forti che più delle mobilitazioni di popolo esercitano con
forza il potere di condizionamento sulle scelte. Una governance che non
rispetta la democrazia formale e sostanziale. La crescita di una cultura
della partecipazione è l’unico antidoto. La rete del nuovo
municipio è andata oltre il bilancio partecipato, oggi è
parte di una rete globale che dal social forum di Nairobi all’assemblea
di Bruxelles dei giorni scorsi promuove legislazione dal basso, autogoverno,
nuove pratiche di democrazia. Una neo generazione di attivisti che hanno
rifiutato l’idea di essere amministratori ma promotori di una cessione
di sovranità alla cittadinanza. Al potere verticale dei governi
si contrappone un altro potere, altro perché diverso, perché
non fondato sulla fisiognomica dell’amministratore o eletto tipico:
uomo, 50enne, bianco. Occupare postazioni di governo, a tutti livelli,
deve significare per noi dare spazio e strumenti all’autogoverno,
all’autoorganizzazione. Mi sembra che oggi si possa prendere in
considerazione la realtà di un’alternativa: o siamo noi a
cambiare il governo o sarà lui a cambiare noi. Ne abbiamo discusso
mettendo a tema nella riflessione sulla non-violenza la coerenza dei mezzi
con i fini, nominando il pericolo della corruzione dei processi del cambiamento.
E’ per questo che in ragione della nostra presenza tattica e non
strategica al Governo di questo paese è oggi fondamentale aprire
gli assessorati, i consigli, i ministeri. La traiettoria dello sguardo
rivolta dall’interno verso l’esterno, mai viceversa.
Questo è un effetto importante della crisi della politica a cui
dobbiamo essere in grado di sottrarci: mentre la precarietà prova
a rompere il legame tra soggetti diversi, a rendere impossibile il riconoscersi
dentro la struttura di una produzione frantumata e delocalizzata, sempre
più immateriale, che non permette più la coincidenza di
tempo mansione e luogo dei lavoratori, la politica smette di essere agire
collettivo e diventa anch’essa smaterializzata, anch’essa
flusso di informazione, migliaia di dichiarazioni e sandwich televisivi
in cui persino i nessi sintattici possono venire a mancare.
A nessuno sfugge il nesso che lega oggi informazioni e potere. Eppure
i saperi riescono a sfuggire alle gabbie strette della privatizzazione
e del controllo: il copy-left diventa forma di produzione di sapere sociale,
libero, perfezionabile. Si è realizzata in questi anni, attraverso
la musica scaricata da milioni di giovani sul web la più grande
redistribuzione di risorse artistiche e culturali mai avvenuta, eppure
il nostro partito e anche i giovani comunisti vi hanno posto troppa poca
attenzione: mentre vere e proprie guerre perimentravano i confini di una
rivoluzione in atto che democratizzava l’accesso all’esperienza
e all’informazione, come ha più volte scritto Jeremy Rifkins,
mentre il movimento dei movimenti costruiva luoghi orizzontali di controinformazione
che prendevano il posto dei molto meno dinamici siti ufficiali, mentre
esplode il, fenomeno yuotube noi facevamo e facciamo ancora troppa fatica
a costruire strumenti efficaci per quanto riguarda i nuovi media, per
guardare a sistemi integrati di comunicazione, a vere e proprie community,
ad agenzie autogestite che ci diano la possibilità di inserirci
in reti virtuali di attivismo e di impegno. Non cercando sempre un elemento
di costruzione e gestione centrale ma immaginando un’autogestione
dal basso, un’orizzontalità, un proliferare di esperienze.
Si può dice la storia del movimento femminista produrre pratica
politica anche senza organizzazione, e quella pratica può cambiare
le cose, stravolgere sistemi culturali e abitudini sedimentati in secoli.
Il punto per noi è oggi rendere possibile l’attraversamento
del partito a questa pratica di trasformazione che prende le mosse da
una differenza radicale e irriducibile, quella di genere. Il pensiero
delle donne non è un pensiero tra gli altri. E’ il pensiero
e la forma della politica dell’altra metà del cielo. Per
un partito che si pone la necessità di rifondare la cultura politica
della sinistra sottovalutare il portato dell’irruzione delle donne
nella politica sarebbe, e molto spesso è stato fin qui nella nostra
storia collettiva, un errore capitale. Nell’astrattezza delle culture
filosofiche della trasformazione il femminismo ha portato il corpo, il
corpo come limite imposto alla vita di fronte alla volontà di potenza,
il corpo come terreno del controllo e oggi, il corpo nella connessione
inedita con la tecnica su tutti i temi centrali di bioetica, su tutte
le frontiere del pensiero. E questo pensiero esiste in ragione della sua
natura incarnata, ovvero delle tante compagne che in questo partito troppo
spesso vedono replicarsi forme del nuovo e del vecchio patriarcato. E’
per questo che ritengo fondamentale che alla fine di questa conferenza
d’organizzazione questa comunità di uomini e donne decida
di dare reale applicazione alla norma anti-discriminatoria contenuta nel
nostro statuto. Non perché le “quote” siano il fine
della politica della donne ma perché possano essere uno strumento
per dare spazio alla politica delle donne. Per dare spazio al genere femminile
ma anche ai tanti generi che contribuiscono alla costruzione dell’identità
sessuale di ognuno e ognuna di noi. Sarebbe un paradosso per noi troppo
scottante proporre al paese una grande battaglia sulla cittadinanza e
sui diritti civili senza essere in grado di dare concretezza ad un’altra
relazione tra di noi, un relazione che rifiuti il potere, che si rifiuti
di agirlo. Per farlo dobbiamo come scriveva Virginia Woolf “fluire
pur restando radicati”, radicati nel futuro più che nel passato,
aggiungo io.
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