Conferenza nazionale d’organizzazione – Carrara, 29 marzo
1° aprile 2007
Proposta di documento conclusivo
Le conferenze di circolo e provinciali hanno evidenziato la forte esigenza
da parte del corpo del partito di un confronto approfondito sull’esperienza
attraversata nel corso di questi 10 mesi di partecipazione al governo
nazionale.
Questa esigenza non è stata solo frutto della crisi del governo
successiva al voto del Senato sulla politica estera, ma anche di una necessità
più generale di affrontare in un dibattito franco e senza reticenze
un primo bilancio complessivo del governo stesso. Gli stessi dati dell’inchiesta
nazionale evidenziano come questo sia un punto di particolare sofferenza
del nostro dibattito.
La vicenda del voto sulla guerra in Afghanistan ne è solo l’illustrazione
più evidente. L’avere incatenato il partito alla sopravvivenza
ad ogni costo di questo governo ci ha condotti non solo a votare una guerra
ingiusta e inaccettabile, ma anche a un contrasto stridente e di fatto
insopportabile fra le dichiarazioni e le posizioni passate del partito
e il suo concreto comportamento nelle aule parlamentari. Una contraddizione
drammatica sia per la materia dello scontro, la guerra, sia per la manifesta
impotenza a ottenere un reale cambiamento. Mai come oggi il distacco fra
le parole e i fatti è stato così abissale e non basta certo
l’accusa di “antipolitica” a rimuovere questo gigantesco
problema.
La richiesta salita da numerose conferenze di dibattere sull’esperienza
di governo si lega non solo agli avvenimenti politici nazionali, ma anche
a un obiettivo distacco che gran parte dei circoli vive nei confronti
di un gruppo dirigente nazionale (e spesso anche locale) fortemente sbilanciato
sul terreno istituzionale.
Questa diffusa perplessità e malessere ha un lato positivo, poiché
riflette sentimenti diffusi di distacco, disincanto e in alcuni settori
anche di profonda delusione sia rispetto alla manifesta impermeabilità
del governo verso molte delle istanze più fortemente sentite (Vicenza
su tutte), sia rispetto alla completa mancanza di quelle misure di lotta
alla precarietà e in generale di politiche sociali in favore dei
lavoratori e delle classi subalterne, assenza che certo non può
essere compensata dalle minuscole elargizioni di una finanziaria che,
giunti alla famosa prova della “busta paga di gennaio” non
ha certo generato il consenso promesso a suo tempo.
L’allarme che si dice suoni per il governo Prodi, deve suonare ancora
più forte per il nostro partito, che obiettivamente non ha mai
vissuto un così pesante distacco dai lavoratori e dalle loro necessità
non solo di “rappresentanza”, ma innanzitutto di organizzazione
e promozione del conflitto sociale.
Il crollo dei consensi del governo, che nessuno a sinistra prova neppure
a negare, non ha trovato alcuna risposta convincente. Viceversa, appare
evidente come la demagogia reazionaria della destra, sostenuta da un pesantissimo
intervento della gerarchia ecclesiastica, affonda nel disagio sociale
e nel discredito di questo governo, dimostrando di essere in grado di
produrre mobilitazioni a sfondo razzista, reazionario, clericale e in
generale regressivo, che investono direttamente anche settori popolar.
La partecipazione della sinistra e del nostro partito innanzitutto al
governo apre obiettivamente uno spazio a questo tipo di campagne demagogicamente
ammantate di retorica sociale.
Si sta dimostrando completamente illusoria e pericolosa l’idea di
potere arginare questa offensiva aggrappandosi incondizionatamente all’attuale
maggioranza di governo, tanto meno oggi che questa si dimostra permeabile
alle offensive centriste ispirate dai nostri diretti avversari di classe.
La sinistra politica e sindacale appare finora completamente succube di
questo quadro, al quale reagisce con la più disastrosa rincorsa
al centro, il cui esito non può che essere quello di spalancare
la porta in futuro a un ritorno minaccioso della destra nella società
e nel governo.
La manifestazione più evidente di corsa al centro è il processo
costituente del Partito democratico, che intende sradicare definitivamente
ogni residuale riferimento alla sinistra, ai lavoratori, alla stessa parola
del socialismo. Il conseguente terremoto che investe i Ds, la Cgil e tutte
le organizzazioni legate a quel mondo ha immediatamente causato un riorientamento
della proposta della Sezione italiana della sinistra europea, la cui debolezza
era già evidente e che si è dimostrata in tempi brevissimi
del tutto inefficace a un intervento in questo processo.
È preoccupante che nel mezzo di una conferenza che coinvolge decine
di migliaia di iscritti e militanti, una svolta radicale come quella della
costruzione del “cantiere” della sinistra d’alternativa
venga lanciata senza alcun dibattito democratico attraverso un’intervista
sul nostro giornale, a dimostrazione che parlare di “rovesciare
le piramidi” è una cosa, ma accedere a modalità effettivamente
democratiche di dibattito e presa delle decisioni è assai più
arduo.
La differenziazione interna ai Ds e la conseguente, ormai inevitabile
scissione in quel partito sono di per se un fatto positivo. Tuttavia più
che mai dobbiamo essere coscienti che perché da questo processo
si producano esiti positivi sono indispensabili due condizioni:
1) Un impianto programmatico fortemente alternativo, legato a una prospettiva
strategica di vera e propria ricostruzione dell’iniziativa di classe
dei lavoratori e quindi svincolato dalla catena costituita dalla disciplina
di coalizione che oggi condiziona in modo decisivo ogni nostra iniziativa.
2) Una capacità d’intervento, mobilitazione e radicamento
fra i lavoratori e nelle organizzazioni di massa (Cgil per prima) di molto
superiori a quelle attualmente espresse dal partito.
Solo in presenza di questi due elementi è possibile costruire i
necessari punti di convergenza e azione comune con quelle forze che stanno
rompendo con la prospettiva del Pd.
Viceversa, in assenza di queste condizioni, il riallineamento in corso
non può che condurre a un ulteriore annacquamento politico, programmatico
e anche organizzativo del nostro partito, rendendolo sempre più
permeabile a teorie e programmi ispirati a un riformismo asfittico di
impronta liberale, del tutto incapace di rispondere alla crisi sociale
della nostra epoca.
Due metodi qui si contrappongono: uno è quello dell’unità
d’azione sul terreno politico e sociale (ad esempio: difesa delle
pensioni, lotta alla precarietà, difesa della scuola pubblica)
che non deve offuscare le differenze strategiche tra chi mantiene la prospettiva
comunista e anticapitalista e chi si colloca su un terreno di riforma
ancorato all’orizzonte del partito socialista europeo; è
questo il percorso che può permettere la massima efficacia delle
battaglie e anche la più aperta interlocuzione con quelle forze
che si stanno sottraendo alla liquidazione della sinistra nel Pd. L’altro
è quello di una surreale successione di strutture “concentriche”:
il Prc, la sezione italiana della SE, il cosiddetto “cantiere”
e infine la stessa Unione, in cui il confronto non può che svilupparsi
in modo opaco, sottratto a qualsiasi reale controllo e partecipazione
democratica dal basso, condannandosi quindi sempre alla ricerca della
mediazione al punto più basso. Un vero e proprio ingranaggio che
al di là di tutte le proclamate buone intenzioni vedrebbe precisamente
prevalere le “ingegnerie” degli stati maggiori sulla partecipazione
e mobilitazione democratica e di massa.
Il paragone con la Linke tedesca viene chiamato in causa del tutto a sproposito.
La Linke, infatti (che peraltro è ben lontana dall’aver dato
risposte soddisfacenti ai nodi teorici e strategici che abbiamo di fronte,
collocandosi all’interno di un orizzonte di riformismo “classico”)
è nata dall’unione di diversi settori che si sono innanzitutto
trovati a condurre una comune opposizione a un governo come quello di
Schroeder, guidato dalla destra socialdemocratica, che ha tentato di condurre
un attacco senza precedenti contro diritti conquistati lungo decenni dalla
classe operaia tedesca. Oggi la Linke si trova a condurre un’opposizione
a un governo di “Grande coalizione” fra socialdemocratici
e democristiani, ad esempio votando contro la partecipazione delle truppe
tedesche alla guerra in Afghanistan. È facile capire come il quadro
italiano sia radicalmente diverso, posto che attualmente tutte le forze
potenzialmente coinvolte nel “cantiere” si collocano all’interno
di un governo sempre più dominato dal suo settore confindustriale
e centrista, tanto da trovare la convergenza con l’Udc.
Il Comitato politico nazionale del partito non svolge un pieno dibattito
politico dallo scorso autunno. È necessario quindi che al più
presto il nostro principale organismo dirigente si riappropri delle sue
funzioni, avviando in tempi brevi un dibattito di bilancio, prospettive
e strategia che di fatto sarebbe anche un primo passaggio verso il dibattito
congressuale. Va quindi anche predisposto un percorso che oltre al Cpn
veda coinvolte le strutture periferiche. A questo dibattito va subordinato
sia il percorso “fondativo” della Sezione italiana della SE
(data la sua manifesta sterilità), sia ogni decisione riguardo
al rapporto da tenersi con la sinistra Ds e le altre forze del progetto
“neosocialista”.
Parallelamente al dibattito politico, va lanciato un percorso che a partire
dai temi di pensioni, Tfr, precarietà e privatizzazioni/liberalizzazione
orienti il partito a un sistematico lavoro di costruzione e radicamento
nei luoghi di lavoro, nel sindacato, nel territorio, per una vera e propria
svolta operaia, unico modo per garantire non solo la nostra tenuta nel
conflitto, ma anche la nostra capacità di non essere travolti sul
terreno ideologico, teorico, programmatico e organizzativo da tutte quelle
concezioni interclassiste che hanno accompagnato il pesante arretramento
nella condizione dei lavoratori nel nostro paese lungo gli ultimo vent’anni.
La forte critica manifestatasi in molte conferenze verso il provvedimento
di espulsione preso nei confronti del compagno Turigliatto (che in diverse
federazioni è risultata anche maggioritaria) dimostra come in una
parte importante della nostra militanza vi sia la coscienza che queste
misure non possono certo risolvere la crisi di strategia che colpisce
il nostro partito. A maggior ragione riteniamo disastrosa ogni tentazione
“aventiniana” o, peggio ancora, scissionista, che non farebbe
che rafforzare la deriva governista senza avvicinare di un solo passo
la costruzione di una alternativa percorribile per il partito e per i
lavoratori.
Claudio Bellotti, Alessandro Giardiello, Simona Bolelli, Mario Iavazzi,
Jacopo Renda
1 aprile 2007
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